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28 agosto 2009

Kassab: io, perseguitato, chiedo ai cristiani di non lasciare l’Iraq


venerdì 28 agosto 2009

Joseph Kassab è un imprenditore d’origine irachena emigrato nel 1979 negli Stati Uniti ma rimasto in contatto con la propria comunità d’origine. Interverrà oggi al Meeting di Rimini all’incontro dedicato ai cristiani perseguitati. Kassab ha raccontato a Ilsussidiario.net i momenti più sofferti della recente storia dei cristiani in Iraq, sino a parlare della drammatica situazione creatasi dopo la guerra del 2003.
Signor Kassab, può raccontarci perché lasciò il suo Paese, l’Iraq?
Ho lasciato l’Iraq nel 1979 per non aderire alle pressioni perché mi iscrivessi al Baath, il partito al potere. Come molti cristiani in Iraq, non ero interessato a coinvolgermi in politica, cosa che per una minoranza come la nostra poteva essere pericolosa. Ma Saddam voleva legare a sé gli iracheni, obbligandoli ad iscriversi al suo partito, e chi rifiutava era trattato come un cittadino di serie B la cui vita diventava molto difficile. Per questo me ne andai, come avevano già fatto due miei fratelli, e raggiunsi a Roma dove rimanemmo alcuni mesi.
Perché proprio Roma?
A Ostia vi è un convento di suore caldee e un mio fratello era arcivescovo,* quindi la scelta di Roma fu naturale, anche perché era una specie di centro di smistamento dell’emigrazione irachena verso gli Stati Uniti. Io stesso lavorai all’ambasciata americana come interprete e così riuscii a raggiungere gli Stati Uniti, dove attualmente vivono circa 500.000 iracheni cristiani.
Quali sono le ragioni di questa emigrazione?
L’immigrazione irachena negli Stati Uniti risale alla fine del 1800, inizio del 1900, causata a quel tempo da ragioni economiche, come per voi italiani, o per gli irlandesi. Questa prima immigrazione si concentrò nella zona di Detroit, dove sorgevano gli stabilimenti della Ford che offrivano lavoro ben retribuito per gli standard iracheni. Inoltre, vi erano già immigrati in precedenza libanesi cristiani che favorirono l’integrazione di noi iracheni. A questa prima fase dell’emigrazione prese parte anche mio nonno, che arrivò qui nel 1889. Molti andarono anche in Messico, dove c’è tuttora una forte comunità caldea.
Se a quel tempo le ragioni erano economiche, per le successive immigrazioni i motivi diventarono più politici. Gli inglesi nel concedere l’indipendenza nel 1932 fecero dell’Iraq un regno, fin dall’inizio molto debole. I cristiani vivevano in una situazione non troppo difficile, purché rimanessero nell’ombra. Le cose peggiorarono con la sanguinosa caduta della monarchia e i successivi vari colpi di Stato, fino a Saddam. In questa situazione di pericolosa instabilità, molti altri cristiani fuggirono dall’Iraq.
Secondo alcuni, pur essendo un feroce dittatore, Saddam non se la prese particolarmente con i cristiani. È così?
No. Ci sono molte prove delle misure prese da Saddam contro i cristiani. Ha nazionalizzato le chiese e le istituzioni religiose, ha fatto combattere i nostri seminaristi nelle varie guerre e ha proibito ai genitori di dare nomi di origine biblica ai propri figli. Così, dopo l’inutile guerra contro l’Iran, che causò un milione di morti, e quella successiva con l’invasione del Kuwait, molti decisero di andarsene.
Come si è evoluta la situazione dopo la caduta di Saddam?
La guerra del 2003, quella che gli americani chiamano di liberazione, ha peggiorato enormemente le cose. Ed è tragico, visto il tributo di sangue soprattutto di tanti americani e inglesi, e non solo. Subito dopo la fine della guerra andai in Iraq e trovai la popolazione molto contenta della caduta di Saddam e grata ai liberatori.
La situazione si è rapidamente deteriorata per una serie di errori commessi dall’amministrazione americana, mal consigliata da fuoriusciti iracheni. Si cominciarono ad epurare non solo i vertici responsabili delle politiche del partito, ma anche i semplici iscritti al Baath, dimenticando che la stragrande maggioranza di costoro era stata costretta ad unirsi al partito, e si sciolse l’esercito. Si creò così un’altissima disoccupazione, aggravata dalla quasi completa distruzione delle infrastrutture.
Tutto ciò ha fornito mano d’opera ai fondamentalisti e al terrorismo, e la situazione si è radicalizzata, anche per l’intervento di potenze esterne in favore di una o l’altra parte, degli sciiti o dei sunniti, e via dicendo. Soprattutto i professionisti, la classe dirigente è sotto il tiro dei fondamentalisti e delle varie milizie, e secondo l’Unesco più di 20.000 sono già fuggiti dall’Iraq per questa ragione. Nel mirino ci sono tutti, musulmani e cristiani, ma tra questi ultimi vi sono in proporzione più appartenenti alla classe dirigente, perché i cristiani hanno da sempre usato l’istruzione, così come l’intraprendenza imprenditoriale, come armi di difesa nella loro situazione di minoranza mal tollerata o apertamente perseguitata.
Come vivono i cristiani in questa situazione?
Come sempre sono i più deboli dei deboli, schiacciati tra le parti che si combattono. E il ricordo dei massacri subiti dai cristiani nella prima parte dello scorso secolo, fa temere che quei tempi drammatici possano ritornare, se dovesse saltare il fragilissimo equilibrio che esiste tra curdi, arabi dei due gruppi e potere centrale.
Per questo, molti cristiani iracheni ritengono essenziale che ottenere uno statuto particolare che consenta loro di governarsi, senza che ciò li costringa peraltro a concentrarsi tutti in una sola zona. Partecipare al governo centrale non ci dà nessuna garanzia, visto che i cristiani hanno solo alcuni rappresentanti in Parlamento e, in sostanza, rimangono discriminati rispetto agli altri iracheni.
Ma la cosa più importante è che i cristiani non se ne vadano, che rimangano in Iraq: sono loro i veri autoctoni del Paese, gli eredi delle civiltà che si sono susseguite in quella vera e propria culla della civiltà che è la Mesopotamia. La permanenza dei cristiani può svolgere un ruolo importantissimo di moderazione rispetto alle radicalizzazioni e al fondamentalismo che si stanno impadronendo del Paese, anche al di là dei fatti di più esplicito terrorismo. I cristiani possono veramente costituire un ponte tra le varie realtà che si fronteggiano in Iraq, se solo venissero posti nelle condizioni di vivere liberamente e pienamente.

Come possono la comunità internazionale e i cristiani dell’Occidente aiutare i cristiani iracheni?
In primo luogo aiutando quel processo già descritto di ottenimento di una qualche forma di autogoverno. L’aiuto dell’Unione Europea e delle comunità americane e in genere dei cristiani può essere determinante. Ma deve essere condotto con cautela e intelligenza, per evitare reazioni ostili all’interno del Paese. E occorre una buona, solida politica internazionale nei confronti delle minoranze in Iraq, che ora manca.
Tuttavia, una cosa buona per fortuna c’è ed è l’interesse che il Vaticano e il Papa dimostrano per la situazione dei cristiani in Iraq e, soprattutto, non vogliono che la presenza cristiana sparisca dal Paese, non solo per difendere i cristiani in sé, ma per riaffermare la presenza lì di Cristo.

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Il riferimento è a Mons. Jibrail Kassab, attuale arcivescovo caldeo dell'eparchia dell'Oceania e della Nuova Zelanda che dal 1995 al 2006 resse la diocesi di Bassora (Iraq). Nel 1979 (data riportata nell'intervista) Mons. Kassab non era ancora stato nominato vescovo. Nota di Baghdadhope