Pagine

16 novembre 2010

Io, musulmano nato sotto un campanile e il sangue dei cristiani d'Iraq

By Avvenire
di Younis Tawfik

Sono nato sotto un campanile. Sembra strano detto da un musulmano e forse sa anche un po’ di compiacimento, ma non è così. Non l’avevo scelto io e nemmeno i miei genitori che a loro volta erano nati in quel vecchio quartiere nel cuore della capitale del nord dell’Iraq, l’antica Ninive, oggi chiamata Mosul.
Sentivo l’impulso della vita attraversare le vie della città con il tocco dell’orologio che venendo da lontano si perdeva nei cuori come il canto dell’amore.
È il campanile della chiesa latina, costruita dai padri domenicani arrivati a Mosul nel 1750, provenienti dall’Italia e più tardi dalla Francia. La chiesa era stata inaugurata il 4 agosto del 1873 con una Messa solenne, seguita da una festa che aveva coinvolto tutta la città. La torre dell’orologio, invece, alta cinquanta metri, cinque in meno del minareto della moschea an-Nouri costruita nel 1146, porta un grosso orologio, visto da tutti i quattro lati. Era arrivato dalla Francia nel 1882, omaggio di Maria Giuseppina imperatrice dei francesi. È ancora oggi in funzione, e in città si dice che non si è mai fermato. La gente aspetta il segnale dell’ora con il suo suono singolare, che fa parte del ritmo quotidiano ed è in armonia con la voce del muezzin della vicina moschea.
Al centro del quartiere cristiano, abitato anche da famiglie musulmane, e attorno alla grande piazza e proprio sotto il campanile, si svolgeva la vita commerciale della città. Nel caffè frequentato da mio padre, tutti i giorni dopo la preghiera del pomeriggio, al mattino presto si radunavano i braccianti per prendere accordi con gli imprenditori e dopo due ore arrivavano impiegati, soldati e studenti per prendere una tazza di tè o di latte caldo prima di avviarsi verso i propri impegni.
Nessuno faceva caso se la persona seduta al tavolo vicino era di fede cristiana o musulmana, erano tutti figli di quella città e portavano i medesimi nomi. Per la maggior parte erano nomi di profeti citati sia nella Bibbia sia nel Corano. Nella tipografia domenicana di quel quartiere fondata nel 1858 sono stati stampati circa 500 titoli, compresa la prima rivista irachena, Iklil al-Ward nata nel 1902. In quella chiesa e nella scuola vicina era nato il teatro iracheno moderno, la musica e la nuova letteratura.
Da ragazzino avevo conosciuto padre Yousuf Habbi, laureato alla Cattolica in Letteratura comparata, membro dell’Accademia scientifica irachena e uomo di grande apertura. Allora cercavo un’edizione integrale della Divina Commedia, avevo scoperto alcuni versi tradotti in arabo, e la trovai proprio da lui. Mi prese per mano per aiutarmi a camminare verso la luce della riconciliazione e della conoscenza. Mi aveva guidato nella tenebra della ignoranza per scoprire la sapienza di Dante e la sua profonda conoscenza della cultura islamica dell’epoca.
Furono quei pochi passi che separavano casa mia dalla sua camera costruita in un angolo del cortile della chiesa che io percorsi una volta alla settimana per due anni a diventare un ponte lungo una vita, che arrivò fino a Roma. Sono stati i versi di Dante, la sete per la conoscenza e l’amore per la bellezza a spronarmi a imparare la lingua italiana per poter leggere direttamente la poesia che mi aveva riempito il cuore. Il mio quartiere è grande quanto la mia patria.
È tutta una nazione nata nel seno della molteplicità di fedi e culture e conserva la sua forza in quella varietà, ma a loro, i cristiani dell’Iraq e del Medio Oriente, dobbiamo la nostra Nahda, il nostro risveglio e la rinascita della nostra letteratura, dell’arte e la ripresa della ricerca scientifica. In questi giorni le loro urla di dolore mi arrivano da lontano come un vecchio lamento iracheno. La nostra patria è fatta di dolore e di sangue, che dall’alba dei tempi continua a scorrere. Il cuore si lacera all’udire il pianto dei bimbi maciullati dalle bombe e i corpi di innocenti fatti a pezzi nelle chiese dove si pregava per l’Altissimo e nelle case che dovevano essere sicure. Mi trovo nella disperazione dell’impotente ad ascoltare invocazioni d’aiuto e lamenti soffocati dal dolore, di donne che hanno perso i loro cari per mano di assassini che non conoscono né Dio né la pietà. Avevo scelto l’esilio per fuggire alla repressione della tirannia, per essere libero sotto la tenda della democrazia e di valori che avrei voluto per la mia gente e per tutelare le minoranze del mio Paese.
Allora erano i valori umani, il fatto di essere figli della stessa terra a proteggere gli arabi cristiani; erano i principi dei nostri padri, il loro innato buon senso, la generosità e la semplicità a farci vivere insieme sotto un unico cielo e tra due fiumi. Due anni fa qualcuno ha impugnato l’arma e si era recato davanti a casa mia, a Mosul, era sceso indisturbato dalla sua automobile e aveva sparato un colpo alla testa di mio fratello Faris, avvocato, dal cancello del giardino. Stava innaffiando le sue rose, venne ucciso la sera prima delle nozze e proprio durante il mese di Ramadan. Una settimana dopo la stessa sorte toccò a un suo vicino di casa, un medico cristiano appena sposato, ammazzato sulla porta della sua abitazione. Due vittime, come tante altre, di un piano diabolico per ripulire il Paese dalla sua classe colta, da medici, avvocati, magistrati, docenti universitari. Anche allora, come oggi, ero impotente nella mia disperazione e pregavo per la mia terra lontana che continua a ferirmi il cuore.