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24 marzo 2024

Voto e minoranze: nella lotta fra Erbil e Baghdad in gioco il futuro del Kurdistan

By Asia News - Kurdistan24 - Rudaw - 
Dario Salvi
19 marzo 2024

Nubi fosche si addensano sul futuro del Kurdistan iracheno, in un clima di crescente tensione legato allo scontro politico e istituzionale fra Erbil e Baghdad in vista delle elezioni del Parlamento locale previsto per il giugno prossimo. In una dichiarazione congiunta pubblicata ieri dai rappresentanti di diverse comunità cristiane - che comprende caldei, assiri, siriaci e armeni - vengono manifestati sostegno e vicinanza alla scelta del Partito democratico del Kurdistan (al potere) di boicottare il voto alle porte. Una decisione che giunge in un clima di crescenti tensioni e preoccupazioni sulla legalità e la stessa equità dell’iter elettorale. La dichiarazione, firmata da organizzazioni chiave come la Coalizione Hammurabi, sottolinea l’impegno comune a sostegno dei principi costituzionali e a salvaguardare la (fragile) democrazia.
Al centro della controversia la sentenza del 21 febbraio scorso della Corte suprema federale irachena che ha annullato gli 11 seggi riservati alle minoranze nell’assemblea del Kurdistan, così distribuiti: cinque ai caldei e agli assiri, uno agli armeni e cinque ai turkmeni. L’astensione è vista come un “passo necessario” per contrastare quelle che vengono percepite come “circostanze incostituzionali”. Sottolineando l’importanza di elezioni eque, i firmatari ribadiscono la necessità che l’iter aderisca ai quadri giuridici e costituzionali stabiliti all’interno del governo regionale curdo e sia libero da interferenze esterne, imparziale e inclusivo. “Noi sosteniamo la dichiarazione del Pdk e tutti gli sforzi volti a proteggere la democrazia e l’equidistanza delle istituzioni giuridiche”, per questo “qualsiasi decisione che mini la democrazia irachena deve essere contrastata”.

Una sentenza controversa
A innescare lo scontro politico e istituzionale la sentenza della Suprema corte federale di annullare la quota di seggi riservati a deputati delle minoranze etniche, compresi i cristiani, eletti nel Parlamento della regione autonoma del Kurdistan iracheno. Un colpo ulteriore alla rappresentatività dei cristiani, in una fase di profonda crisi conseguenza delle violenze etniche e confessionali seguite all’invasione statunitense del 2003 che hanno determinato un crollo della popolazione, passata da 1,5 milioni a poco più di 300mila. 
A questo si aggiunge lo scontro in atto fra il patriarca di Baghdad dei caldei, il card. Louis Raphael Sako, massima autorità religiosa (cristiana) del Paese e il presidente della repubblica Abdul Latif Rashid in seguito alla decisione di annullare il decreto che ne sancisce l’autorità. In risposta, il primate caldeo ha deciso di trasferire (temporaneamente) la sede patriarcale dalla capitale Baghdad ad Erbil.
Alle criticità già in essere si è aggiunto il pronunciamento dei supremi giudici, che ha abolito la quota di 11 seggi riservati alle comunità etniche e religiose minoritarie, compresi dunque i cristiani, nell’assemblea locale in vista delle prossime elezioni in programma il 10 giugno. Per le voci critiche, una simile decisione risulta essere lesiva dei diritti politici delle minoranze che sono garantiti dalla Costituzione stessa. Da qui la decisione di diverse formazioni, partiti politici e rappresentati delle minoranze di boicottare il voto - più volte rinviato nel recente passato dal presidente Nechirvan Barzani per controversie fra i partiti e fissato il 3 marzo scorso - se non verrà ritirata la sentenza.

Un voto incerto
Ad alimentare la polemica fra le parti le modalità di svolgimento delle elezioni e lo scioglimento della legislatura dopo che la Corte federale ne ha ritenuto “incostituzionale” l’auto-estensione. Le elezioni - svolte per la prima volta nel 1992 - si tengono ogni quattro anni e sono finalizzate all’elezione dei 111 membri del Parlamento, con le ultime risalenti al 2018. Il voto era previsto in origine nell’ottobre 2022, ma ha subito ritardi per disaccordi emersi fra il Pdk e i rivali dell’Unione patriottica del Kurdistan (Puk). Le due fazioni più importanti, dopo un lungo muro contro muro, hanno quindi concordato di estendere il mandato del Parlamento di un anno per poter continuare i negoziati su questioni come la modifica della legge elettorale e la condivisione delle tasse e delle entrate petrolifere.
Nel maggio dello scorso anno i supremi giudici dell’Iraq hanno stabilito che tutte le decisioni prese dall’assemblea regionale dopo la sua estensione fossero nulle, compresa quella volta a riattivare la commissione elettorale per supervisionare le elezioni. Il mese scorso, il tribunale ha infine stabilito che il Parlamento del Kurdistan debba essere formato da 100 membri invece di 111 (venendo a mancare proprio la quota riservata alle minoranze) e che le elezioni dovrebbero essere avallate dalla commissione elettorale nazionale. Secondo i dati forniti da Dawid Salman, direttore dell’Alta commissione elettorale indipendente irachena, sono almeno 3,6 milioni gli elettori aventi diritto di voto nella regione del Kurdistan.

La battaglia dei leader religiosi
La questione non riguarda solo le minoranze, ma rischia di affossare l’essenza stessa del Kurdistan iracheno, la sua “autonomia” e la sua anima pluralista che negli anni passati ha permesso a molti di trovare rifugio da violenze e persecuzioni. In particolare fra il 2014 e il 2017, negli anni di ascesa e dominio dello Stato islamico (SI, ex Isis) fra Siria e Iraq: centinaia di migliaia di persone - cristiani, yazidi, gli stessi musulmani - sono fuggiti da Mosul e dalla piana di Ninive trovando in Erbil un approdo sicuro, pur in una situazione di sfollamento.
Il card. Sako, interpellato dal sito di informazione curdo Rudaw, ha definito “incostituzionale” la recente decisione della Corte di cancellare la quota per le minoranze dal Parlamento curdo. Il porporato si è poi detto preoccupato per le ragioni stesse che hanno determinato il verdetto. “La decisione - ha spiegato il porporato - contraddice la legge e la Costituzione e non onora le norme prevalenti. Vi sono diverse cose che non possono essere affidate nelle mani del tribunale”.
Non solo i leader cristiani, ma lo stesso Consiglio della Shura della regione del Kurdistan (uno dei principali organismi istituzionali locali legati alla religione musulmana) ha espresso critiche durissime. “La decisione presa dalla Corte Suprema - hanno sottolineato i membri in una nota - in violazione della Costituzione e delle leggi, la rende di fatto una autorità superiore a tutti gli altri poteri. Ciò comporta una moltitudine di conseguenze sfavorevoli, che comprendono dimensioni legali, politiche e sociali”.
Una di queste è la scelta di gran parte delle fazioni legate alle comunità turcomanne, assire e caldee di boicottare il voto del 10 giugno. Il consiglio esprime al contempo “preoccupazione” perché la non partecipazione al voto sarà fonte di ulteriori “problemi” di natura politica e istituzionale nella regione autonoma, in cui vi è un equilibrio fragile, ma essenziale, fra realtà diverse.
Questo, avvertono, è legato al fatto che “il Parlamento che verrà a formarsi dopo le elezioni non includerà [senza le quote previste in precedenza dalla legge] i rappresentanti di queste comunità. Pertanto, è essenziale - conclude la nota - che la Corte suprema federale irachena aderisca alla Costituzione, eserciti i suoi privilegi come indicato nella Costituzione ed eviti di violare le prerogative che spettano ad altri poteri” dello Stato. Appelli e parole che rischiano, da un lato, di cadere nel vuoto trascinando in una situazione di ancora maggiore confusione e criticità una nazione come l’Iraq (e il Kurdistan) già teatro di tensioni e conflitti etnico-confessionali.

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