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30 giugno 2008

Inferno e Paradiso. I cristiani di Baghdad si accontentano di molto poco

By Baghdadhope

Il sito
Ankawa.com ha pubblicato la prima parte di un’inchiesta dedicata alla situazione in diverse zone di Baghdad dove un tempo la comunità cristiana era numerosa e che ora, invece, la vedono presente solo in poche decine di unità familiari. A più di un anno dall’inizio delle operazioni volte ad estendere il controllo statale in aree che per molto tempo sono state controllate dagli appartenenti ad Al Qaeda, e malgrado le ripetute assicurazioni di maggiore stabilità e le notizie che hanno riguardato il ritorno di molte famiglie fuggite perché minacciate di morte, la situazione per quelle cristiane secondo alcune testimonianze non è migliorata affatto. Se il 15 novembre del 2007, dopo molti mesi, la chiesa caldea di San Giovanni Battista a Dora era stata riaperta con una solenne cerimonia officiata da Monsignor Shleimun Warduni, vicario patriarcale di Baghdad, è lo stesso vescovo ad aver infatti dichiarato, pochi giorni fa, che “Dora, quartiere cristiano della nostra capitale si è svuotato.” L’inchiesta è focalizzata sulle aree che si trovano nella zona di Karkh, a sud ovest rispetto al centro di Baghdad. Zone come Dora, per molto tempo considerata la parte più pericolosa della capitale, Hay Al ‘Adl, Hay al-Jami’a, Saidiya, Al-Baia’, Al-Ghazali, ecc. Aree dove l’alta presenza dei cristiani è testimoniata dal numero di chiese e di istituzioni cristiane molte delle quali però sono ormai chiuse: le chiese caldee degli Apostoli San Pietro e Paolo, di San Giovanni Battista, e di Mar Yaocub Vescovo di Nisibi, quelle Assire dell’Est di Mar Zaia e Mar Khorkhis, quella Siro Ortodossa di Mar Benham e Sheikh Matti e quella Antica Assira dell’Est di Mart Shmoni, a cui si aggiungono diversi conventi e monasteri appartenenti alle diverse chiese ed il Collegio Pontificio Babel, l’unica facoltà teologica cristiana in Iraq ed il seminario maggiore caldeo di San Pietro che, proprio per ragioni di sicurezza furono trasferiti nel nord controllato dal governo regionale curdo nel gennaio 2007. In passato, secondo quanto riferisce l’autore dell’inchiesta, Fadi Kamal Youssef, abitavano in quei quartieri più di 10000 famiglie cristiane ridotte ora a circa solo a poche decine. Il fenomeno della fuga dei cristiani da quelle zone è quindi imponente, e niente sembra poterne invertire la tendenza. A migliaia sono fuggiti. I più abbienti e previdenti verso l’estero e già prima che la violenza iniziasse ad imperare, i meno abbienti verso il nord, ed i più poveri verso altri quartieri della capitale considerati più sicuri. Sono proprio tre famiglie che tuttora vivono a Baghdad che, intervistate, hanno spiegato perché, malgrado un lieve miglioramento della situazione, non considerano ancora sicuro il ritorno alle proprie case ed alle proprie attività. Tutte e tre, infatti, malgrado riconoscano che le recenti operazioni militari abbiano contribuito a rendere più sicuri i quartieri sud occidentali, tanto che i membri di due famiglie affermano di recarvisi regolarmente per controllare le case abbandonate, sottolineano però come ciò non sia sufficiente. Non solo, infatti, il controllo dello stato non è totale, quanto quelle zone sono oramai abitate da persone che vi sono arrivate da altri quartieri o da altre province. Sconosciuti di cui, evidentemente, è difficile fidarsi, con cui è difficile ricreare quei rapporti di buon vicinato che una volta esistevano a dispetto delle diverse appartenenze religiose e che si erano cementati negli anni. La percezione tuttora viva della mancanza di sicurezza non è però l’unica ragione che frena il ritorno di queste famiglie alle proprie case ed alle proprie attività. Ad essa si aggiunge il fatto che la vita quotidiana nelle zone dove esse si sono trasferite, per quanto difficile – si tratta pur sempre di sfollati – è migliore che in quelle di provenienza. In centro, riferiscono infatti gli intervistati, ci sono maggiori possibilità lavorative, migliori servizi, la possibilità di frequentare la chiesa, persino quella di rimanere fuori casa alla sera. Sembra di leggere la descrizione di una città normale, una qualsiasi città del mondo dove la gente lavora, va al mercato, in chiesa, trova addirittura la voglia di passare qualche ora fuori casa. Eppure è la descrizione della zona rossa di Baghdad – non quella verde protetta dagli americani - da anni ormai considerata la città più pericolosa del mondo, agli occhi di questi cristiani che lì, per ora, hanno trovato il loro piccolo pezzo di Paradiso.
Riusciamo ad immaginare com’era il loro inferno a Dora?

Hell and Paradise. Baghdadi Christians are content with very little

By Baghdadhope

Ankawa.com website published the first part of an investigation about the situation in different areas of Baghdad where the Christian community was once large but where now only a few tens of Christian families live. More than a year after the starting of the operations aimed at extending the control of the goverment in areas for a long time controlled by Al Qaeda fighters, and despite the repeated assurances of greater stability and the news about the return of many families who fled because threatened with death, the situation for Christians, according to some witnesses, has not improved at all. If on the 15 of November 2007, after many months, the Chaldean church of St. John the Baptist in Dora had been reopened with a solemn ceremony officiated by Mgr. Shleimun Warduni, Patriarchal Vicar of Baghdad, the same bishop only some days ago stated that "Dora, a Christian neighbourhood of the capital, has emptied out."
The investigation is focused on the neighbourhoods that are in Karkh area, in the south west of Baghdad. Areas such as Dora, for a long time considered as the most dangerous of the capital, Hay Al 'Adl, Hay al-Jami'a, Saidiya, Al-Bay'a, Al-Ghazali, etc.. Areas where the high presence of Christians is testified by the number of churches and Christian institutions many of which are now closed: the Chaldean churches of the Apostles St. Peter and St. Paul, of St. John the Baptist, and of Mar Yacoub Bishop of Nisibis, the Assyrian Churches of the East of Mar Zaia and Mar Khorkhis, the Syriac Orthodox one of Mar Benham and Sheikh Matti and the Ancient Assyrian Church of the East one of Mart Shmoni, in addition to several convents and monasteries belonging to different churches and the Pontifical Babel College, the only Christian theological faculty in Iraq and the Chaldean major seminary of St. Peter that were transferred in the north controlled by the Kurdish Regional Government in January 2007 for security reasons. In the past, according to the author of the report, Fadi Kamal Youssef, more than 10000 Christian families used to live in those neighbourhoods, a number reduced now to about only a few dozen. The phenomenon of the flight of Christians from those areas is impressive, and nothing seems able to reverse its trend. Thousands have fled. The most affluent and far-sighted went abroad before the violence began to rule, the less affluent went to north, and the poorest fled to other districts of the capital considered as more secure. It is precisely the members of three families still living in Baghdad who, interviewed, explained why, despite a slight improvement in the situation, not yet deem safe to return to their homes and their activities. All the interviewed, in fact, despite acknowledging that recent military operations contributed to making the neighbourhoods safer, so that some members of two families refer that they regularly go to check the abandoned houses, underline how this is not enough. Not only, in fact, the control of the government is not total, but those areas are now inhabited by people who moved there from other districts or from other provinces. It is, in fact, difficult to trust unknown people, people with whom is difficult to recreate those neighbourhood relations that once existed in spite of different religious and that had become strong in the years. The still alive perception of the lack of security is not however the only reason that hampers the return of these families to their homes and their activities. The daily life in the areas where they moved, however difficult – they are in any case IDPs - is better than in those they come from. In the center in fact, they say, there are more job opportunities, better services, the possibility of attending the church, even to stay out in the evening. It seems to read the description of a normal city, any city in the world where people work, go to market, to church, even find the desire to spend a few hours outside. Yet is the description of the red zone of Baghdad - not the green one protected by the Americans - the most dangerous city in the world, in the eyes of the Christians who found there their little piece of paradise.
Can we imagine how was their hell in Dora?

26 giugno 2008

Per gli iracheni cristiani il denaro ha comprato la sopravvivenza


Di Andrew E. Kramer

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Mosul- Iraq
Come i sacerdoti fanno ovunque, l'Arcivescovo Paulos Faraj Rahho, il leader dei caldei cattolici in questa antica città, raccoglieva le elemosine durante le messe domenicali. Per anni però il denaro, un mucchio spiegazzato di dinari iracheni multicolore, è finito in una busta e poi in mano ad un uomo che aveva minacciato di uccidere lui e tutta la sua congregazione.
"Che altro poteva fare?" chiede Ghazi Rahho, un cugino dell'arcivescovo.
"Ha cercato di proteggere il popolo cristiano".
I funzionari militari americani però ora dicono che dato la sicurezza è migliorata in Iraq a partire dallo scorso anno, l'Arcivescovo Rahho, 65 anno, aveva smesso di pagare la protezione, la punta della spaventosa ed enorme ombra di violenza e persecuzione che ha costretto centinaia di migliaia di cristiani a fuggire dall'Iraq. Tale decisione, dicono gli ufficiali, può essere il motivo per cui Monsignor Rahho è stato rapito nel mese di febbraio.
Due settimane più tardi il suo corpo fu ritrovato in una fossa fuori Mosul, la biblica città di Ninive.
L'Arcivescovo Rahho è stato tra i cristiani iracheni di più alto profilo a morire in guerra ed è stato compianto dal Presidente Bush e da Papa Benedetto XVI prima che il suo ruolo di tramite per il pagamento della protezione da parte dei cristiani caldei ai ribelli divenisse noto al di fuori dell'Iraq. Questi pagamenti, dicono gli ufficiali militari americani ed i cristiani iracheni, sono vertiginosamente aumentati tra il 2005 ed il 2007 e sono diventati una fonte di finanziamento per l'insurrezione. Una segreta, vergognosa e straordinaria complicazione nella vita di tutti i cristiani in Iraq e dei loro leaders - una complicazione di cui i cristiani solo ora, in un periodo di minore violenza rispetto ai primi anni della guerra, parlano più apertamente
"La gente lo nega, dice che è una faccenda troppo complessa, e che nessuno nella comunità internazionale fa nulla", ha detto il Reverendo Andrew White, il vicario anglicano di Baghdad.

Clicca su "leggi tutto" per la traduzione dell'intero articolo del New York Times
A complicare ulteriormente la questione, ha aggiunto, parte del denaro necessario a pagare la protezione proveniva da fondi donati dai cristiani all'estero per aiutare i loro fratelli cristiani in Iraq. Yonadam Kanna, legislatore cristiano nel parlamento iracheno, ha dichiarato, "Tutti gli iracheni cristiani hanno pagato".

Per più di 1000 anni l'Iraq settentrionale è stato abitato da persone che per la maggior parte hanno un credo ed un culto diverso: turcomanni, curdi, yazidi, sunniti e sciiti arabi, cristiani assiri di cui il caldei rappresentano la denominazione più numerosa. (La Chiesa caldea, una chiesa di rito orientale, fa parte della Chiesa cattolica romana, ma mantiene la propria tradizione la propria liturgia.) Dal tempo del Profeta Maometto, fondatore dell'Islam, i musulmani nel Medio Oriente consentirono quella diversità in parte attraverso una speciale imposta sugli ebrei e sui cristiani. L'imposta era chiamata jizya - e questo è il nome con cui gli insorti hanno scelto di mascherare le estorsioni di stampo mafioso ai cristiani. Secondo alcuni funzionari le richieste potrebbero essere di centinaia di dollari al mese per ogni membro maschile di una famiglia. In molti casi le famiglie cristiane hanno prosciugato i risparmi di una vita e si sono coperte di debiti per pagare. Gli insorti hanno anche raccolto denaro dal rapimento di alcuni sacerdoti. Il riscatto, spesso pagato dalla congregazione, di solito arriva a 150000 dollari, hanno riferito diversi sacerdoti e laici cristiani. Paradossalmente questa città, a lungo la sede della cristianità irachena, è diventata famosa anche come l'ultima roccaforte urbana dei ribelli sunniti. Un altro, più doloroso, paradosso è che molti dei restanti 7000000 iracheni cristiani hanno pagato per salvarsi la vita ben sapendo che il denaro sarebbe stato utilizzato per l'acquisto di bombe e altre armi.

L'Arcivescovo Rahho è stato un uomo di Dio che ha predicato la pace. Come sia stato coinvolto nel ruolo di pagatore ai ribelli è una questione complessa. Parte della risposta sta nel deterioramento della politica locale nel nord dell'Iraq sotto l'occupazione americana. Il nord, con tutte le sue diversità etniche e religiose, all'inizio era tranquillo. Nel 2004 un attacco dei marines a Falluja, a ovest di Baghdad, costrinse i capi dei ribelli sunniti del gruppo di Al-Qaeda in Mesopotamia a spostarsi nel nord, una regione crollato in un caos terrificante. I cristiani, visti come alleati degli invasori americani invasori, divennero bersaglio di attacchi punitivi. "Partire o morire" c'era scritto sui fogli attaccati alle loro porte.

"Ogni volta che i paesi occidentali vanno in guerra in Medio Oriente, diventa una guerra di religione", ha detto Rosie Malek-Yonan, autrice di "The Crimson camp", un romanzo storico sul massacro degli assiri del 1914-18 durante la prima guerra mondiale avvenuto in circostanze analoghe. La signora Yonan Malek, che ha testimoniato in merito alla questione della sicurezza dei cristiani in Iraq in una udienza del Congresso nel 2006, ha accusato l'esercito degli Stati Uniti di non riuscire a proteggere i cristiani preoccupati per il fatto che una particolare attenzione a questa minoranza farebbe il gioco dei propagandisti dell'insorgenza.

Il compito di proteggere i quartieri cristiani a Mosul e nei villaggi circostanti alla Piana di Ninive è quindi passato alle milizie peshmerga curde ed in seguito alle unità curde dell'esercito iracheno. I curdi, tuttavia, hanno il loro ordine del giorno: ampliare i confini della loro regione. Essi reclamano cinque distretti della Provincia di Ninive, di cui due storicamente cristiani. La signora Malek-Yonan ed altri cristiani assiri ed esperti accusano i comandanti curdi di privare i cristiani della sicurezza nello sforzo di modificare la demografia dei luoghi a loro favore. Il risultato atteso, ha dicharato Rosie Malek-Yonana, è stato l'esodo di centinaia di migliaia di cristiani dall' Iraq e l'uccisione di centinaia di altri. Un sacerdote è stato decapitato e squartato. I funzionari curdi negano di non aver saputo proteggere i cristiani. "Le forze curde irachene a Mosul fanno il loro lavoro senza ditinguere tra sette, religioni o nazionalità", ha detto Mohammad Ihsan, ministro per gli affar extra-regionali nel Governo Regionale del Kurdistan. Eppure la popolazione cristiana in Iraq è scesa a circa 700000 persone da una stima di 1,3 milioni nel periodo pre-bellico.

Coloro che sono rimasti si trovano di fronte ad un'angosciante scelta morale. Ciò che è stato chiamato jizya è stato raccolto e versato da ebrei e cristiani per i leader ribelli che operano sulla riva occidentale del fiume Tigri. L'arcivescovo Rahho, secondo il Sig. Kanna, il legislatore cristiano, pagava per conto dei cristiani che vivono nei quartieri orientali di Mosul. Egli aveva rappresentato una sceltat logica: aveva trascorso quasi tutta la sua vita a Mosul ed era ben conosciuto. "Era il legame", ha detto Kanna.

Il cugino dell'arcivescovo, Mr Rahho, ha dipinto il ruolo del prelato come meno centrale ed ha sottolineato come la scelta di pagare fosse una questione di vita o di morte per i parrocchiani. L'arcivescovo, poi, non è stato certamente l'unica persona a pagare. "Tutti lo abbiamo fatto", ha detto un sacerdote assiro che ha parlato a condizione dell' anonimato per paura della punizione da ribelli. "Avevamo paura". Da più racconti datti dai cristiani che hanno pagato il denaro cambiava di mano tranquillamente, in base ad un semplice meccanismo. Un uomo presentatosi come Abu Huraitha, che a volte diceva di rappresentare Al-Qaeda in Mesopotamia, faceva le telefonate minacciose, ha rivelato il sacerdote assiro. "Diceva: 'Ho bisogno di soldi, ho bisogno di soldi. Se non mi date i soldi, vi ucciderò". Colui che di fatto raccoglieva il denaro era tuttavia un cristiano, un anziano dagli occhi blu che faceva il giro delle chiese per conto degli insorti, ha detto il sacerdote. "Se non gli dai i soldi ti uccidono"

Il sacerdote ha detto di aver pagato 10 milioni di dinari iracheni, circa 8000 dollari, nell'arco di tre anni, fino allo scorso inverno, quando l'esercito degli Stati Uniti ha rafforzato la sua guarnigione a Mosul con il Terzo Reggimento di Cavalleria Corazzata. Le operazioni militari sono aumentate in città. Le unità americane hanno costruito fortini di quartiere e punti di controllo del traffico che hanno distubato i movimenti degli insorti. Il racket ha cominciato a diminuire. Durante i combattimenti dello scorso inverno, ha detto il sacerdote assiro, è girata la voce che gli americani avessero ucciso Abu Huraitha e molti capi della chiesa hanno sfruttato la morte di quel contatto per smettere di pagare. Tra questi, forse il più importante, è stato l'Arcivescovo Rahho che in gennaio denunciò in televisione i pagamenti dicendo che essi non avrebbero dovuto più essere fatti. Un mese dopo, il 29 febbraio, egli fu rapito da uomini armati dopo aver pregato nella Cattedrale del Santo Spirito. Uomini che spararono ed uccisero il suo autista e due guardie del corpo rinchiudendo il prelato nel bagagliaio di un auto. Al buio Monsignor Rahho è riuscito ad usare il cellulare per chiamare la sua chiesa implorando di non pagare un riscatto che avrebbe finanziato la violenza, hanno dichiarato alcuni funzionari della chiesa stessa.

Il Tenente Colonnello Eric R. Prezzo, consulente per l'esercito iracheno a Mosul est, ha detto che l'Arcivescovo Rahho, un diabetico, probabilmente è morto per mancanza di farmaci prima che la sua liberazione potesse essere negoziata. Un uomo arabo, Ahmed Ali Ahmed, che le autorità irachene hanno identificato come un membro di Al Qaeda in Mesopotamia, il gruppo che l'intelligence americana afferma essere guidato da stranieri, è stato catturato, processato e condannato a morte per il rapimento, anche se Mr. Kanna ha dichiarato che che Mr. Ahmed è stato solo l'uomo che ha effettuato il sequestro di persona e che gli organizzatori sono rimasti impuniti. In effetti, la chiesa era stata contattata in merito al pagamento del riscatto ed il prezzo richiesto, ma mai pagato, è stato prima di 1 milione e poi di 2 milioni di dollari.


For Iraqi Christians, Money Bought Survival


By ANDREW E. KRAMER

As priests do everywhere, Archbishop Paulos Faraj Rahho, the leader of the Chaldean Catholics in this ancient city, gathered alms at Sunday Mass. But for years the money, a crumpled pile of multicolored Iraqi dinars, went into an envelope and then into the hand of a man who had threatened to kill him and his entire congregation.

“What else could he do?” asked Ghazi Rahho, a cousin of the archbishop. “He tried to protect the Christian people.”
But American military officials now say that as security began to improve around Iraq last year, Archbishop Rahho, 65, stopped paying the protection money, one sliver of the frightening larger shadow of violence and persecution that has forced hundreds of thousands of Christians from Iraq. That decision, the officials say, may be why he was kidnapped in February.
Two weeks later, his body was found in a shallow grave outside Mosul, the biblical city of Nineveh.
Archbishop Rahho was among the highest-profile Iraqi Christians to die in the war. He was mourned by President Bush and
Pope Benedict XVI before his role as a conduit for protection money paid by the Chaldean Christians to insurgents became known outside Iraq.
These payments, American military officials and Iraqi Christians say, peaked from 2005 to 2007 and grew into a source of financing for the insurgency. They thus became a secret, shameful and extraordinary complication in the lives of Iraq’s Christians and their leaders — one that Christians are only now talking about more openly, with violence much lower than in the first years of the war.
People deny it, people say it’s too complex, and nobody in the international community does anything about it,” said Canon Andrew White, the Anglican vicar of Baghdad. Complicating the issue further, he said, some of the protection money came from funds donated by Christians abroad to help their fellow Christians in Iraq.

Click on "leggi tutto" for the whole article by New York Times
Yonadam Kanna, a Christian lawmaker in Iraq’s Parliament, said, “All Iraqi Christians paid.”
For more than 1,000 years, northern Iraq has been shared by people who for the most part believe and worship differently: Turkmen, Kurds, Yazidis, Sunni and Shiite Arabs, and Assyrian Christians — of whom the Chaldeans are the largest denomination. (The Chaldean Church, an Eastern Rite church, is part of the
Roman Catholic Church, but maintains its own customs and liturgy.)
Since the time of the Prophet Muhammad, the founder of Islam, Muslims in the Middle East permitted that diversity in part through a special tax on Jews and Christians. The tax was called a jizya — and that is the name with which the insurgents chose to cloak extortion, Mafia-style, from Christians.
Officials say the demands could be hundreds of dollars a month per male member of a household. In many cases, Christian families drained their life savings and went into debt to make the payments. Insurgents also raised money by kidnapping priests. The ransoms, often paid by the congregations, typically ran as high as $150,000, several priests and lay Christians said.
In a paradox, this city, long the seat of Iraqi Christianity, also became known as the last urban stronghold of Sunni insurgents. Another, more painful, paradox is that many of Iraq’s remaining 700,000 Christians paid to save their lives, knowing full well that the money would be used for bombs and other weapons to kill others.
Archbishop Rahho was a man of God who preached peace in his sermons. How he was contorted into fulfilling the role of providing payments to the insurgents is a complex question. Part of the answer lies in the deteriorating local politics of northern Iraq under the American occupation.
The north, in all its ethnic and religious diversity, was at first calm. But a 2004 Marine assault on Falluja, west of Baghdad, forced leaders of the Sunni insurgent group
Al Qaeda in Mesopotamia to move north. The region then crumbled into terrifying mayhem. Christians, seen as allied with the American invaders, became targets of retributive attacks. “Leave or die” notes began appearing on their doorsteps.
“Anytime the Western countries go to war in the Middle East, it becomes a religious war,” said Rosie Malek-Yonan, the author of “The Crimson Field,” a historical novel depicting the 1914-18 massacre of Assyrians during World War I under similar circumstances.
Ms. Malek-Yonan, who testified on the issue of Christians’ safety in Iraq at a Congressional hearing in 2006, accused the
United States Army of failing to protect the Christians out of concern that special attention to this minority would play into the hands of insurgent propagandists.
Instead, the task of protecting Christian neighborhoods in Mosul and villages on the surrounding Nineveh Plain fell to the Kurdish pesh merga militia and, later, to Kurdish-dominated units of the Iraqi Army.
The Kurds, however, have their own agenda: expanding the borders of their region. The Kurds claim five disputed districts in Nineveh Province, including two that were historically Christian.
Ms. Malek-Yonan and other Assyrian Christians and experts accuse Kurdish commanders of depriving the Christians of security in an effort to tilt the demographics in favor of Kurds. The expected result, she said, was an exodus of hundreds of thousands of Christians from Iraq. At least hundreds have been killed. One priest was quartered and beheaded.
Kurdish officials deny that they failed to protect Christians. “The Kurdish Iraqi forces in Mosul do their job without differentiation between sects, religion or nationality,” said Mohammad Ihsan, a minister for extra-regional affairs in the Kurdistan Regional Government.
Still, the Christian population of Iraq has fallen to roughly 700,000 today from a prewar estimate of 1.3 million.
Those who stayed behind faced an agonizing moral choice.
What was called the jizya was collected and paid by Jewish and Christian leaders to the insurgents operating on the west bank of the Tigris River. Archbishop Rahho, according to Mr. Kanna, the Christian lawmaker, made the payments on behalf of the Christians living in eastern neighborhoods of Mosul. He would have been an obvious choice: he had spent nearly his entire life in Mosul and was well known.
“He was the link,” Mr. Kanna said.
The archbishop’s cousin, Mr. Rahho, characterized the role as less central and emphasized the life-and-death nature of the choice to pay to save the lives of the parishioners. And the archbishop was certainly not the only person paying.
“We all paid,” said one Assyrian Orthodox Christian priest here who spoke on the condition of anonymity for fear of retribution from insurgents. “We were afraid.”
By several accounts by Christians who paid, the money changed hands quietly, according to a simple mechanism.
A man who introduced himself as Abu Huraitha, and who sometimes said he represented Al Qaeda in Mesopotamia, made the menacing phone calls, the Assyrian priest said.
“He said: ‘I need money, I need money. If you do not give us money, I will kill you,’ ” the priest said. The bagman, however, was a fellow Christian, an elderly blue-eyed man who made the rounds of churches for the insurgents, the priest said. “If you do not give to him, they kill you.”
He said he paid 10 million Iraqi dinars, or about $8,000, over three years, until last winter, when the United States Army reinforced its garrison in Mosul with the Third Armored Cavalry Regiment. Military operations increased in the city. The American units built neighborhood forts and traffic control points that disrupted the insurgents’ movements. The racket started to fall apart.
During the fighting last winter, the Assyrian priest said, word trickled out that the Americans had killed Abu Huraitha. Many church leaders used the death of this contact to halt payments. Among them, perhaps most prominently, was Archbishop Rahho. He gave a speech on television in January denouncing the payments and saying that they should no longer be made.
A month later, on Feb. 29, he was kidnapped by gunmen after praying at the Holy Spirit Cathedral. They shot and killed his driver and two guards and bundled him into the trunk of a car. In the darkness, he managed to reach his cellphone and call his church. He implored them not to pay a ransom that would finance violence, church officials said.
Lt. Col. Eric R. Price, an adviser to the Iraqi Army units in eastern Mosul, said Archbishop Rahho, a diabetic, probably died from lack of medication before his release could be negotiated.
An Arab man, Ahmed Ali Ahmed, whom the Iraqi authorities identified as a member of Al Qaeda in Mesopotamia, the homegrown group that American intelligence says is led by foreigners, was captured, tried and sentenced to death for the kidnapping, though Mr. Kanna, the Christian lawmaker, said that Mr. Ahmed was only the man who carried out the kidnapping and that the organizers remained unpunished.
In fact, the church had been approached about ransom payments. The price demanded, but never paid, was $1 million and then $2 million.

Anjeal Sarkissian e la sua "Terra inesistente"

By Baghdahope

Molti anni fa comprai un libro contenente i testi delle canzoni dei Beatles. Leggendo ieri un articolo pubblicato dal
Toronto Star quel libro mi è tornato in mente. O meglio, la storia che stavo leggendo mi ha fatto ricordare i primi versi di una canzone ed il disegno che la rappresentava. “E’ proprio un uomo che non viene da nessun luogo, seduto sulla sua terra inesistente, a far progetti inesistenti che non sono destinati a nessuno…”
“Nowhere man” si intitola la canzone, e quei versi mi appaiono perfetti per descrivere la storia di Anjeal Sarkissian, di suo marito Karabet Aram e dei figli Shant, Agob ed Apel, una famiglia armena che fino a qualche anno fa viveva in Iraq dove i suoi avi si erano stabiliti più di un secolo fa. Armeni quindi, ma iracheni per la legge, per la lingua, per le tradizioni acquisite nel tempo. Armeni che, come molti altri iracheni sono stati costretti a fuggire alle violenze ed alle minacce ed a rifugiarsi in un campo profughi in Giordania con un’unica, lontana, speranza rimasta, dall’altra parte dell’oceano e dei continenti, nel freddo Canada dove vive il fratello di Anjeal, Azad. Un fratello che negli ultimi sei anni ha tentato, con l’aiuto della Chiesa Assira Metodista del Canada, di salvare i suoi parenti e farli arrivare a Toronto, forte della sua cittadinanza canadese acquisita dopo esservi emigrato legalmente nel 1997. Immaginate lo shock, la disillusione, la disperazione quando ad un ennesimo tentativo la risposta del responsabile canadese del rilascio dei visti a Damasco è stata che la famiglia di Anjeal non avrebbe potuto raggiungere il fratello a Toronto ma avrebbe piuttosto potuto andare in Armenia. Andare in Armenia? Certo il legame ancestrale con quel paese esiste ma la vita, il futuro di Anjeal, Karabet e dei loro figli, negato nel paese che li ha visti nascere, non è in una terra dove sarebbero stranieri e soli come a Taipei o l’Ungheria, ma lì dove vivono coloro che vogliono loro bene, che li aspettano, che li aiuterebbero a ricostruire la loro vita andata in pezzi.
E poi, pur volendo neanche potrebbero andarci in Armenia. Chi, come un cliente dell’avvocato specializzato in problematiche dell’immigrazione Chantal Desloges, ha provato a farlo dopo l’ennesimo rifiuto del Canada, non solo si è visto negare il visto dall’ambasciata armena, quanto anche un documento che attestasse la sua richiesta, ed il relativo rifiuto, e che potesse servire per ripresentare la domanda al Canada.
Secondo la legge per i rifugiati il Canada, infatti, può reindirizzare una richiesta di rifugio ad uno stato terzo solo dietro garanzia che essa verrà accettata ma l’Armenia, secondo le parole di Arman Akopian, incaricato d’affari della Repubblica Armena in Canada, accetta come richiedenti solo armeni ben integrati nella diaspora facendo notare come, in considerazione del periodo di transizione economica che il paese asiatico vive, esso non è in grado di assorbire un afflusso di rifugiati e perciò tale pratica “non è incoraggiata”.
E’ contro queste leggi che Azad Sarkissian, l’armeno-canadese, dovrà lottare per liberare Anjeal, Karabet ed i loro figli e togliere loro la patente di “nowhere family”.

Anjeal Sarkissian and her "Nowhere land"

By Baghdadhope

Many years ago I bought a book containing Beatles’ songs lyrics. Yesterday, reading an article published by the Toronto Star, that book came back to me. Or rather, the story I was reading made me remember the first verses of a song and the image representing it. "He’s a real Nowhere man, sitting in his Nowhere land, making all his Nowhere plans for nobody…”
“Nowhere man” is the title of the song, and those verses seem to me perfect to describe the history of Anjeal Sarkissian, her husband Karabet Aram and their three children Shant, Agob and Apel, an Armenian family living until a few years ago in Iraq where their ancestors had established more than a century ago. Armenians then, but Iraqis for the law, the language, the traditions acquired over time. Armenians who, like many other Iraqis were forced to flee violence and threats and to live in a refugee camp in Jordan with a single, far away, hope remaining on the other side of the ocean and of the continents, in the cold Canada where Anjeal's brother, Azad, lives. A brother who in the last six years tried, with the help of the Assyrian Methodist Church of Canada, to rescue his relatives and getting them in Toronto, strong of his Canadian citizenship acquired after having legally emigrated there in 1997.
Let’s imagine the shock, the disillusion, the despair when, after the last attempt, the response of the Canadian visa officer in Damascus was that Anjeal and her family could not reach their relative in Toronto but could rather go to Armenia. Go to Armenia? Certainly the ancestral ties with that country exist but life, the future of Anjeal, Karabet and their children, denied in the country where they were all born, is not in a land where they would be foreigners and alone just as in Taipei or in Hungary, but where those who love them, wait for them, would help them to rebuild their lives gone to pieces live. And then, even if they chose it they could not go to Armenia. Who, as one client of the immigration lawyer Chantal Desloges, tried to do after the rejection of his refugee application by Canada, not only was refused the visa by the Armenian embassy in Canada, but also a document certifying his request, and its refusal, that could serve to resubmit the application to Canada. According to the refugee case law, in fact, Canada can redirect a request for refuge to a third state only with the guaranty that it will be accepted, but Armenia, according to Arman Akopian, chargé d'affaires of the Republic of Armenia in Canada, accepts only applicants well-established in the Armenian diaspora, pointing out how, given the period of economic transition that the Asiatic country lives, it cannot absorb an influx of refugees and therefore this practice "is not encouraged."
It is against these laws that Azad Sarkissian, the Armenian-Canadian, will have to fight to free Anjeal, Karabet and their children, the "Nowhere family."

25 giugno 2008

Mons. Warduni (Bagdad): Libertad Religiosa. El Medio Oriente arriesga vaciarse de cristianos.

Fuente: Temas de Interés Católicos

"Dios es la fuente de la libertad y de la verdad, y testimoniar a Cristo no significa ser fanáticos. Durante la guerra nuestras iglesias han dado la bienvenida a quien quiera, sin distinción de grupo étnico ni de fe, y lo mismo ha sido con nuestras escuelas y con nuestros subsidios eclesiales , y esto nos ha permitido conocer a nuestros amigos musulmanes".
Estas fueron las palabras de Mons. Shlemon Warduni, al Comité Científico del Centro Internacional de Estudio e Investigación Oasis, que se clausuraba hoy en Amman. Jordania, para referirse a la situación en Irak. "Alguno quiere vaciar el Medio Oriente de cristianos. La guerra ha destruído todo, incluso la tradición y la convivencia. Un tercio de los cristianos ha dejado el país, para escapar de las amenazas, del abuso y de la violencia. Sin mencionar el secuestro de sacerdotes -más de 16 han sido secuestrados, algunos han muerto, como el arzobispo de Mosul, Mons. Faraj Rahho"."Dora, un barrio cristiano de la capital, se ha vaciado. Nuestra juventud no tiene esperanza. Ser un iraquí fugado es un tipo de tabú. La situación se ha tornado insoportable. No solo por los problemas cotidianos: poca agua, electricidad a altos precios. Es absurdo, tenemos el petróleo, sin embargo somos pobres"."A pesar de todo esto, el diálogo debe continuar. Hay puntos en común, de los cuales podemos comenzar: oración, ayuno, vida eterna. Pero no debemos ocultarnos nuestras diferencias".

Libertà religiosa: Warduni (Baghdad) "Il Medio Oriente rischia di svuotarsi dai cristiani"

Fonte: SIR

“Dio è fonte di libertà e verità e testimoniare Cristo non significa essere fanatici. Le nostre chiese durante la guerra hanno accolto tutti, senza distinzione di etnia o fede, lo stesso le nostre scuole e le nostre istituzioni sociali. E questo ci fa conoscere ai nostri amici musulmani”.
Parole di mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad, che al Comitato scientifico del Centro internazionale di studi e ricerche Oasis che si chiude oggi ad Amman, in Giordania, ha descritto la situazione irachena. “Si vuole svuotare il Medio Oriente dai cristiani – ha affermato il vescovo - la guerra ha distrutto tutto anche la tradizione di convivenza. Un terzo dei cristiani ha lasciato il Paese per sfuggire a minacce, abusi e violenze. Per non parlare dei rapimenti di uomini di chiesa, ben 16 sacerdoti rapiti, qualcuno anche ucciso come è accaduto al vescovo di Mosul, mons. Faraj Rahho. Dora, quartiere cristiano della nostra capitale si è svuotato. I nostri giovani non hanno speranza, non sono accettati, un iracheno in fuga è una specie di tabù. La situazione è divenuta insopportabile anche per le difficoltà della vita di tutti i giorni, poca acqua, elettricità, prezzi altri. E’ paradossale, abbiamo il petrolio ma siamo poveri”. “Nonostante tutto – conclude Warduni – il dialogo deve continuare. Ci sono punti in comune dai quali partire, la preghiera, il digiuno, la vita eterna, ma non dobbiamo tacere le differenze”. (Daniele Rocchi - Amman)

Religious Freedom: Warduni (Baghdad) "The Middle East risks emptying out of Christians"

Source: SIR

“God is the source of freedom and truth, and testifying Christ does not mean being fanatics. During the war, our churches have welcomed everyone, with no distinction of ethnic group or faith, and so did our schools and our welfare facilities. And this makes us known to our Muslim friends”.
These are the words of mgr. Shlemon Warduni, auxiliary bishop of Baghdad, at the Scientific Committee of the International Study and Research Centre Oasis, which is closing today in Amman, Jordan, to describe the situation in Iraq. “One wants to empty the Middle East of Christians – stated the bishop –. The war has destroyed everything, even the tradition of cohabitation. One third of the Christians left the country to escape threats, abuse and violence. Not to mention the abductions of priests, as many as 16 priests abducted, some even killed, such as the bishop of Mosul, mgr. Faraj Rahho. Dora, a Christian neighbourhood of the capital, has emptied out. Our young people have no hope, they are not accepted, a fleeing Iraqi is a sort of taboo. The situation has become unbearable, not least because of everyday problems, little water, electricity, high prices. It is absurd, we have oil yet we are poor”. “Despite all this – concludes Warduni –, dialogue must go on. There are shared points from which we can start, prayer, fasting, eternal life, but we must not hide our differences either”.
(Daniele Rocchi-Amman)

21 giugno 2008

Incontro informale tra la Chiesa Assira dell'Est e quella Cattolica Romana

Fonte: Ankawa.com

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Il 13 ed il 14 giugno si è tenuta una riunione informale tra i rappresentanti della Chiesa cattolica e della Chiesa assira vicino a Chicago in Illinois, Stati Uniti d'America. La riunione ha seguito quella tra Sua Santità il Patriarca Mar Dinkha IV a Papa Benedetto XVI che ha avuto luogo l'anno scorso a Roma. L'incontro è stato ospitato dalla Chiesa assira presso il Seminario di Mundelein della University of St. Mary of the Lake in Illinois.
Presenti per la Chiesa assira erano il Rev. Corepiscopo George Toma della parrocchia di St.Andrew a Des Plaines (Illinois) il Rev. corepiscopo David Royel della chiesa di Mar Yosip a San Jose (California) e Padre William Toma della chiesa di St.Mary a Roselle (Illinois). Per la Chiesa cattolica erano presenti Mons. Johan Bonny del
Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, Padre Ronald G. Roberson, CSP, del Segretariato per gli affari ecumenici ed interreligiosi degli Stati Uniti, e Padre Thomas Baima docente presso il Seminario di Mundelein.
I rappresentanti assiri sono stati scelti dal Patriarca Mar Dinkha IV, mentre quelli cattolici sono stati scelti dal Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani. Nel corso della riunione i prelati hanno discusso gli eventi recenti accaduti nelle loro chiese, ed in particolare le difficoltà emerse nelle relazioni tra esse sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Sono stati discussi anche le passate attività della commissione mista per il
Dialogo Teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira d'Oriente, e il futuro di questo dialogo, come i diversi modi in cui i cattolici e gli assiri possono cooperare in aree in cui entrambe le comunità vivono: la formazione del clero, la produzione comune di materiale per l'insegnamento del cristianesimo, ed altri progetti comuni.Grande attenzione è stata inoltre data alla situazione disperata degli assiri e degli altri cristiani in Medio Oriente, in particolare in Iraq, ed a come le due chiese possono lavorare insieme per il loro sostegno. Il risultato della riunione sono state idee e proposte riguardanti i temi discussi e che saranno portate a conoscenza di entrambe le autorità ecclesiastiche per le opportune decisioni. I partecipanti sono stati grati per l'opportunità data loro di riflettere insieme sulla situazione attuale, ed hanno lasciato la riunione con la speranza che le due Chiese continuino a trovare il modo giusto per crescere insieme nell’unità che Cristo vuole. La mattina di domenica 15 giugno i prelati hanno partecipato a una Santa Qurbana (Eucaristia) guidata da Sua Santità Mar Dinkha IV, il Patriarca della Chiesa Assira d'Oriente, presso la chiesa di St. Mary a Roselle. Un messaggio di saluto da parte del Cardinale Francis Eugene George, Arcivescovo di Chicago, è stato presentato al Patriarca nel corso della riunione.

Informal meeting between the Assyrian Church of the East and the Roman Catholic Church

Source: Ankawa.com

Translated and adapted by Baghdadhope

Photo by Ankawa.com

From left to right: Fr. Baima, Fr. Roberson, Mgr. Bonny, Patriarch Mar Dinkha IV, Fr. Royel, Fr. G. Toma, Fr. W. Toma

On June 13/14 an informal meeting between representatives of the Catholic Church and the Assyrian Church of the East took place near Chicago, Illinois, USA. The meeting followed the one between His Holiness Patriarch Mar Dinkha IV with Pope Benedict XVI that took place last year in Rome. The meeting was hosted by the Assyrian Church of the East at the Mundelein Seminary of University of St. Mary of the Lake in Illinois. Present for the Assyrian Church of the East were Reverend Cor-bishop George Toma of St. Andrew parish in Des Plaines (Illinois) Reverend Cor-bishop David Royel of Mar Yosip parish in San Jose (California) and Father William Toma of St. Mary's parish in Roselle ( Illinois). For the Catholic church were present Mgr. Johan Bonny of the Pontifical Council for Promoting Christian Unity, Father Ronald G. Roberson, CSP, from the Secretariat for Ecumenical and Interreligious Affairs in the United States, and Father Thomas Baima, of the Mundelein Seminary of the University of St. Mary of the Lake. The Assyrian representatives were chosen by Patriarch Mar Dinkha IV while the Catholic representatives were chosen by Cardinal Walter Kasper, President of the Pontifical Council for Promoting Christian Unity.
During the meeting the representatives of the two churches exchanged information about recent events happened in their churches, in particular on the difficulties that have arisen in the relations between the churches in the West Coast of the United States. Also discussed were the past activities of the Joint Commission for Theological Dialogue between the Catholic Church and the Assyrian Church of the East, and the future of this dialogue, as well as the different ways in which Catholics and Assyrians can co-operate in places where both communities live: the training of clergy, the common production of material for the teaching of Christianity, and other common projects. Great attention was also given to the desperate situation of Assyrians and other Christians in the Middle East, especially in Iraq, and to how the two churches can work together to support them. The result of the meeting were ideas and proposals concerning the issues discussed and that will be brought to the attention of both Church authorities for appropriate decisions. The presents were grateful for the opportunity given to them to reflect together on the present situation, and left the meeting with the hope that both Churches will continue to find convenient ways to grow together in the unity that Christ wants. On the morning of June 15, Sunday, the prelates attended a Holy Qurbana (Eucharist) led by His Holiness Mar Dinkha IV, the Patriarch of the Assyrian Church of the East, at St. Mary's Church in Roselle, Illinois. A message of greeting from Cardinal Francis Eugene George, Archbishop of Chicago, was presented to the Patriarch during the meeting.

19 giugno 2008

Nuovo appello del Papa per la pace in Medio Oriente: i fedeli di tutto il mondo sostengano le comunità cristiane d'Oriente.




Un nuovo forte appello ai responsabili delle Nazioni per la pace in Medio Oriente: lo ha lanciato il Papa stamani, incontrando in Vaticano i partecipanti all’assemblea della ROACO, l’organismo che riunisce le Opere di assistenza alle Chiese Orientali Cattoliche. Benedetto XVI ha espresso anche un accorato invito ai fedeli di tutto il mondo a sostenere i cristiani nelle terre martoriate della Terra Santa, dell’Iraq e del Libano.
Il servizio di Sergio Centofanti:
Il Papa invita i fedeli di tutto il mondo a sostenere le comunità cattoliche d’Oriente, spiritualmente e materialmente, perché siano incoraggiate, nonostante le gravi difficoltà in cui si trovano, a “vivere in pienezza il mistero dell’unica Chiesa di Cristo nella fedeltà alle proprie tradizioni spirituali”: “Vi esorto, pertanto, a rafforzare questo vincolo di carità, perché secondo l’ammonimento dell’Apostolo delle genti, chi è nell’abbondanza supplisca a chi è nel bisogno e vi sia uguaglianza nella fraternità”. Benedetto XVI esprime la sua vicinanza alle piccole comunità cattoliche della Georgia e dell’Armenia, impegnate sulla strada dell’ecumenismo, e manifesta la sua grande preoccupazione per le sofferenze dei cristiani in Iraq. Ricorda con “profondo dolore” l’omicidio dell’arcivescovo di Mosul dei Caldei, mons. Paulos Faraj Rahho, “uomo della pace e del dialogo”. “Come tanti cristiani iracheni – ha detto - l’arcivescovo ha preso su di sé la sua croce ed ha seguito il Signore. Con la sua testimonianza della verità, ha contribuito a portare la giustizia al suo martoriato Paese e a tutto il mondo”. Con sollievo sottolinea invece “i recenti sviluppi in Libano, che ha ritrovato la via del dialogo e della reciproca comprensione” auspicando che il Paese dei cedri “sappia rispondere con coraggio alla sua vocazione di essere per il Medio Oriente e per il mondo intero un segno della possibilità effettiva di una coesistenza pacifica e costruttiva tra gli uomini”. Ha ricordato quindi che domenica prossima sarà beatificato a Beirut il padre cappuccino Jacques Ghazir Haddad. “Toccato dalla Croce di Gesù” – ha detto il Pontefice – questo religioso “si è fatto prossimo ai malati e ai poveri” chiamando “un gran numero di giovani donne a servirli. Possa la sua testimonianza – ha proseguito – toccare oggi il cuore dei giovani cristiani libanesi, perché imparino, a loro volta, la bontà di una vita evangelica al servizio dei poveri e dei piccoli , in fedele testimonianza della fede cattolica nel mondo arabo". Ha, quindi, rinnovato la sua “speciale gratitudine” a quanti si prendono a cuore la causa delle Comunità cristiane in Terra Santa, causa – ha aggiunto – “che è vitale per tutta la Chiesa”: “Condivido le loro prove e le loro speranze e prego ardentemente di poterle visitare di persona, come prego altresì perché taluni segni di pace, che saluto con immensa fiducia, trovino presto compimento. Faccio appello ai responsabili delle Nazioni perché siano offerte al Medio Oriente, e in particolare alla Terra di Gesù, al Libano e all’Iraq la sospirata pace e la stabilità sociale nel rispetto dei diritti fondamentali della persona, compresa una reale libertà religiosa. E’ la pace, del resto, l’unica via per affrontare anche il grave problema dei profughi e dei rifugiati, e per fermare l’emigrazione, specialmente cristiana, che ferisce pesantemente le Chiese Orientali”. Infine, Benedetto XVI ha affidato questi auspici “al Beato Giovanni XXIII, amico sincero dell’Oriente e Papa della Pacem in terris”.

Incendio distrugge una chiesa cattolica in Egitto


Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Un incendio ha distrutto una chiesa cattolica copta egiziana nel comune di Kafr el Sheij questa settimana, solo tre settimane dopo che un'altra chiesa era stata bruciata nel paese a seguito dei conflitti tra cristiani e musulmani. I vescovi cattolici in Egitto hanno invitato il governo a garantire maggiore sicurezza ai cristiani. Secondo il quotidiano Al Ahram, sono stati necessari otto camion dei vigili del fuoco per spegnere l'incendio. L'ultimo incendio era avvenuto a poche settimane dallo scoppio dei conflitti tra cristiani e musulmani, tra cui un attacco contro una gioielleria gestita da cristiani che causò la morte del proprietario ed il ferimento di altre quattro persone. Il quotidiano Vaticano "L'Osservatore Romano" ha riferito che gruppi musulmani accusano la Chiesa cattolica in Egitto di cercare "di formare un stato parallelo con l'aiuto di soggetti stranieri" per "modificare la natura arabo-musulmana natura della nazione." Il vescovo caldeo cattolico Youseff Ibrahim Sarraf del Cairo ha detto che non vi è alcuna motivazione religiosa dietro le violenze contro i copti cristiani, ma, piuttosto, che la violenza è il risultato di "normale attività criminale." Malgrado gli estremisti musulmani abbiano aumentato la loro influenza in Egitto negli ultimi anni, Mons. Sarraf ha definito i rapporti tra cristiani e musulmani "cordiali" e ha detto che il governo sta cercando di vietare l'ingresso nel paese agli estremisti che promuovono "pericolosi conflitti interni". "Anche noi dobbiamo stare attenti", ha aggiunto.
I copti cattolici costituiscono tra il 6 e il 10% della popolazione egiziana, che è di 80 milioni di persone.

Fire destroys Catholic church in Egypt


Fire destroyed a Coptic Catholic church in the Egyptian town of Kafr el Sheij this week, coming just three weeks after another church was burned in the country because of conflicts between Christians and Muslims.
The Catholic bishops in Egypt have called on the government to provide greater security for Christians. According to the newspaper Al Ahram, the blaze required emergency response from eight fire trucks in order to put it out.
The latest fire came a few weeks after conflicts between Christians and Muslims, including an attack on a Christian-run jewelry store, which resulted in the death of the owner and the wounding of four others.
The Vatican daily “L’Osservatore Romano” said Muslim groups accuse the Catholic Church in Egypt of seeking “to form a parallel state with the help of foreign subjects” in order “to change the Muslim-Arab nature of the nation.”
Chaldean Catholic Bishop Youseff Ibrahim Sarraf of Cairo said there was no religious motivation behind the violence against Coptic Christians but rather, that the violence was the result of “ordinary criminal activity.”
Even though Muslims extremists have been reportedly increasing their influence in Egypt in recent years, Bishop Sarraf called relations between Christians and Muslims “cordial” and said the government is trying to keep extremists from entering the country and fostering “dangerous internal conflicts.” “We must also be vigilant,” he added.
Coptic Catholics make up between 6 and 10% of the Egyptian population, which numbers 80 million.

17 giugno 2008

Monsignor Hollis alla messa per gli iracheni cristiani a Westminster

Fonte: Indipendent Catholic News

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Testo dell'omelia tenuta da Monsignor Crispin Hollis in occasione della Santa Messa per i cristiani iracheni celebrata nella cattedrale di Westminster.
Uno dei solenni doveri di cui è investito ogni vescovo al momento della sua ordinazione è quello di avere "una costante attenzione per tutte le chiese e dare aiuto e sostegno a quelle in stato di necessità. In Inghilterra e Galles facciamo ciò in molti modi, ma in particolare attraverso il Dipartimento per gli affari internazionali della Conferenza dei Vescovi. Al momento è mio privilegio guidare l'opera del dipartimento ed e questa responsabilità che mi ha permesso di lavorare a sostegno dei fratelli cristiani in Medio Oriente e in Africa meridionale, in particolare nello Zimbabwe, un paese che ha un disperato bisogno della nostra preghiera e del nostro sostegno.
La mia più recente visita di solidarietà è stata in Iraq, la patria di molti di voi che siete qui riuniti per questa Messa. Con il Vescovo William Kenney ho trascorso alcuni giorni nel nord del paese su invito di monsignor Andreas Abouna, noto a molti di voi per gli anni trascorsi a Londra come cappellano della comunità irachena. Un invito ed una visita avvenuti subito dopo il tragico rapimento e la morte di Monsignor Rahho di Mosul.
In questo paese pensiamo di sapere molto sulla situazione in Iraq, ma la nostra conoscenza deriva in gran parte da ciò che sappiamo e leggiamo delle attività militari a Baghdad e Bassora. Solo occasionalmente guardiamo oltre, ed è veramente solo quando lo facciamo che diventiamo consapevoli dei modi in cui la comunità cristiana, la vostra comunità cristiana, soffre ed è continuamente perseguitata e minacciata.
Io ora ho l'idea, anche se molto superficiale, delle notevoli sofferenzee difficoltà che i vostri fratelli e sorelle cristiani affrontano. Le continue violenze nel paese hanno gravemente colpito la vostra comunità in un modo particolare, e l'uccisione di laici e di sacerdoti da parte di estremisti di ogni fazione è stata sistematico e deliberatamente spietato.
Ma questo è solo parte del quadro. La mia visita, che mi ha portato a Erbil, Kirkuk e Sulemanyiah, mi ha permesso di condividere la fede con i vostri Vescovi, i sacerdoti ed i vostri concittadini. Sono stato enormemente incoraggiato e rafforzato dal loro coraggio e dalla loro fedeltà. Abbiamo visitato il seminario di Ankawa dove abbiamo trovato 27 giovani che studiano per il sacerdozio, ed abbiamo trascorso con loro, con i loro insegnanti e con le comunità religiose di suore che lavorano instancabilmente e senza timore per la diffusione del Vangelo un tempo fecondo.
Il nostro incontro oggi per questa celebrazione della Messa, alla quale vi accolgo tutti con calore, è per loro e per le persone che essi servono, ma è anche un'accorata preghiera al Signore per il dono della pace ad una terra profondamente afflitta.
Abbiamo ascoltato oggi San Paolo esortare i suoi lettori e noi a mettere tutte le nostre preoccupazioni nelle mani del Signore, ed allo stesso tempo impegnarsi costantemente per tutto ciò che è vero, onorevole, giusto e puro.
Nella situazione in cui si trova la comunità cristiana in Iraq oggi sarebbe facile perdere la speranza e cedere allo spietato ciclo di violenza, recriminazioni e vendetta. Ma sappiamo che questo non può essere il modo di agire cristiano.
La nostra vocazione, per quanto difficile ed impegnativa possa essere - e riconosco che è facile per me dire questo nella relativa comodità del contesto della situazione che viviamo qui in Inghilterra - è di cercare di diventare sempre più simili a Cristo, il Figlio di Dio. Vivendo nella sua ombra e alla luce della sua chiamata, cominciamo a scoprire la benedizione del Regno che appartiene ai poveri in spirito. In Lui, e man mano che diventiamo simili a Lui, noi eredititiamo la terra, come promesso al mite; riceviamo il conforto di coloro che piangono e la misericordia per coloro che mostrano misericordia, la visione di Dio per coloro che sono sinceri al Suo servizio.
I perseguitati, e voi siete direttamente o indirettamente tra loro, sono figli di Dio, anche se ciò significa che, come Cristo, si è crocifissi nella sete di pace.
L'impressione che ancora ho della mia visita non è di disperazione e di mancata speranza; ricorderò di più, e farò tesoro nella mia memoria, di essere stato tra un popolo per il quale la luce della fede è viva. E' stata una benedizione per me fare quell'esperienza e condividerla anche se in piccola parte. E come spesso accade, credo di aver ricevuto dalla mia visita in Iraq molto di più di quanto ho dato.
Ci ritornerò presto, ma oggi abbiamo bisogno di pregare in solidarietà con i nostri fratelli e sorelle in Iraq, abbiamo bisogno di pregare per la pace e la pace di Cristo, non semplicemente per la fine delle ostilità nel vostro paese. Abbiamo bisogno di pregare per la benedizione di Dio su tutti coloro che lì vivono e soffrono, e per tutti voi che siete lontani da casa ma ancora vicini alle famiglie ed agli amici che vivono nel pericolo e nel disagio.
Preghiamo che il Signore ci riempia delle grazie e delle benedizioni che Egli ha promesso a coloro che Gli sono fedeli.





Bishop Hollis at Westminster Mass for Iraqi Christians

Source:Indipendent Catholic News

Bishop Crispin Hollis have the following homily yesterday at the Mass for Iraqi Christians in Westminster Cathedral
One of the solemn duties that is laid on every bishop when he is ordained is that he should have "a constant care for all the churches and gladly come to the aid and support of churches in need. We do this in all sorts of ways in England and Wales, but particularly through the Department for International Affairs in the Bishops' Conference.
At the moment, it is my privilege to head up the work of the department and it's this responsibility which has enabled me to work in support of fellow Christians in the Middle East and in Southern Africa, especially Zimbabwe ­ a country which desperately needs our prayer and support at this time.
My most recent overseas solidarity visit was to Iraq, which is home to so many of you who have gathered here for this Mass today. Together with Bishop William Kenney, I spent some days in the north of the country at the invitation of Bishop Andreas Abouna, who will be well known to many of you following the years that he spent in London as Chaplain to the Iraqi community. Our visit ­ and his invitation ­ came hard on the heels of the tragic kidnapping and death of Archbishop Rahho of Mosul.

Click on "leggi tutto" for the whole text of Mgr. Hollis' homily
In this country, we may feel that we know quite a lot about the situation in Iraq but our knowledge largely stems from what we know and read about of the military activity in and around Baghdad and Basra. Only occasionally do we look further afield and it's really only when we do that do we become aware of the ways in which the Christian community ­ your Christian community ­ is suffering and being continually harassed and threatened.
I now have some idea, albeit very superficial, of the sufferings and hardships being faced and endured by your Christian brothers and sisters ­ and they are considerable. The continuing violence in the country has seriously wounded your community in a particular way and the murder of lay people and clergy by extremists of all sorts has been both systematic and deliberately relentless.
But this is only part of the picture. My visit, which took me to Erbil, Kirkuk and Sulemanyiah, allowed me to share faith with your bishops, the priests and your fellow citizens. I was hugely encouraged and strengthened by their courage and fidelity. We visited the seminary in Ainkawa where we found 27 young men studying for the priesthood and we spent fruitful time with them, with their teachers and with the religious communities of sisters who work so tirelessly and fearlessly for the spread of the Gospel.
Our gathering here today for this celebration of Mass, to which I most warmly welcome you all, is as much about them and the people they serve as it is about being a desperate prayer to the Lord for his gift of peace for a deeply troubled land.
We've listened today to St Paul exhorting his readers ­ and us ­ to place all our cares into the Lord's hands, at the same time as constantly striving for all that is true, honourable, upright and pure.
In the situation, which faces the Christian community in Iraq today, it would be easy to lose hope and allow ourselves to succumb to the relentless cycle of violence, recrimination and revenge. But we know that this cannot be the Christian way.
Our calling, however hard and demanding it may be ­ and I acknowledge that it is easy for me to say this in the relative comfort of the context of the situation that faces us here in England ­ is to strive to become more and more like Christ, the Son of God. Living in his shadow and in the light of his call, we begin to discover the blessing of the Kingdom that belongs to the poor in spirit. In Him, and as we become more and more like Him, we inherit the earth as promised to the gentle; we receive the comfort of those who mourn and the mercy for those who show mercy, the vision of God for those who are single-minded in His service. The persecuted ­ and you find yourselves either directly or indirectly among them ­ are children of God, even if that means that, like Christ, you are crucified in your thirst for peace.
But my lasting impression from my visit was not one of despair and hopelessness; much more, I will remember and treasure the memory that I have been among a people for whom the light of faith is alive. It was a blessing for me to have been able to experience that and share in that in some small way. As is so often the case, I think I received in my visit to Iraq far more than I was able to contribute.
I shall return before too long, but today, we need to pray in solidarity with our brothers and sisters in Iraq; we need to pray for peace ­ and Christ's peace, not simply an end to hostilities ­ for your country. We need to pray for God's blessings on all who live and suffer there and for all of you who are far from home and yet near to families and friends who live in danger and hardship. And we pray that the Lord fill us with all the blessings and graces that He promises to those who are faithful.

16 giugno 2008

Chiusura dell'anno accademico del Babel College ad Ankawa

By Baghdadhope

Sabato 14 giugno si è chiuso ad Ankawa l’anno accademico del Babel College. Il secondo
da quando, nel gennaio 2007, l’unica facoltà teologica cristiana in Iraq era stata costretta ad abbandonare la sua sede storica nel quartiere di Dora a Baghdad per trasferire le proprie attività nel nord a causa della situazione di insicurezza.
A conseguire la licenza sono stati, seguendo la tradizione ecumenica del Babel College, appartenenti non solo alla chiesa caldea che gestisce l’istituzione, ma anche ad altre chiese:
Naur Hanush e Raad Hanna della chiesa siro cattolica, il cui vescovo di Mosul, Monsignor George Qas Moussa ha assisitito alla cerimonia, Sana’ Aliahu della chiesa assira, Sevan Nazaret, della chiesa armena e Ayub Shawkat, monaco dell’ordine Antoniano di Sant Hormizd dei Caldei.
La cerimonia, importante per la solennità e la dimostrazione di continuità di una tradizione culturale che pur nelle difficoltà continua dal 1991, ha riunito dopo molto tempo la chiesa caldea irachena che nell’ultimo anno aveva fatto segnalare degli episodi di disaccordo al suo interno.
Disaccordi che erano divenuti pubblici nel giugno del 2007 in occasione del sinodo caldeo tenutosi ad Al Qosh. Un sinodo che aveva visto sospendere le sue decisioni a causa di una "fuga di notizie"
e che si era distinto per l’assenza di ben cinque vescovi che ne avevano dichiarato il boicottaggio.
Sabato scorso, però, ad Ankawa ben tre di quei cinque vescovi erano presenti. Ad accompagnare il Patriarca della Chiesa Caldea, Cardinale Mar Emmanuel III Delly, il Rettore del Babel College, Monsignor Jacques Isaac, ed il vescovo ausiliare di Baghdad, Monsignor Shleimun Warduni, erano infatti Monsignor Louis Sako, vescovo di Kirkuk, Monsignor Mikha Paulus Maqdassi, vescovo di Al Qosh e Monsignor Rabban Al Qas, vescovo di Amadhiya ed ancora amministratore patriarcale di Erbil, visto che la nomina del vescovo della città nella persona del monaco caldeo Fadi Isho è stata sospesa in seguito al mancato rispetto del segreto sinodale dello scorso giugno.
Tre vescovi che in una lettera aperta pubblicata da Asia News lo
scorso luglio avevano dichiarato di aver rifiutato di partecipare al sinodo perchè in disaccordo con la sua agenda, e che tra le priorità del lavoro ecclesiale da perseguire citavano proprio la situazione del Seminario Maggiore caldeo e del Babel College per i quali, riportiamo le parole esatte pubblicate da Asia News, bisognava: “trovare un posto appropriato ed una direzione che renda gli studenti capaci di rispondere alla loro vocazione e scegliere un direttore spirituale. Il gruppo responsabile del seminario deve essere un modello per i seminaristi nel loro cammino verso il sacerdozio. Per sviluppare e far progredire il Babel College (facoltà di teologia) grazie al quale gli studenti di tutte le Chiese ricevono la loro formazione teologica.”
Parole che a molti erano sembrate critiche della gestione delle due istituzioni.
Che la presenza dei tre alti prelati alla cerimonia di Ankawa segni dei nuovi sviluppi al’interno della chiesa caldea? Il tempo lo dirà. O magari lo farà un altro sinodo, quando, “sbloccata” la situazione di quello dello scorso anno, verrà convocato. Magari a Roma, “sotto gli auspici del Santo Padre” come avevano esplicitamente richiesto i vescovi che non avevano partecipato a quello di Al Qosh

Closing of the academic year of Babel College in Ankawa

By Baghdadhope

On Saturday, June 14, a ceremony was held in Ankawa for the closing of the academic year of Babel College. The second academic year since when, in
January 2007, the only Christian theological faculty in Iraq was forced to leave its historical seat in the district of Dora in Baghdad to transfer its activities in the north because of the situation of insecurity. To obtain the licence were, following the ecumenical tradition of Babel College, students belonging not only to the Chaldean Church that runs the institution, but also to other churches: Naur Hanush and Raad Hanna of the Syriac Catholic church that was represented by the bishop of Mosul, Mgr. George Qas Moussa, Sana 'Aliahu of the Assyrian church, Sevan Nazareth of the Armenian church and the Chaldean monk Ayub Shawkat.
The ceremony, important for its solemnity and as the demonstration of the continuity of a cultural tradition living, despite the difficulties, since 1991, brought together, after a long time, the Iraqi Chaldean church that in the last year had seen episodes of disagreement among its ranks. Disagreements that had became public in June 2007 in occasion of the Chaldean synod held in Al Qosh. A synod the decisions of which were suspended because of a "leak" and that saw the absence of five bishops who had declared its boycott.
Last Saturday, however, in Ankawa three of those five bishops were present. With the Chaldean Patriarch of the Chaldean Church, Cardinal Mar Emmanuel III Delly, the rector of Babel College, Mgr. Jacques Isaac, and the auxiliary bishop of Baghdad, Mgr. Shleimun Warduni, there were, in fact, Mgr. Louis Sako, bishop of Kirkuk, Mgr. Mikha Paulus Maqdassi, Bishop of Al Qosh and Mgr. Rabban Al Qas, bishop of Amadhiya and still patriarchal administrator of Erbil, since the appointment of the bishop of the city in the person of the Chaldean monk Fadi Isho was suspended following the betrayal of the synodal secret on last June.
Three bishops who in an open letter published by Asia News on last July declared to have refused to participate in the synod because of their disagreement with its agenda and who, among the priorities of ecclesial work to be pursued, cited precisely the situation of the major Chaldean seminary and of Babel College by saying, these are the exact words published by Asia News, that it was necessary to "to find a proper place and direction to enable students to pursue their call of priesthood and choose a spiritual director. The seminary team should be a model for the seminarians to achieve their priesthood. To develop and progress the Babel College, (faculty of theology) for which the students of all churches have their theological formation. "
Words that seemed to many critic of the management of both institutions.
Is the presence of the three senior prelates at the ceremony in Ankawa a sign of new developments inside the Chaldean church? Only time will tell. Or maybe another synod, when, once "unlocked" the situation of last year, it will be convened. Maybe in Rome, "under the auspices of the Holy Father" as the bishops who had not participated in the synod of Al Qosh had explicitly requested.

10 giugno 2008

La situazione in Iraq - incontro con don Renato Sacco

10 giugno 2008
ore 20.45 (Durata: 3 ore ingresso libero)
Milano presso la sala Trasfigurazione della Fondazione Culturale San Fedele
piazza san Fedele, 4
Milano
dibattito
La situazione in Iraq - incontro con don Renato Sacco
Il Punto Pace di Pax Christi Milano assieme alla rivista gesuita Popoli organizza un incontro sull'Iraq. Relatore don Renato Sacco responsabile delle attività di solidarietà con l'Iraq di Pax Christi che farà memoria del martirio di mons. Rahho.
In questa occasione si venderà un DVD per raccogliere fondi a favore delle vittime irachene del terrorismo. Siete tutti invitati.
Per maggiori informazioni:
Punto Pace Milano - Tomaso Zanda
cell. 328.5416074

9 giugno 2008

Iraq: l'appello del vescovo caldeo

Source: TG1 RAI, edizione delle 13.00



Clicca sul titolo per vedere il filmato
Iraq, l'appello del vescovo caldeo
Foto: Rai.net

Iraq, the appeal of the Chaldean bishop

Source: TG1 RAI, edizione delle 13.00

Iraq, l'appello del vescovo caldeo

Following the English text of the short interview to Mgr. Luis Sako aired by Italian TG1 RAI translated and transcribed by Baghdadhope

"We need to be helped to stay because it's our history, our country. We are not foreigners and we are the roots of Christianity, even the Western one. "
This is the concerned appeal to the international community of the Chaldean bishop of Kirkuk, Mgr. Luis Sako. The Christian presence in his country has been halved in recent years. Christians today are about 500,000 and the war has worsened the living conditions for the entire population.
"All these problems began after the fall of the regime when all the borders were open and everyone entered the country. Iraq has become a fertile field for international terrorism."
In Italy to receive the prize Defensor Fidei promoted by the magazine "Il Timone" Mgr. Sako says to be concerned about the possible race for nuclear of Iran.

7 giugno 2008

C’è un futuro per il cristianesimo in Iraq?


By Pierre de Charentenay

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

L’Arcivescovo caldeo di Mosul, Paulos Faraj Rahho, è stato rapito il 29 febbraio dopo la celebrazione della messa presso la Chiesa del Santo Spirito a Mosul. Il suo autista e due diaconi sono stati uccisi nel corso del rapimento. L’Arcivescovo Rahho è stato trovato cadavere molti giorni più tardi. Questo è stato il più recente di una serie di rapimenti e uccisioni di sacerdoti e religiosi in Iraq - 20 dei quali in soli cinque anni. Non tutti i rapimenti sono finiti con un omicidio. Nel gennaio 2005, Basile Georges Casmoussa, Arcivescovo siro di Mosul, è stato rapito ma liberato due giorni più tardi, dopo il pagamento di un 1 milione di dollari di riscatto.
I cristiani sono un bersaglio popolare favorito dai rapitori. Sono una piccola minoranza che vive sparsa in molti luoghi e nella maggior parte dei casi indifesa. Poihé non sono musulmani sono spesso considerati alleati delle truppe americane. I sequestri di cristiani, inoltre, sono un utile mezzo di propaganda perché sono ampiamente seguiti dalla stampa occidentale. La dimensione del riscatto richiesto può variare: un cristiano laico "vale" circa 100.000 dollari, un sacerdote 500.000. Un vescovo più di 1 milione.
In risposta alle violenze i cristiani sono fuggiti a migliaia nel nord dell'Iraq o nei paesi confinanti. La metà dei cristiani che vivevano in Iraq nel 2000 ha lasciato la propria casa. Ci sono circa 200.000 cristiani in Kurdistan, di cui 90.000 rifugiati; altri 180.000 si sono rifugiati in Siria, Giordania, Turchia e Libano. La facoltà cattolica di filosofia e teologia di Baghdad si è trasferita a Erbil ed il il seminario di Mosul è chiuso.
Ciò che abbiamo visto e udito
Nel febbraio 2008, una delegazione di Pax Christi, l'organizzazione cattolica internazionale per la pace, si è recata nel nord dell'Iraq visitando 26 diverse comunità, soprattutto nel Kurdistan, ma anche a Karmah, Qaraqosh e Kirkuk. L'obiettivo del viaggio era quello di esprimere la solidarietà dei cristiani in Europa a quelli in Iraq.
In un villaggio abbiamo incontrato un uomo che era stato sequestrato per una settimana e restituito alla sua famiglia la mattina del nostro arrivo in cambio di un riscatto di 60.000 $. I suoi rapitori avevano chiesto che si convertisse all'Islam ma egli aveva rifiutato. La sua identità cristiana conta molto di più che la sua fede personale. E’ un membro di una comunità cristiana, di una famiglia cristiana e di una cultura cristiana. Nel suo caso la conversione sarebbe stato un tradimento del suo credo religioso e avrebbe causato una completa separazione dal sistema sociale in cui aveva sempre vissuto. Se tali conversioni ci fossero, e se fossero molte, distruggerebbero tutta la comunità. Per questo motivo i rapimenti hanno un obiettivo politico: l'eventuale espulsione di tutti i cristiani dall’Iraq meridionale e centrale.
Nonostante le difficoltà e le violenze, siamo stati ricevuti molto calorosamente con processioni e canti. E' stato come il benvenuto della Domenica delle Palme. Abbiamo percorso circa 1200 miglia attraverso le pianure e le montagne. Dopo essere stati accolti con calore all'ingresso di ogni comunità si andava in chiesa per una breve preghiera comune, per spiegare il motivo della nostra presenza lì ed ascoltare le storie della gente.
Ovunque ci siamo recati la gente ci ha chiesto di essere la loro voce tra i cristiani in Occidente e di raccontare le loro storie, una volta tornati a casa. Molte volte la gente ritornava a parlare di tre temi fondamentali:
Siamo dimenticati da tutti. I cristiani nei villaggi, sia residenti che rifugiati, si sentono isolati e dimenticati. Vengono considerati solo una piccola parte di un problema più ampio, un ingranaggio di una grande macchina politica e militare che nessuno controlla. Sebbene il Kurdistan abbia accolto i profughi dal sud dell'Iraq e abbia dato loro cibo e riparo la situazione è ancora precaria.
Siamo stati costretti a fuggire. Molti cristiani hanno lasciato Baghdad e le regioni circostanti perché temevano per la propria vita ed il proprio sostentamento. Hanno anche abbandonato Mosul, una cosa particolarmente difficile per loro dato il significato storico che la città ha per i cristiani. Mosul, ora governata dalla legge islamica, è un luogo molto pericoloso, e ci sono molti episodi di rapimenti ed uccisioni. Almeno 20 diversi gruppi terroristici hanno lottato per il controllo della città mentre i militari statunitensi cercavano di portare un pò di sicurezza. La violenza è stata così feroce che a volte i cristiani hanno dovuto fuggire in fretta, senza poter portare con sé nulla.
Dei rifugiati cristiani arrivati in Kurdistan, alcuni tornano alle terre da cui erano stati cacciati una generazione fa da Saddam Hussein.
Terre che ora sono molto diverse. I rifugiati non riescono a trovare lavoro e devono sopravvivere con le tessere alimentari. Non vi è alcuna struttura industriale e le terre che erano di loro proprietà prima di essere cacciati dal Kurdistan negli anni 70 sono ora occupate da musulmani che si rifiutano di restituirle. Siamo preoccupati per la completa scomparsa dei cristiani dall'Iraq. I profughi non hanno speranze in un futuro che sembra completamente buio, senza alcuna possibilità di tornare alle loro case nel sud. Molti sperano di lasciare l'Iraq del tutto e sono in attesa di un visto per i paesi occidentali. Finora solo la Svezia e la Norvegia li hanno accolti. Altri paesi, e tra essi gli Stati Uniti e molti nell'Unione europea, hanno a tutti gli effetti chiuso i propri confini. Un ulteriore segno infausto è che il desiderio di fuggire è più fortemente sentito dai giovani e così potrebbe esserci poco futuro per i cristiani in Iraq.
Eppure che scelta hanno? Possono tornare nel sud dove la violenza e l’oppressione li attendono o possono rimanere nel nord dove non c'è futuro. L'invasione turca nel nord dell'Iraq in marzo ha ricordato a tutti i rifugiati quanto la loro situazione sia precaria. Sono presi tra la speranza di stabilità in questa regione ed il rifiuto della Turchia di accettare un Kurdistan iracheno libero e forte appena oltre il confine.
Segni di promesse
I rifugiati cristiani hanno ricevuto aiuti e sostegno da due parti. In primo luogo la chiesa che si è rivelata un amico potente. I vescovi ed i sacerdoti siri e caldei che hanno deciso di rimanere hanno rappresentato dei grandi segni di speranza per i laici. E nonostante la violenza e la persecuzione la chiesa è presente ed attiva nella misura in cui può esserlo. I gesuiti sono stati espulsi dal paese nel 1969, soprattutto perché americani, ma i Domenicani (appartenenti alla provincia francese) hanno ancora una forte presenza a Baghdad e Mosul, sebbene meno numerosa di prima.
Anche di fronte a un futuro incerto in molti luoghi sono state costruite delle chiese ed a Qaraqosh un nuovo seminario. Questi sono segni promettenti. Ulteriore sostegno è arrivato dal Kurdistan, dove i cristiani hanno trovato rifugio e pace. Sarkis Aghajan, un cristiano che è il Ministro delle Finanze del Kurdistan, ha svolto un ruolo importante nella costruzione di 10.000 abitazioni in circa 150 villaggi, di decine di chiese e del seminario di Qaraqosh. E’ stato uno sforzo enorme, essenziale se deve esserci una qualche ragionevole possibilità di sopravvivenza.
Un modo di procedere?
In mezzo a questo caos molti hanno proposto una soluzione: un Iraq federale diviso in tre regioni autonome, sciiti, sunniti e curdi. Ma coloro che hanno avanzato questa idea, alcuni dei quali sono cristiani illustri, hanno completamente dimenticato i cristiani che vivono in Iraq. Aghajan vuole che i cristiani si stabiliscano nella Piana di Ninive e sulle montagna a nord-ovest del Kurdistan in una regione autonoma.
La Città di Ankawa, vicino ad Erbil, la capitale del Kurdistan, ha accolto centinaia di famiglie cristiane dal sud e la sua popolazione è cresciuta da 25.000 a 35.000 persone dall'inizio della guerra. Per Aghajan, la presenza dei cristiani nella regione curda è positiva, dà una buona immagine del Kurdistan, ed i cristiani sono laboriosi e competenti. Ma i rifugiati non sono d'accordo sulla proposta di una regione speciale.
Alcuni di loro la chiedono come rifugio, ma altri respingono l'idea, soprattutto persone come l’Arcivescovo di Kirkuk, Mons. Sako, perché essa potrebbe essere considerata come una rinuncia alle rivendicazioni delle loro terre nel sud. E 'chiaro che qualsiasi futura discussione su uno stato federale in l'Iraq dovrebbe includere il rispetto del diritto dei cristiani a controllare le loro terre ed il loro destino.
Perché concentrarsi sui cristiani?
Perché dovremmo concentrarci sulla difficile situazione dei cristiani quando tanti altri stanno soffrendo? Si tratta di un piccolo gruppo, potrebbe dire qualcuno, che a stento rappresenta il 3% della popolazione dell'Iraq. Perché sono così importanti? Ci sono tre ragioni: In primo luogo essi non sono solo vittime di una guerra ma anche della persecuzione religiosa. Sono in gioco i diritti umani di un’intera minoranza religiosa.
In secondo luogo i cristiani iracheni sono un segno del pluralismo. Fintanto che essi rimarranno in Iraq si sarà possibile per le diverse fedi religiose convivere. In terzo luogo essi fanno parte della cultura e della storia religiosa della regione: gli iracheni cristiani l’hanno abitata da secoli, un segno vivo di una cultura antica nel luogo di nascita della Bibbia. I cristiani iracheni sono di fronte ad un dilemma fondamentale. Come comunità sanno che dovrebbero rimanere, e questo è il desiderio di molti capi delle comunità, compresi i vescovi come l’Arcivescovo Sako. Individualmente però essi sono pronti a partire per salvare il loro futuro e talvolta la loro vita. Che può biasimarli? Se i cristiani decidessero di partire dovrebbero essere accolti negli altri paesi, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa. Dovrebbero essere aiutati a trovare una sistemazione. Agli studenti dovrebbero essere rilasciati i visti per permettere loro di studiare. Se decidessero di rimanere in Iraq noi, in Occidente, dovremmo dar loro aiuto.
Il quesito che la situazione dei cristiani in Iraq ci pone non è tanto se aiutare un numero relativamente ristretto di persone con aiuti umanitari e di altro tipo. La posta in gioco è la sopravvivenza stessa di una delle più antiche comunità cristiane nel mondo.
I cristiani iracheni devono sapere che tutti cristiani li aiuteranno.

Un contributo di Pierre de Charentenay, sj,
Redattore della Rivista Studi della Compagnia,
la rivista interna dei Gesuiti di France
tradotto ed adattato da Baghdadhope

Come parte di una delegazione di Pax Christi volta a sostenere i cristiani in Iraq ho potuto recarmi, tra l’11 ed il 19 febbraio 2008, nel Kurdistan iracheno ed in alcune città di quella provincia. La visita della delegazione è stata una tappa di un grande movimento della Chiesa di Francia, iniziato da Pax Christi, per mostrare ai cristiani d'Iraq la solidarietà dei cristiani francesi e dell’Occidente. E’ stata la prima delegazione di tale tipo dopo l’invasione americana e la caduta di Saddam Hussein. Abbiamo viaggiato per quasi 2000 km per incontrare circa 26 diverse comunità ad Erbil, la capitale del Kurdistan, nella città e nei dintorni di Dehoc, e nella regione irachena di Karakoch e della contestata città di Kirkuk.
L'accoglienza da parte delle autorità del Kurdistan è stata eccellente visto che siamo stati ricevuti dal presidente della regione, M. Barzani, da uno dei suoi ministri, Sarkis Aghajan, e da due governatori provinciali. Ma l'accoglienza è stata ancora più straordinaria e calda da parte delle comunità caldea e siriaca e dei loro vescovi nel corso degli incontri e delle funzioni liturgiche piene di vita e di dinamismo. La Chiesa è forte in queste terre. E’ ben radicata. Ha costruito molte chiese e seminari. Un gesuita americano, che vive a Baghdad dagli anni 60, recentemente arrivato da Amman, Padre Denis Como, è il padre spirituale dei seminaristi di Erbil. I domenicani sono numerosi e fanno un lavoro eccezionale.
Tuttavia il sostegno ai cristiani in quella regione è assolutamente necessario. 100.000 cristiani provenienti da Baghdad o da Mosul sono arrivati nel Kurdistan dal 2004. Le loro famiglie erano state minacciate più volte. Hanno deciso di fuggire, a volte in un solo giorno, non portando via nulla. Vengono a ripopolare i villaggi del Kurdistan abbandonati sotto il regime di Saddam Hussein negli anni 70. Delle piccole case sono costruite per ciascuno di loro dal governo, ma questi villaggi sono isolati, non c'è lavoro ed i rifugiati devono vivere con l’assistenza finanziaria del governo. Gli agricoltori non hanno più le terre perché sono state occupati da curdi musulmani che non vogliono restituirle. I più anziani si accontentano di questa situazione difficile ma i più giovani vogliono lasciare al più presto questi villaggi. Tutti hanno un cugino o un parente in Europa o negli Stati Uniti d'America: sperano quindi di poter ottenere un visto un giorno o l’altro. Nel frattempo essi si trovano di fronte alle sfide culturali rappresentate dalla lingua e dalla cultura: non possono comunicare in arabo con i curdi che non lo conoscono.
Questa popolazione di rifugiati non manca di sostegno immediato, ma è priva di futuro. Questi cristiani ancora sognano di tornare a Baghdad o alla loro vita. Non hanno i mezzi per radicarsi in Kurdistan perché non hanno terra e neanche lavoro. Nessuno, né in Iraq o né all’esterno, vuole investire un dollaro in questa regione. Queste persone sono condannate ad essere assistite.
Questo è ciò che tutte queste comunità ci hanno raccontato, riunione dopo riunione, sia in privato o in pubblico. I capi villaggio hanno espresso le loro rimostranze come se dovessimo dare loro soluzioni pratiche e definitive alla loro sventura. Potevamo solo rispondere loro che avremmo parlato delle loro difficoltà in Europa, per rendere nota all’opinione pubblica ed ai politici la loro situazione. Eravamo ben consapevoli del fatto che essi sono le vittime di sconvolgimenti geopolitici i cui responsabili si trovano a Washington, Baghdad o in altre capitali. Essi sono anche vittime di un movimento più vasto in quella regione del mondo, Iraq, Turchia, Siria, ecc, dove i cristiani sono sottoposti a pressione sistematica che li spinge all’esilio. Eppure essi sono una garanzia del pluralismo delle culture e delle religioni in tutto il Vicino e Medio Oriente. La loro assenza potrebbe costituire una minaccia per le capacità degli altri popoli a vivere insieme su questi territori.
La nostra delegazione non ha potuto quindi fare molto tirarli fuori dalla situazione in cui vivono. Ma ha rappresentato un tratto di unione con i cristiani al di fuori dell’Iraq che volevano ascoltare e mostrare la loro solidarietà. Nella speranza che la consapevolezza del dramma dei cristiani iracheni favorisca la ricerca di una soluzione pacifica per quel paese.