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14 ottobre 2014

Iraq, il Patriarca assiro: i cristiani devono difendersi con le armi

By Vatican Insider - La Stampa
Gianni Valente
 
Il Patriarca Mar Dinkha IV guida la Chiesa assira d’Oriente dal lontano 1975. Ma lo fa da Chicago, dove la sede del Patriarcato si è trasferita da quasi ottant’anni. Anche la gran maggioranza dei suoi fedeli vivono ormai lontano dalla Mesopotamia, dalla Piana di Ninive e dai contrafforti montuosi del Kurdistan iracheno, concentrata nelle fiorenti comunità in diaspora sparse in America, Europa e Oceania. Per alcuni osservatori, la traiettoria della comunità cristiana assira sembra preannunciare il destino di altre Chiese  autoctone d’Oriente, a rischio di estinzione nelle proprie terre d’origine. 
 Dopo quello che sta succedendo, sarà ancora possibile riportare la sede del Patriarcato in Iraq?
Ho visitato l’Iraq nel 2006. Sono andato nei villaggi della nostra gente, ho avuto incontri coi politici. Allora si prospettava la possibilità che io tornassi in Iraq. È iniziato anche il progetto di costruzione di una residenza patriarcale a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, che viene portato avanti ancora oggi. Quello che sta accadendo proprio in quelle regioni per il momento blocca quel progetto. Ma noi continueremo a attendere, a verificare se ci sono le condizioni, e speriamo che un giorno questo possa realizzarsi. Aspettiamo anche che il governo iracheno riconosca gli assiri come popolo autoctono, titolare di diritti in quanto nazione, oltre ai diritti che relativi alla libertà religiosa che vogliamo vederci riconosciuti come cristiani. Ma un’insistenza eccessiva sull’identità etnica assira non può contribuire alle divisioni settarie che stanno dilaniando l’Iraq?
Noi siamo il popolo autoctono dell’Iraq. Rispettiamo tutti gli altri gruppi etnici e religiosi, ma noi non siamo arabi, non siamo curdi, non siamo turkomanni. Siamo assiri. E come cristiani apparteniamo alla Chiesa che si è radicata in Mesopotamia fin dall’inizio. Le due cose vanno insieme. È compito della Chiesa trovare un salutare bilanciamento, una salutare combinazione tra questi due elementi.
Per lungo tempo avete sognato una “homeland assira” dotata di autonomia nella Piana di Ninive. È un sogno infranto, dopo l’offensiva in quelle terre dello Stato Islamico?

L’idea di costituire una regione autonoma nella Piana di Ninive è  riemersa a partire dal 2006: Si sono creati organismi e gruppi, appoggiati da istituzioni e amministrazioni locali, per chiedere uno status di autonomia che consentisse alle popolazioni locali di autogovernarsi. Queste richieste avevano l’appoggio della gente, e per questo le ha sostenute anche la Chiesa. Ovviamente adesso il progetto non può essere messo in atto. Ma idealmente rimane ancora in piedi.

Escono notizie sull’esistenza di «milizie cristiane» tra le tante fazioni e realtà armate che si muovono nello spazio nord-iracheno. Come giudica Lei questo fenomeno?
Il limite tra gruppi di auto-difesa e milizie settarie a volte è sottile. Detto questo, la nostra Chiesa sostiene il fatto che i cristiani devono essere in grado di poter difendere se stessi, in circostanze particolari come quelle realizzatesi nella piana di Ninive. Abbiamo visto cosa è successo a Mosul: l’esercito regolare in poche ore è fuggito lasciando le armi e esponendo un popolo inerme di almeno 50 mila persone all’offensiva dei jihadisti, che poi hanno compiuto le atrocità che conosciamo. Cristo ci insegna a essere pacifici, a non aggredire neanche i nemici. Ma è lecito che i giovani prendano le armi solo per essere in grado di difendere se stessi e le loro famiglie, mai per attaccare.
Lei ha visitato da poco Papa Francesco.

Avevo letto e sentito parlare della grande umanità di questo Papa. Del suo modo di confessare Cristo mostrando amorevole compassione verso tutto il genere umano. È un vero pastore, attento alla salvezza delle anime, e questo lo aiuta anche nel modo in cui fa il vescovo di Roma, mostrando pieno rispetto per le altre Chiese. Per camminare verso l’unità occorre riconoscersi come fratelli, e fidarsi l’uno dell’altro.

L’antica Chiesa d’Oriente non ha mai avuto conflitti diretti con il vescovo di Roma. Sareste disposti a riconoscere la Sede di roma come “Prima Sede”?

Il problema è che per secoli, fino a tempi recenti, tra noi non c’è stato alcuni dialogo. Era il 1994 quando venni in visita per la prima volta in Vaticano e incontrai Giovanni Paolo II. Abbiamo sottoscritto la Dichiarazione comune sulla cristologia, dove si riconosce che la Chiesa Assira d’Oriente e la Chiesa cattolica confessano la stessa fede in Cristo, e si riconosce che le controversie cristologiche del lontano passato erano in gran parte dovute a malintesi. Tra le due Chiese non c’è stata in passato nessuna scomunica reciproca. Ma il ruolo del vescovo di Roma va studiato, anche per il modo in cui si è sviluppato negli ultimi secoli. È previsto che di questo si tratterà nella prossima fase del dialogo teologico bilaterale.A che livello è giunto il dialogo teologico tra Chiesa assira e Chiesa cattolica?

Già nel 1994 si era stabilito che dopo aver risolto i problemi sulla cristologia si sarebbe passati a trattare prima la questione dei sacramenti, e poi quella della costituzione della Chiesa, in cui rientra anche l’approfondimento sul ruolo del vescovo di Roma.  E a che punto siete?
In tempi brevi sottoscriveremo il documento comune sulla vita sacramentale della Chiesa, sul qualche c’è già un accordo e occorre solo fare qualche ultimo ritocco. E poi si passerà al tema della costituzione della Chiesa, e in quel contesto avverrà il discernimento sul ruolo del vescovo di Roma a livello locale, regionale e universale.