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24 settembre 2024

La chiesa di Al-Aqiser e il patrimonio iracheno a rischio per i cambiamenti climatici

Dario Salvi

Il grido d’allarme dell’Autorità generale irachena per le antichità e il patrimonio riguardo la storica chiesa di Al-Aqiser è solo l’ultimo in ordine di tempo, ma anch’esso potrebbe rimanere inascoltato mentre il Paese - e i suoi tesori - rischiano di soccombere di fronte ai cambiamenti climatici. 
A detta degli esperti, infatti, la struttura è soggetta a “deterioramento” per gli effetti dei fenomeni atmosferici e gli stravolgimenti ambientali, anche se l’organismo ha avviato di recente uno stretto rapporto di collaborazione con un gruppo di climatologi per mitigarne gli effetti nocivi.
L’obiettivo è proprio quello di valutare “l’impatto e le conseguenze di lungo periodo” dei cambiamenti climatici siti storici dell’Iraq, un tema di grande attualità al centro anche dei lavori della 79esima sessione dell’Assemblea Generale Onu in programma dal 22 al 30 settembre al Palazzo di Vetro a New York. Fra gli eventi più attesi il Summit of the Future, che si è tenuto nei primi due giorni dell’assemblea per riaffermare gli impegni verso gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg) e la Carta delle Nazioni Unite.

Più del petrolio
Un patrimonio dal grande valore economico e culturale, che costituisce il vero “oro nero” dell’Iraq come aveva dichiarato in passato il patriarca caldeo card. Louis Raphael Sako. Sin dai tempi in cui era arcivescovo di Kirkuk, infatti, il porporato era solito denunciare i pericoli corsi da un “bene universale” da salvaguardare come l’archeologia, che da sola vale “più del petrolio”. Un compito di tutti gli iracheni, non solo i cristiani, richiamato anche nel 2016 durante la “Conferenza internazionale per la salvaguardia del patrimonio culturale nelle aree teatro in conflitto” ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti (Eau).
In particolare, la chiesa di Al-Aqiser (“mini palazzo”, in arabo) è un sito archeologico nell’area desertica di Ayn al-Tamr, vicino a Kerbala, circa 100 km a sud-ovest di Baghdad, ed è descritta come la più antica chiesa cristiana orientale. Fino a poco tempo fa era utilizzata dai caldei, anche se negli ultimi tempi è in condizioni di abbandono e le sue mura soggette a degrado ed erosione. 
Essa risale al V° secolo dopo Cristo e dista cinque chilometri dalla celebre fortezza di Al-Ukhaidir.
Gli storici ritengono che la chiesa sia stati costruita da ribelli nestoriani in cerca di rifugio sotto la dinastia Lakhmid (268-633 d.C.), alleata dell’impero sasanide. Il luogo di culto conserva tracce di iscrizioni in aramaico sulle pareti e presenta un altare rialzato rivolto verso Gerusalemme. Il sito copre un’area di circa 4mila metri quadrati con tombe, torri, monasteri e tesori. 
Un’altra chiesa vicina, scoperta di recente, era utilizzata per cerimonie di sepoltura e sono state trovate decine di tombe allineate anch’esse nella direzione della città santa, mentre tutto attorno la presenza di tumuli suggerisce l’esistenza di un’antica città. Sebbene il tetto sia crollato, le sue mura sono rimaste in piedi e i fedeli continuano a celebrare la messa di Natale all’interno del sito.

Strategie di adattamento
Montasser Sabah Al-Hasnawi, capo del team per i cambiamenti climatici del ministero iracheno della Cultura, ha sottolineato l’importanza di proteggere il patrimonio culturale dai rischi legati all’innalzamento delle temperature e dai disastri ambientali. Durante una visita compiuta di persona al sito culturale e religioso cristiano egli ha sottolineato, una volta di più, la necessità di promuovere e sostenere politiche mirate per la salvaguardia del patrimonio.
“Dobbiamo sviluppare - ha dichiarato l’alto funzionario a Shafaq News - strategie di adattamento al clima per preservare sia le pratiche culturali che i siti archeologici”.
Secondo l’Onu l’Iraq è uno dei Paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici a partire dagli effetti devastanti della siccità in un territorio ricoperto per oltre il 50% da deserti che minacciano la vita umana e animale, ma non risparmiano nemmeno siti archeologici e culturali. Dai reperti dell’antica Mesopotamia alla storia recente, si assiste a un progressivo inaridimento accelerato dalla scomparsa degli alberi capaci un tempo di bloccare i venti e andati scomparendo perché bruciati o distrutti dai bombardamenti delle diverse guerre combattute nell’area o abbattuti per far posto a nuove città. Anche le temperature estive roventi, superiori ai 50 gradi, le tempeste di polvere e le forti piogge invernali hanno inferto colpi al patrimonio. Da qui il timore per siti costruiti con mattoni migliaia di anni fa, e che oggi si stanno sgretolando e riducendo in polvere.
L’archeologo Zahd Muhammad ha attribuito la colpa alle “condizioni climatiche, al fatto che sotto Saddam Hussein l’area è stata trasformata in un poligono militare e alla mancanza di regolare conservazione”.
Il sindaco di Ayn al-Tamr, Raed Fadhel, pone anche l’elemento economico, affermando che la manutenzione è legata al budget a disposizione e vi è una progressiva mancanza di fondi: “Richiede una enorme quantità di denaro, ma riceviamo solo - lamenta - fondi esigui” dal governo federale. Vi è infine un problema di interesse legato al patrimonio culturale stesso: circa 60 chilometri più a est, infatti, i santuari sciiti di Kerbala attirano ogni anno milioni di pellegrini, ma questi potenziali visitatori non si fermano alle numerose chiese antiche, alle città mesopotamiche e alle strutture piramidali a forma di “ziggurat” di Babilonia, patrimonio Unesco.

Un nemico silenzioso
Le criticità non riguardano solo una parte del Paese, ma sono una sfida che la nazione deve affrontare nel suo complesso. Esempio ne è il “nemico silenzioso” che, negli ultimi anni, sta prendendo sempre più piede nel sud dell’Iraq. I bassi livelli di acque dei fiumi Tigri ed Eufrate, che convergono nella pianura di Bassora, non riescono a respingere l’onda di acqua marina, e salata, che avanza con crescente impeto verso nord. Una “invasione” strisciante che finisce per distruggere palmeti, alberi di agrumi e altre colture che hanno prosperato per millenni grazie all’ombra fornita dalle palme che le proteggeva dalla luce cocente del sole. A rischio non vi è solo il patrimonio culturale e storico, ma le stesse coltivazioni che per secoli hanno garantito vita e prosperità.
Adnan Khdheir Al-Sinafi, del distretto di Al-Bihar (Bassora), ha lavorato in un palmeto per tutta la vita, come hanno fatto i suoi antenati per generazioni.
Oggi, come molti altri, si trova a un bivio: rimanere e persistere - al netto di pesanti perdite economiche - o andarsene in cerca di mezzi di sostentamento altrove. Lui le ha provate entrambe: “Questa terra era un paradiso. Ho piantato alberi di agrumi all’ombra delle palme e avevamo più di 60 varietà di datteri della migliore qualità” ricorda. “Con l’aumento della salinità, ho visto come i miei alberi morivano e il terreno si degradava gradualmente. Ho perso - afferma - circa 30mila dollari” e ciò che rimane sono “tronchi e ceppi morti”.
Più a nord, nel governatorato di Thi-Qar, le paludi si prosciugano per i bassi livelli d’acqua del Tigri ed Eufrate causati dalla diminuzione delle precipitazioni, dalla costruzione di dighe in Turchia e Iran su fiumi o affluenti e dall’assenza di una gestione sostenibile delle risorse idriche a livello locale. Queste paludi erano un tempo famose per biodiversità, sostentamento delle comunità e pratiche di allevamento e pesca, risalenti all’antica Mesopotamia.
Il monitoraggio delle emergenze climatiche elaborato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni in Iraq ha registrato un ultimo fattore di criticità: lo sfollamento di oltre 130mila persone tra il 2016 e il settembre 2023 per gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. La portata è molto più grande di quanto una singola organizzazione possa fare e, se da un lato il governo sta promuovendo una strategia sul clima, è indispensabile anche una collaborazione con comunità internazionale, società civile e privati. Per ridurre la vulnerabilità dei territori servono investimenti in infrastrutture intelligenti, sistemi e politiche di gestione equa di territorio e risorse idriche, opportunità di sostentamento diversificate e sistemi di allerta precoce. In vista della COP28 esperti locali e ambientalisti lanciano un appello per sforzi più ampi e concertati a livello nazionale e regionale, perché questa non è una crisi locale ma globale e richiede un’azione immediata.


The International Organization for Migration
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