Martedì 11 Agosto 2009
di Jean-Michel Coulet
Anni così intensi e un legame divenuto profondo al punto che l'allora nunzio a Baghdad ha finito per sentirsi un po' iracheno con gli iracheni. A sottolinearlo è il sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, arcivescovo Fernando Filoni, in un'intervista con l'incaricato dell'edizione in lingua francese e con il direttore del nostro giornale in occasione della traduzione francese del libro - pubblicato in italiano nel 2006 e poi riedito (La Chiesa nella terra di Abramo, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008, pagine 234, euro 9,50) - che monsignor Filoni ha dedicato alle vicende della Chiesa in Iraq (L'Eglise dans la terre d'Abraham. Du diocèse de Babylone des Latins à la nonciature apostolique en Iraq, Paris, Les Éditions du Cerf, 2009, pagine 240, euro 22).
Il volume, documentato e nello stesso tempo di facile lettura, è fondato sui documenti dell'archivio della nunziatura di Baghdad, dove l'attuale sostituto è stato nunzio dal 2001 al 2006. Previsto per il quarantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Iraq e Santa Sede (1966-2006), il libro ricostruisce una storia plurisecolare di rapporti, che risalgono alla prima metà del Seicento, sullo sfondo di vicende storiche e religiose millenarie, e aiuta a capire la realtà contemporanea, tragica e difficile, di una minoranza cristiana piccola ma di tradizioni antichissime.
Non è frequente che un nunzio scriva sulla storia della rappresentanza pontificia che ha guidato, ma anche sulla sua missione e sul Paese dove ha vissuto. Come è nato questo libro?
Sì, è raro che un nunzio scriva sul Paese dove ha svolto il suo servizio, ma credo che in qualche occasione scrivere possa testimoniare come si è condivisa la storia di quel Paese, almeno per un certo periodo. Per me è stato così in Iraq. Il nunzio non è uno spettatore, ma uno che si coinvolge ed è coinvolto dalla realtà, cosicché quel Paese gli entra dentro e un po' gli appartiene. In quella realtà egli vive, con essa gioisce e soffre. E questo lo porta a entrare nella vita, oltre che del Paese, soprattutto della Chiesa. E, se non si scrive pubblicamente, lo si fa per ragioni di comprensibile riservatezza. I rappresentanti pontifici, infatti, scrivono, per riferire a Roma e per manifestare la sollecitudine del Papa. Tutto è naturalmente raccolto e con il passare degli anni quei documenti diventano fonti storiche. Come in questo caso: il lettore viene portato, quasi per mano, a conoscere la Chiesa in Mesopotamia e le vicende del tempo attraverso i documenti del passato. E le carte d'archivio diventano una straordinaria sorgente di informazioni preziose.
Cosa l'ha spinta a pubblicare questo libro?
Si avvicinava il quarantesimo della creazione della nunziatura in Iraq e cominciai a leggere i documenti in quest'ottica. Accostandomi alle fonti a disposizione negli archivi della nunziatura di Baghdad mi appassionai, perché vidi subito che si conosceva ben poco di quella storia. Tra l'altro, avevo trovato succinte note di due delegati apostolici che però, a un certo punto, s'interrompevano; così mi dissi che bisognava approfondirle e continuare. Mi sono coinvolto anche affettivamente, a motivo dell'interesse che mi suscitavano. Poi, durante la guerra, nei momenti in cui il lavoro era alquanto rallentato e non si poteva uscire molto, ho iniziato a prendere appunti. Dunque, una serie di coincidenze mi portò a scoprire una storia da raccontare. Non farlo sarebbe stato un peccato.
Lei fu l'unico capo di una missione diplomatica rimasto a Baghdad durante tutta la guerra e nei tre anni successivi: è stata una decisione difficile?
È stata una scelta sacerdotale, perché se il pastore fugge nei momenti di difficoltà, si disperde anche il gregge. Credo che questo sia stato anche un modo per incoraggiare la Chiesa irachena; infatti, tutti i vescovi durante la guerra rimasero al loro posto; nessun sacerdote andò via, nessuno abbandonò la propria parrocchia o il proprio convento. Abbiamo condiviso tutto ciò che avevamo. Per esempio il seminario, rimasto aperto, era diventato un luogo dove la notte tanti andavano a dormire, cristiani e musulmani; lo stesso fu per tante chiese, le cui sale erano diventate dormitori. La gente aveva paura di stare nelle proprie case, particolarmente se collocate in prossimità di probabili obiettivi militari. Al mattino lasciava coperte e materassi e tornava a casa. Non di rado, famigliole musulmane chiedevano ai cristiani di cantare i propri canti religiosi, che trovavano belli. Al di là della guerra, si vivevano momenti di incontro, di solidarietà e di stima. Una condivisione che avrebbe avuto un seguito, perché chi vive insieme momenti difficili, mantiene relazioni e amicizie. Certo, la guerra aveva sconvolto la vita di tutti i quartieri di Baghdad e dell'intero Iraq, e avrebbe gettato fino a ora il Paese nel caos e nella violenza.
Come si spiega il flusso migratorio dei cristiani? C'è una volontà di sradicamento del cristianesimo dall'Iraq?
Il flusso migratorio non è solo di oggi. Nel mio libro accenno a tre grandi crisi attraversate dai cristiani. La prima ebbe luogo con il crollo dell'impero ottomano, dopo la prima guerra mondiale, con le persecuzioni e l'uccisione di migliaia e migliaia di cristiani armeni, caldei, siro-cattolici, ortodossi e assiri. La seconda fu generata dalla crisi politica tra il Governo centrale e la rivolta dei curdi degli anni Sessanta, quando i cristiani del nord dell'Iraq emigrarono nella capitale il cui sviluppo economico offriva lavoro e prosperità. Ciò portò la comunità cristiana di Baghdad a divenire la più grande del Paese. La terza migrazione ha avuto due fasi: la prima si è sviluppata con le tendenze belliciste del regime ba'atista (guerre con l'Iran e il Kuwait) e per le sanzioni economiche imposte all'Iraq; la seconda è stata generata dalle conseguenze della guerra anglo-americana, allorché molti cristiani, attratti dal desiderio di pace, dal benessere dell'occidente e spinti dal clima di insicurezza, hanno deciso di cambiare vita una volta per tutte.
Com'è la situazione oggi?
Continua a essere assai difficile e dura; ai ripetuti attentati si aggiunge spesso la penuria d'acqua o della corrente elettrica, mentre le temperature d'estate arrivano anche a cinquanta gradi. Non tutti hanno il generatore e la possibilità di comprare il gasolio, il cui prezzo è cresciuto enormemente. Poi c'è la difficoltà di trovare lavoro, l'inadeguatezza della scuola, la difficile convivenza tra etnie, gruppi politici e religiosi e soprattutto manca la sicurezza. Si esce di casa e non si sa se si ritorna. C'è sempre il rischio di esplosioni. Chi ha figli si domanda: quale prospettiva posso dare ai miei figli? L'interrogativo è comprensibile. Ma è giusto pensare solo in questi termini? Un cristiano non deve anche interrogarsi sul valore della propria origine e se veramente desideri che scompaia la presenza cristiana in Iraq? I cristiani hanno dato in passato un preziosissimo contributo allo sviluppo del Paese. Non è ora il caso di cominciare ad avere un po' più di fiducia e di ottimismo, non lasciando che prevalga soltanto la paura? Penso che sia il momento di dare più spazio alla speranza. Se fosse persa, non c'è dubbio che la presenza cristiana in breve si estinguerebbe. E questo non giova a nessuno. Noi abbiamo il dovere di aiutare i cristiani iracheni a ritrovare ottimismo e offrire loro una speranza. Se si perdesse il senso della propria origine sfumerebbe anche un sano e coraggioso ottimismo; vincerebbero timore e paura. Se la comunità cristiana irachena migrasse, nel giro di poco tempo essa perderebbe lingua, cultura e identità, e sarebbero perse per sempre. Un danno culturale e religioso incalcolabile. Il mio libro sottolinea il coraggio che tante generazioni hanno avuto nel vivere in Mesopotamia pur tra persecuzioni e difficoltà. Questo non va né dimenticato, né minimizzato. I cristiani, comunità originaria di quella terra, hanno il diritto a vivere e di vivere rispettati nella loro dignità. Bisogna che le autorità facciano di tutto, affinché essi siano parte integrante rispettata e coinvolta nella vita del Paese, anche se minoranza.
Che cosa sta facendo la Santa Sede perché ciò avvenga?
Ci sono segnali di disponibilità da parte delle autorità pubbliche? La Santa Sede, ovviamente, dà il proprio contributo, che è rivolto soprattutto alla prospettiva nella quale i cristiani sono chiamati a vivere. E i vescovi operano bene in questo stesso senso. So che il Patriarca caldeo, il cardinale Emmanuel Delly, e i vescovi hanno incontri e stimolano le autorità governative e religiose affinché la presenza cristiana continui a essere uno degli aspetti fondamentali della politica del Paese. Non dubito che, in linea di principio, le autorità manifestino buona volontà e abbiano l'intenzione di rispettare i cristiani, ma questo si deve tradurre anche in fatti concreti. È proprio di questi giorni una notizia positiva: la restituzione di alcune scuole, già appartenenti e gestite da istituzioni cristiane prima della nazionalizzazione (fine degli anni Sessanta). Ancora oggi non pochi musulmani conservano gratitudine per l'educazione che ricevettero nelle scuole cristiane. Mi pare un bel segnale che fa sperare e che parla di un apprezzamento verso il contributo che i cristiani possono dare al futuro della nazione irachena.
Lei scrive spesso nel libro che il passato serve a comprendere il presente e colpisce la menzione di tanti uomini di Chiesa che, in maggioranza francesi, hanno aiutato l'evangelizzazione.
La diocesi di Babilonia dei Latini nasce nel 1632 nel contesto delle relazioni tra scià Abbas i e Papa Clemente viii; trattandosi di una sede nuova da dotare anche economicamente, il Pontefice accettò l'offerta di una ricca signora della Francia di Richelieu. Così con la bolla Super universas (1638), Urbano viii legava la sede di Baghdad alla Francia, lasciando che in futuro tutti i suoi vescovi fossero di nazionalità francese. Nelle intenzioni del Pontefice era preminente il desiderio di sostenere quella Chiesa creata da poco, anche se il Richelieu valutava la questione in termini di influenza politica. Con la presenza inoltre di missionari e vescovi, la Francia estendeva anche il proprio protettorato sui cristiani della regione spesso alla mercè di autorità senza scrupoli. Ma essi ricevevano anche aiuti economici, soprattutto nell'Ottocento, allorché la Francia sostenne la scolarizzazione nei villaggi cristiani. Una presenza dunque che aiuta a capire i contrasti con la Gran Bretagna, allorché nel 1920 l'Iraq divenne un protettorato britannico, nonché l'atteggiamento francese anche durante l'ultima guerra.
Cosa ricorda maggiormente della sua permanenza a Baghdad?
Come ho già detto, quando si vive in un Paese dove si sono condivise esperienze e situazioni drammatiche, di esso se ne diventa parte. Al punto che ho finito per sentirmi quasi iracheno con gli iracheni, membro di quelle comunità, dove ho anche conosciuto affetto e stima. Ricordo ad esempio il pomeriggio di domenica 29 gennaio 2006, allorché un'autobomba fu fatta esplodere accanto alla nunziatura. Fu proprio un musulmano il primo a venire e ad assicurarmi che l'indomani avrebbe riparato tutti i danni: "Lo faccio - mi disse - perché lei ha condiviso e condivide con noi tutte queste sofferenze e dunque voglio mostrarle un segno di stima per la sua presenza in mezzo a noi". Il giorno dopo arrivò con trenta operai e riparò i numerosi danni. così che uno sente di essere diventato parte di quella comunità e ne condivide le preoccupazioni e le speranze. Ogni giorno prego per il popolo iracheno e per la sua Chiesa.
Lei, dunque, si sente un po' iracheno...
Senz'altro, e anche per altri motivi. Quando si conoscono un po' le culture mesopotamiche, babilonese, assira, akkadica, per citarne qualcuna ben nota, si scoprono che sono di una bellezza incomparabile. Noi non avremmo avuto il diritto se non ci fosse stato Hammurabi.
Qual è l'atteggiamento verso queste antichissime culture nell'Iraq musulmano?
La cultura islamica è predominante. Ma non manca il desiderio di valorizzare le culture preesistenti e oggi di tutelarle, anche se molto resta da fare, particolarmente per quel che riguarda i tanti siti archeologici. Già i nuovi Governi iracheni hanno cominciato a rendersene conto e ottengono il sostegno di grandi organizzazioni internazionali e di numerosi Paesi. Penso che quando il sistema educativo iracheno potrà funzionare a pieno ritmo, l'Iraq potrà fare molto anche con le proprie forze. Il futuro è nelle mani degli iracheni.
A Baghdad ci sono una quindicina di Chiese cristiane. Come sono i loro rapporti?
I cristiani iracheni fondamentalmente sono cattolici e ortodossi. I loro rapporti sono buoni. La famiglia cattolica è composta di caldei, siri, armeni, latini e melkiti; quella ortodossa da siri, greci e armeni. Quanto agli assiri, sono divisi in due comunità, che fanno capo rispettivamente al patriarca Mar Addai, che vive a Baghdad, e a Mar Dinkha iv, che vive negli Stati Uniti. Ma ci sono anche piccole comunità di protestanti e alcune sette.
E le altre religioni?
Ci sono comunità di mandei, che si richiamano a Giovanni Battista e di yazidi, che professano un sincretismo religioso. Una realtà estinta dagli anni Sessanta, è quella degli ebrei, espulsi al tempo delle guerre arabo-israeliane. Vivevano per lo più nella Mesopotamia settentrionale e hanno lasciato luoghi di grande venerazione anche per cristiani e musulmani: la tomba del profeta Ezechiele, nella regione di Babilonia, del profeta Nahum, ad Alqosh, e del profeta Giona a Ninive. Infine penso a Ur, patria di Abramo, luogo dove la rivelazione del Dio unico e la chiamata a seguirlo ebbero inizio; un luogo caro a tutti: musulmani, ebrei e cristiani.
(©L'Osservatore Romano - 12 agosto)