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28 ottobre 2013

Patriarca Sako: «Cristiani in politica per salvare l'Iraq»

Manuela Borraccino

È l’impegno dei cristiani nella vita politica e sociale la chiave di volta per la sopravvivenza del cristianesimo in Iraq e dello stesso Stato iracheno. Il patriarca di Babilonia dei caldei Louis Raphael I Sako è tornato a chiedere a presuli e laici stranieri un impegno pratico di formazione alla politica per uscire dalla difficile ricostruzione irachena, insieme all’amara constatazione che «l’Occidente non comprende i timori che i cristiani provano oggi in Medio Oriente».
Invitato sabato scorso, 26 ottobre, all’inaugurazione dell’anno accademico del Pontificio Istituto Orientale di Roma, il patriarca caldeo ha tracciato una serie di linee guida su come uscire dalla transizione senza fine che vive il Paese: l’Iraq ha conosciuto sei elezioni in otto anni e una violenza crescente che rende impossibile la convivenza e la riconciliazione nazionale. «Da dieci anni – ha rimarcato – non ci sono segnali di sicurezza né per i cristiani né per gli altri. La fragilità delle istituzioni e la debole percezione dell’identità nazionale mettono a rischio tutti ma soprattutto i cristiani». Egli ha confermato che a partire sono stati soprattutto i cristiani più istruiti e facoltosi, al punto che ormai sono rimasti solo i poveri e disagiati. «È un impoverimento per chi parte e per chi rimane, per tutto il Paese. Secondo il censimento del 1987 i cristiani erano 1 milione e 264 mila, oggi sono meno della metà. Se circa 700 mila sono fuggiti, chi ha deciso di restare deve essere incoraggiato».
Proprio per questo «dobbiamo istruire e formare le persone: serve un quadro politico per realizzare la democrazia. Chiediamo ai laici di essere più coinvolti nella cultura, nella società, nella politica del Paese: è necessario sviluppare una laicità positiva, una democrazia basata sui diritti umani, l’uguaglianza nella cittadinanza e la libertà». «Occorre formare un team specializzato di laici – ha soggiunto Sako – che studi, analizzi i problemi e proponga nuove soluzioni per migliorare la situazione delle nostre città e dei nostri villaggi, per costruire nuove abitazioni, nuove strade e creare lavoro, affinché i cristiani non si vedano costretti a emigrare. Che fare per introdurre nel Paese il rispetto della libertà religiosa e per riconoscere ai cristiani gli stessi diritti dei musulmani? Come partecipare in maniera attiva e costruttiva alla politica per servire il bene comune e non gli interessi di parte?».
Il patriarca ha caldeggiato la nascita di una coalizione dei partiti cristiani sotto un unico nome, ad esempio Unione nazionale cristiana irachena, visto che «i cristiani sono attualmente divisi in otto partiti, e questa dispersione li rende tutti irrilevanti». «Restando uniti – si è chiesto - non si potrebbe forse lanciare una campagna nazionale, con un programma come questo: “La pace e la convivenza, il rispetto di tutte le religioni e di tutte le confessioni, per una vera democrazia”? Perché non costituire un “consiglio politico cristiano” che si faccia carico dei problemi dei cristiani, senza trascurare quelli dell’intera comunità nazionale?».
Allo stesso tempo è fondamentale che i cristiani «siano presenti anche nei partiti non cristiani, soprattutto in vista delle elezioni del 2014, così da accrescere il numero dei parlamentari appartenenti alla nostra comunità: se i cristiani sono attivi, dinamici, certamente possono arrivare anche ad una quota maggiore di quella attualmente fissata a 5 parlamentari cristiani per ogni lista».
È importante che i cristiani della diaspora si iscrivano presso le ambasciate irachene all’estero per mantenere il diritto di voto, «così prezioso in tempo di elezioni». E bisognerebbe altresì creare un fondo di emergenza per aiutare le famiglie vittime di attentati (a Baghdad, Bassora, Mosul ci sono state tantissime vittime). «Occorre formare centri di emergenza per intervenire immediatamente nel sostegno alle famiglie e per rispondere a quanti sono continuamente bersagliati da azioni criminali quali omicidi, stupri, rapimenti, ruberie, incendi nelle chiese e danneggiamenti delle abitazioni. Se ci fossero tali centri, coloro che vi lavorano potrebbero intervenire rapidamente a sostegno di quegli innocenti, per non lasciarli soli di fronte a questi orribili crimini».
E ancora: «I cristiani devono unire i loro sforzi per mantenere la coesione nazionale e difendere il diritto alla libertà religiosa come una componente fondamentale della società irachena e devono unirsi per realizzare tutto questo: siamo piccole Chiese sparse qua e là, senza unità non abbiamo futuro». Questo vale anche per il dialogo con i musulmani: «Senza dialogo – ribadisce Sako – non c’è vita, non c’è convivenza, e sono pienamente convinto che la maggior parte dei musulmani sia aperta al dialogo. Ci sono i fondamentalisti, per cui tutto è politicizzato, ma ci sono anche capi religiosi sensibili al dialogo. Penso inoltre che cristiani e musulmani debbano trovare, di comune accordo, un linguaggio più comprensibile per esprimere la loro fede».
La Lega Araba, l’Organizzazione per la Conferenza islamica e le autorità religiose dovrebbero promulgare «un documento ufficiale nel quale riconoscono ai cristiani il loro diritto come cittadini uguali agli altri, separando finalmente la religione dalla politica». Inoltre «i Paesi occidentali devono dire a loro stessi che non giova a nulla fabbricare e vendere armi: meglio sarebbe per loro e per gli altri fabbricare cose utili per la vita e la prosperità».
Servono insomma pragmatismo, studio, azione, e una grande tenacia. A maggior ragione in una situazione come quella che si vive oggi nell’intera regione, dove «il fondamentalismo islamico sta crescendo e i cristiani, indipendentemente dalle loro scelte e dal loro impegno, sono vittime di una congiuntura internazionale che li supera. Gli estremisti vogliono approfittare della situazione attuale per svuotare il Medio Oriente della presenza cristiana, come se essa fosse un ostacolo ai loro piani». Il pericolo maggiore, ha concluso Sako, viene dall’esistenza di una strategia per dividere il Medio Oriente in Paesi confessionali. Ormai si parla apertamente di divisioni lungo linee etniche e confessionali sia in Iraq che in Siria.