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3 agosto 2010

Sako: «Una lunga catena di guerre ma l'Iraq non è stato capito»


di Barbara Uglietti

Vent’anni. L’invasione del Kuwait, due Guerre del Golfo, la caduta del regime, l’occupazione americana, poi questa transizione che sembra non finire mai. Vent’anni che monsignor Louis Sako, oggi arcivescovo di Kirkuk, ha vissuto, giorno dopo giorno, in Iraq. Parla in un italiano limpido – una delle 12 lingue che conosce – e dentro ogni pausa rinnova e risolve, in una manciata di secondi, la battaglia personale di chi ha visto troppo. Troppo per aver ancora voglia di aspettare un cambiamento; troppo per smettere di crederci. Il suo racconto è un’onda lenta che affonda ciclicamente su tre parole – dittatura, fanatismo, povertà – e risale su altre tre – futuro, dialogo, educazione. Concetti che ritornano nei «suoi» decenni iracheni come se tutto in fondo fosse sempre stato uguale in un’alternanza di guerre e dittature e prove (fallimentari) di democrazia. «Vent’anni non sono bastati all’Occidente per capire l’Iraq» dice senza ombra di rimprovero, con il tono di chi rileva un puro dato di fatto.
Cosa non è stato ancora capito?
Che questo è un Paese secolarizzato. Che gli iracheni vogliono essere prima di tutto cittadini. E che non hanno nel loro Dna i germi del fanatismo religioso e settario. Era l’unica cosa che aveva saputo intuire Saddam Hussein, istituendo un governo laico che poi purtroppo ha concretizzato quella dittatura atroce che abbiamo dovuto subire.
C’è questa non-comprensione alla radice dei tanti errori commessi nei tentativi di normalizzazione dell’Iraq?
Sì, è mancato del tutto un approccio culturale rispettoso della pluralità e dell’intelligenza di questo Paese, che aveva uno dei popoli più istruiti della regione. Negli anni l’Iraq, già ferito da una dittatura che ha tolto tutto alla popolazione, anche l’aria per respirare, è stato trattato come una fucina di fondamentalismo, mentre non c’è niente di più lontano dalla nostra realtà. È stato un lento e lungo processo degenerativo che ha portato alla situazione di oggi, dove, per reazione paradossale, l’Iraq è diventato davvero un terreno di scontro fra estremismi, spesso provenienti da fuori.
Un processo iniziato quando?
Ero parroco a Mosul nel 1990, quando sono iniziati i bombardamenti. Un mese di bombardamenti. E poi tutto è cambiato: il governo iracheno è diventato più aggressivo verso la popolazione. Ed è iniziato l’embargo: dodici anni di privazioni. L’economia è crollata: non c’era acqua, non c’era elettricità. Noi siamo abituati a un pane di grano puro e abbiamo mangiato pane nero che nemmeno sapevamo cosa contenesse. Quindi è iniziato l’esodo. Prima se n’è andata l’intellighenzia, poi la gente comune, chi poteva. E tutto era controllato. L’Iraq si è trasformato in una grande prigione.
Che situazioni ha potuto sperimentare personalmente?
Avevo una scuola a Mosul, ed eravamo costretti tutto il giorno ad ascoltare slogan che inneggiavano al regime e al presidente. Per noi cristiani, che almeno dentro le chiese avevamo libertà, iniziò un periodo terribile. Qual è stato il momento peggiore per la sua comunità?Devo dire negli anni precedenti: durante la guerra con l’Iran, perché tanti cristiani sono stati uccisi. E non c’era famiglia che non avesse un figlio fuori a combattere. Ricordo i funerali, i tantissimi funerali che dovevo celebrare durante quella guerra.
E adesso?
Gli americani ci hanno aiutato molto, restituendoci la libertà. Ma hanno un atteggiamento pragmatico: provano una soluzione, e se non riesce ne provano un’altra. Il fatto è che in un Paese come questo, dagli equilibri delicatissimi, può essere devastante. Devono capire che la strada è quella dell’educazione. Bisogna educare le nuove generazioni alla democrazia, all’interno di quadro progettuale a lungo termine. E bisogna educare i dirigenti alla leadership. Perché questa gente ha bisogno di un leader forte. Nel vuoto di potere che stiamo vivendo si sta invece rafforzando la deriva settaria. E sono convinto che l’Iraq stia andando vero una divisione interna.
Quanto tempo ancora durerà questa transizione?
Generazioni. Ci vuole un cambiamento di mentalità che implica l’educazione di intere generazioni. Dalla guerra con l’Iran – 1980-1988 – l’elettricità non è mai stata riparata. Andiamo avanti con i generatori, e fuori ci sono 50 gradi. Speriamo non succeda lo stesso con la vita di questa gente.