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12 giugno 2009

Iraq di paura


di Lorenzo Cremonesi (Ha collaborato Walid Al Iraqi)

I posti di blocco militari creano ingorghi spaventosi all’ingresso delle città nella più importante provincia sunnita. Pure nessuno protesta, il fantasma della ripresa degli attentati porta la popolazione a chiedere più protezione alla nuove forze di sicurezza irachene. Per capire quanto sia davvero stabile l’evidente miglioramento dello scenario interno ci siamo spinti sino a Falluja e Ramadi, quasi 170 chilometri a ovest di Baghdad. Qui sono le capitali della prima guerra sunnita contro gli americani nella provincia di Al Anbar, già nella primavera 2004, e i vecchi covi di Al Qaeda. Soprattutto in queste due città si sta attuando la grande operazione volta ad assorbire le milizie sunnite legate ai Consigli del Risveglio nella struttura del nuovo Stato post-baathista.
«Si tratta di una manovra complessa. Sin dal 2005 le nostre tribù più importanti si sono coalizzate con gli americani e la nuova polizia irachena per combattere gli estremisti di Al Qaeda. La guerra è ormai vinta. Però c’è un cambiamento. Sino a dicembre queste milizie erano pagate dagli Stati Uniti. Si tratta adesso di integrare migliaia di uomini nell’organizzazione civile irachena», sostiene il comandante della polizia di Ramadi, generale Tarak Alasad, che di questa campagna è stato uno dei massimi artefici sin dall’inizio. Quanti uomini? Tanti, se si pensa che sino all’invasione americana del 2003 gli agenti della vecchia polizia baathista nella regione di Ramadi erano circa 1.200 e adesso hanno raggiunto la cifra stratosferica di quasi 30.000. In tutto il Paese sarebbero circa 100.000 gli agenti inquadrati nei Consigli del Risveglio. Il premier sciita Nouri al Maliki si dice disposto ad assumerne circa 20.000 con lo stipendio base di 300 euro mensili. E gli altri, non c’è il rischio che tornino nei ranghi della guerriglia? «Assolutamente no. Noi tutti abbiamo subito il terrorismo di Al Qaeda. Ad un certo punto aveva costretto l’intera Al Anbar in ginocchio. In nome della guerra santa agli americani ci stava spingendo al conflitto fratricida con gli sciiti», risponde con fare sicuro lo sceicco Ahmad Abu Risha, leader del maggior clan tribale che promuove la necessità del dialogo con gli sciiti e l’armonia con Maliki. «Stiamo finalizzando un accordo con il governo. Per cui un terzo dei membri dei Consigli del Risveglio resteranno nelle forze dell’ordine con stipendi regolari. Gli altri invece entreranno nell’amministrazione pubblica, occorre solo che i loro salari vengano aumentati dai circa 130 euro promessi attualmente a cifre uguali a quelle percepite da ogni impiegato statale». Eppure, lui stesso non nasconde di essere in pericolo. Suo padre e il fratello maggiore, il celebre Abdul Sattar che fu il vero motore primo della mobilitazione sunnita contro Al Qaeda, sono stati vittime di attentati suicidi. E lui vive come un recluso, circondato da decine di sentinelle, nella villa-fortino del clan Abu Risha alle porte di Ramadi. Di fronte al loro parco recintato l’autostrada verso il confine giordano è però aperta al traffico. Nessuno assalta più i camion. Sequestri, rapine e attentati sono sempre più rari. Ogni cinque chilometri i posti di blocco della polizia garantiscono la sicurezza. E a Falluja sono state ricostruite tante tra le abitazioni bombardate dalle operazioni militari americane di cinque anni fa. «I problemi gravi restano ai confini con le zone curde. Tra le città di Mosul e Kirkuk gli attentati di Al Qaeda sono ancora all’ordine del giorno. E sino a che non avremo risolto con i curdi la questione della gestione delle risorse petrolifere regnerà l’incertezza», aggiunge il generale Alasad. I bilanci del terrore parlano chiaro. Dopo una netta e costante diminuzione degli attentati per tutto il 2008 e sino al gennaio 2009, da febbraio i kamikaze sono tornati a farsi sentire (a maggio un po’ meno). Siamo ben lontani dai quasi 3.000 morti al mese del 2006, eppure ci si chiede se il processo di normalizzazione sarà in grado di tenere.
UNIVERSITARI PESSIMISTI
Anche tornando nella capitale non è difficile raccogliere voci di preoccupazione. Alla Baghdad University gli studenti mettono in guardia sui facili ottimismi. Il miglioramento è totalmente reversibile. C’è l’eventualità che con il ritiro americano esercito e polizia iracheni tornino preda delle milizie sciite e sunnite. Il rischio di guerra civile non è affatto superato, lo dimostrano le stragi degli ultimi giorni. Qui due mesi fa, dopo le elezioni regionali di fine gennaio, si stava molto meglio», dice un gruppetto di laureandi in scienze politiche, riferendosi ai recenti attentati, che in aprile hanno causato oltre 360 morti, per lo più sciiti e pellegrini iraniani. Dello stesso parere è Dalil Zambaqa (47 anni) gestore dello Honey Market, un noto negozio di alimentari.
«I rapimenti a scopo di estorsione sono nettamente diminuiti. Però è ancora presto per considerarli un fenomeno superato», spiega. Suo cugino, il sessantenne Namir Naoum, che è proprietario del negozio, venne sequestrato da quattro uomini armati nell’aprile 2006. Furono costretti a sborsare 45.000 euro per riaverlo vivo. «Subito dopo Namir è scappato con la famiglia in Giordania, quindi ha trovato asilo politico in Svezia. Ci sentiamo quasi ogni giorno. Vorrebbe tornare, ma resta a vedere e comunque non lo farà prima della fine dell’anno». Un caso più che comune il suo. Lo abbiamo potuto verificare anche noi nel nostro piccolo. Praticamente tutte tra la ventina di persone conosciute in modo più approfondito nell’anno della guerra ha poi avuto a che fare con almeno un episodio di rapimento in famiglia. Tra i tanti testimoni c’è Luigi Shabi, oggi settantenne arciprete in pensione della cattedrale caldea di San Giuseppe. «Tanti, tanti tra i miei fedeli sono scappati causa assassinii e rapimenti. Sulle 2.000 famiglie della nostra diocesi, almeno 400 hanno lasciato la città. Metà di loro sono fuggite nel nord e spero nel lo ro ritorno. Ma circa altre 200 si trovano all’estero e mi sa che per noi sono perdute per sempre». Diminuiscono i sequestri, ma cresce il problema dell’intolleranza religiosa. «Una giovane donna ormai è costretta a velarsi il capo se vuole essere lasciata in pace per la strada. La sera rischiamo di essere picchiate, se non violentate. L’unico modo è coprirsi», protestano tra le tante intervistate due pittrici 26enni, Madiah Azzawi e Alla Hakil, incontrate nelle sale del Teatro Nazionale. «Qualche tempo fa i fondamentalisti legati all’imam sciita Muqtada Al Sadr avevano persino appeso un cartello nella stazione centrale degli autobus per ribadire che le donne non possono viaggiare se non velate. La polizia l’ha tolto, ma la minaccia resta», dicono. La brutalità delle «pattuglie della moralità» è combattuta tra gli altri dalla Owfi (Organization of Womens Freedom in Iraq), un’organizzazione non governativa situata non lontano dall’Hotel Palestine, che ha di recente denunciato il fenomeno degli assassini di omosessuali a Sadr City, il quartiere sciita nella parte orientale della città. Mohammad Jasem, uno dei segretari, parla di una trentina di morti dall’inizio dell’anno. «I cadaveri di alcuni giovani sono stati trovati sfregiati, torturati, con le parti intime coperte da uno strano collante resinoso», dice. I filmati raccolti con i cellulari al loro centro puntano il dito anche contro i maltrattamenti inflitti delle forze dell’ordine. In uno si vedono alcuni agenti che minacciano e palpeggiano un giovane travestito. Il suo corpo è stato poi recuperato ai primi di aprile nella discarica di Sadr City, sembra ucciso dai sadristi.