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16 novembre 2010

Iraq, l’appello dei cristiani E a Mosul si muore ancora

By Avvenire
di Luca Liverani

C’è chi progetta un nuovo Medio Oriente tutto musulmano e vede le minoranza cristiane «come un ostacolo per alcuni progetti politici ed economici». L’allarme è del vescovo iracheno Mikhael Al-Jamil: «Sarebbe un mostro – dice – che avrebbe sempre bisogno di essere ricoverato nell’ospedale della politica internazionale». Un mostro «senza storia, senza tradizione, senza etica, senza Dio». Il presule lancia un duplice appello. All’Occidente perché «alzi la voce contro ogni fanatismo, ingiustizia e violenza, in difesa della convivenza». Ma anche «all’islam migliore, che finora non ha potuto deplorare a sufficienza le correnti terroristiche»: «La permanenza cristiana in Medio Oriente – dice sua eccellenza Al-Jamil – sarà il chiaro segnale che i nostri fratelli musulmani hanno la volontà di impedire che fanatismo e terrorismo possano guastare la sostanza migliore dell’islam».
La giornata nazionale della Cei di preghiera per i cristiani dell’Iraq è fissata per domenica prossima. Ma la Diocesi di Roma decide di stringersi subito in un abbraccio ai fratelli iracheni, arrivati al Gemelli per curarsi grazie all’impegno della Farnesina. Domenica sera, parrocchia di Sant’Ippolito: la concelebrazione eucaristica è promossa dal Centro missionario diocesano, dall’Ufficio per la pastorale delle migrazioni e dall’Ufficio catechistico del Vicariato. Nella chiesa di piazza Bologna, guidata dal giovane e intraprendente don Mauro Cianci, non c’è posto nemmeno in piedi. Gli iracheni nei primi banchi – preti, suore, laici – sono stati in mattinata in piazza San Pietro. Papa Benedetto XVI ha avuto una parola solo per loro: «Saluto anche gli iracheni qui presenti – ha detto – e invoco il dono della pace per il loro Paese».
A guidare la concelebrazione delle 19 a Sant’Ippolito – quindici i sacerdoti iracheni all’altare – è l’arcivescovo Jules Mikhael Al-Jamil, procuratore a Roma del patriarcato di Antiochia dei Siri e visitatore apostolico per i fedeli Siri in Europa. La celebrazione alterna i canti del coro parrocchiale al Padre Nostro in aramaico, lingua liturgica irachena, al canto «Sotto la Croce» in siriaco, lingua parlata dai cristiani d’Iraq. Il Vangelo di Luca è di un’attualità sconcertante: «Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno. Sarete traditi, uccideranno alcuni di voi. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome».
L’arcivescovo Al Jamil elenca le stazioni della Via Crucis irachena: i rapimenti e le uccisioni di preti, l’assalto ai pulmini degli studenti cristiani, alle case, fino al massacro alla cattedrale di Nostra Signora del perpetuo soccorso. «La risposta dell’autorità governativa – dice – è che i cristiani sono vittime del clima di violenza del Paese, come gli altri cittadini. Ma i cristiani non appartengono ad alcuna delle fazioni in lotta, non hanno armi neppure per difendersi e pregano per la sicurezza e la riconciliazione».
Il presule si appella perciò all’islam: «Si mostri più deciso per recuperare il ruolo che aveva quando cristiani e musulmani crearono insieme la civiltà araba. Non permetta al terrorismo di svuotare l’Oriente dal cristianesimo». Una prospettiva «inquietante», alimentata da «alcune correnti fanatiche dell’islam che considerano i loro concittadini cristiani come un’estensione dell’Occidente colonialista».
Padre Aysar Saeed ascolta dai primi banchi. È uno dei sacerdoti della chiesa Saydat al Nayat, come chiamano gli iracheni Nostra Signora del perpetuo soccorso. Due suoi confratelli sono stati massacrati nell’assalto. Lui non c’era e s’è salvato. «Gridavano " Dio è grande, noi in paradiso, voi all’inferno". Ma io mi chiedo: quale Dio accetta la morte degli innocenti? Non il mio Dio, che si è fatto bambino, che perdona, è misericordia infinita e accoglie l’altro anche se diverso. Noi non abbiamo armi, solo la fede e la preghiera. Io non so se c’è un progetto internazionale per farci fuggire. Siamo stanchi e arrabbiati, ma affidiamo tutto nelle mani di Dio Padre».
«Uno dei terroristi in cattedrale – dice padre George Jahola – era un ragazzo: avrà avuto 14 anni. Io mi chiedo: sono queste le nuove generazioni dell’Iraq? Sotto Saddam c’erano discriminazioni nei confronti dei cristiani. Ma c’era sicurezza. Ora non bastano dieci poliziotti per abitante. La tragedia è venuta dopo la guerra. Alla democrazia bisogna arrivarci».
Poi ricorda la Messa di domenica mattina al Gemelli con i feriti: «Non riuscivo ad alzare lo sguardo dall’altare perché li vedevo tutti in lacrime. Dopo la Messa finita nel sangue a Baghdad, per loro l’eucarestia dovrebbe essere un ricordo choccante. Ma noi cristiani iracheni siamo come i pesci: non possiamo vivere lontani dall’acqua della fede».