Pagine

5 dicembre 2008

I cristiani iracheni e quell'esperienza di libertà negata


di Roberto Fontolan

Un trafiletto nei giorni scorsi riportava una frase tratta da un’intervista di fine mandato rilasciata da George Bush alla televisione ABC. Qual era il suo più grande rimpianto? Aver scoperto che le notizie sulle armi di distruzione di massa che Saddam stava accumulando in Iraq erano false.
Non una cosa da poco, dal momento che quelle armi furono la motivazione ufficiale della guerra. Si ricorderà l’audizione di Colin Powell che esibiva davanti alle televisioni di tutto il mondo le foto e i filmati di mezzi e impianti piazzati nel deserto, le “prove schiaccianti” della minaccia irachena.
Qualche tempo dopo Colin Powell si dimise e chiunque al mondo lesse in quelle dimissioni l’esito della frattura con il presidente: il generale aveva “dovuto” obbedire, ma non lo avrebbe più fatto. La guerra ci fu e sappiamo come è andata e come sta andando (per avere qualche idea di come sia vissuta in questa fase dall’immaginario americano è utile vedere i film “The Hurtlocker” e “Nessuna verità”).
Recentemente il parlamento iracheno ha approvato il piano di ritiro americano, che fissa al 2011 la fine dell’operazione in corso da cinque anni. Ma dire che l’Iraq resta e resterà in una situazione drammatica è un eufemismo.
Dell’intero Paese soltanto il Kurdistan, a nord, vive in pace e (quasi) prosperità: uno stato di semi-indipendenza, alimentato dal locale esercito e dagli accordi petroliferi realizzati autonomamente, che infatti fanno arrabbiare il governo centrale di Baghdad. Nel resto dell’Iraq, gli accordi tra sunniti e sciiti si fanno e si disfano velocemente mentre continuano a imperversare milizie e terroristi di ogni possibile sfumatura.
È vero però che la strategia essenzialmente militare messa in atto dal generale Petreus ha dato frutti e per questo non può essere abbandonata, pur restando la domanda sulla sua tenuta nel tempo. Cosa succederà, come si evolverà la situazione irachena è un enigma. L’influenza, se non di più, dell’Iran; la forza di Al Qaeda (oggettivamente rilanciata dalla strage di Mumbai, anche se i suoi legami con la squadra di mujahiddin potrebbero risultare molto esili); il conflitto intramusulmano e arabo-curdo; il rapporto con gli Usa… al momento sono tutte incognite che sicuramente riempiono il dossier Iraq sul tavolo del nuovo segretario di Stato designato, Hillary Rodham Clinton, che per ottenere la conferma dovrà superare le forche caudine delle audizioni del Congresso (e soprattutto dovrà farlo il marito Bill la cui Fondazione ha raccolto 500 milioni di dollari, anche da donatori arabi).
In quel dossier non è certo che ci sia un rapporto sul miserevole stato dei cristiani iracheni. Non passa giorno senza che dalle loro comunità si levino grida di morte e di aiuto. Davanti alle persecuzioni, agli esodi, alle devastazioni, agli omicidi mirati, occorre riconoscere che la sopravvivenza dei cristiani in Iraq è un tema largamente sottovalutato.
Prima di tutto dalla comunità musulmana mondiale, se mai ne esista una. Settimane fa, nel corso del Forum islamo-cristiano di Roma, un illuminato e moderatissimo studioso sciita iraniano, profugo dal suo Paese e stimato docente in una università (cattolica) di Washington, a una domanda sul tema ha saputo rispondere: «Sono stati molti di più i morti musulmani in Bosnia a opera dei serbi». Diciamo che fino a che i “leader” islamici risponderanno così, resteranno sempre poco credibili.
I cristiani iracheni sono martirizzati dai musulmani, spesso per ragioni unicamente religiose: questa è la verità nuda e cruda e le grandi moschee d’occidente così come i capi islamici, a cominciare dal re dell’Arabia, dovrebbero prendere atto, condannare, agire di conseguenza. Ma poi il tema è bellamente ignorato dalle diplomazie occidentali, eccetto il nostro ministro Frattini che la settimana scorsa ha parlato chiaro ai governanti iracheni, e clamorosamente dai media e dunque dall’opinione pubblica.
Non è una faccenda risolvibile con la pur doverosa accoglienza (l’Unione europea lo farà con diecimila profughi), ma solo con il riconoscimento concreto del diritto alla libertà religiosa in un Paese verso il quale erano state assunte parecchie responsabilità tra cui quella di “esportare la democrazia”.
Un diritto che va difeso, persino con le armi, e che dovrebbe dare il titolo centrale alle celebrazioni per i 60 anni della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, in programma la settimana prossima.
Dedichiamola ai cristiani iracheni, facciamo pensare il mondo al valore della libertà religiosa. Se si riuscirà a fare un passo avanti in questo cammino anche quelle vecchie false notizie potranno essere servite a qualcosa.