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26 novembre 2023

Medio Oriente: "Quanta luce fa quel lumicino"

Maria Acqua Simi
23 novembre 2023

Il conflitto in Terra Santa ha riportato i riflettori anche sulla ormai sempre più esigua presenza dei cristiani in Medio Oriente. Costretti ad abbandonare le loro terre a causa di discriminazioni, guerre e terrorismo, sono ormai pochi coloro che scelgono di rimanere. Eppure qualcuno c’è. E non rimane per mancanza di alternative, ma «per amore».
Lo racconta il cardinale Raphael Louis Sako, Patriarca della Chiesa caldea. Lui stesso, che in questi mesi sta subendo in Iraq una persecuzione infamante (il luglio scorso il Capo dello Stato, Abdul Latif Rashid, ha revocato lo storico decreto che riconosceva il Cardinale come leader della Chiesa irachena e amministratore dei beni ecclesiastici) ha deciso di trasferirsi da Baghdad a Erbil, nel Kurdistan iracheno, pur di rimanere accanto al circa mezzo milione di cristiani che ancora abita il Paese.
«Nella difficoltà la nostra è una Chiesa viva, dinamica, dove la partecipazione alla messa e la fedeltà all’eucarestia sono commoventi. E i cristiani, qui, vivono un grande servizio di carità verso tutti, musulmani compresi. Con questo amore attendiamo il Natale, che per noi sarà una celebrazione scarna, essenziale, senza trionfalismi perché la situazione che viviamo lo impone. Ma al centro ci sarà sempre il Bambino Gesù».
Parla di sé, il Cardinale, non scarta le domande personali. E così quando gli domandiamo cosa desidera per questo Avvento, non si nega. «Chiedo a Gesù di vivere prima di tutto un’attesa fondata sulla speranza. L’Avvento è un cammino, un tempo che io userò per pregare questo Bambino. La sua nascita è un dono per tutti ma ogni anno io devo riscoprire Lui, riascoltare Lui, riamare Lui. La preghiera è condizione necessaria della speranza: se io attendo, vivo un dinamismo interiore che mi fa chiedere, mi fa mettere in ginocchio».
Pregherà anche per le comunità che gli sono affidate, in un Paese dove la situazione economica è fragile e dove gli attacchi contro i cristiani sono la quotidianità: dall’esclusione dal lavoro all’appropriazione delle loro proprietà, fino al sistematico cambiamento demografico delle loro città nella Piana di Ninive (l’area storicamente abitata dalle comunità cristiane, ndr).
La strage nella cattedrale di Nostra Signora a Baghdad nel 2010, quattro anni dopo l’arrivo dell’Isis, con l’uccisione e l’esodo di centinaia di migliaia di cristiani. Poi l’instabilità politica, le brigate filo-iraniane che discriminano i non musulmani, il terribile rogo di Qaraqosh che solo due mesi fa ha ucciso oltre cento cristiani durante un matrimonio e infine il riaccendersi delle tensioni tra israeliani e palestinesi con ripercussioni in tutta la regione.
«Capisco tante famiglie cristiane che decidono di andarsene dall’Iraq e dal Medio Oriente per cercare un futuro migliore per sé e per i propri figli. Ma guardo con speranza alla tenacia con cui tanti altri sono rimasti, ripenso alle parole del Papa che è voluto venire in Iraq per ricordarci che siamo tutti fratelli. Oggi soffriamo ma abbiamo una vocazione qui. Non siamo nati per caso in Iraq, in Siria, in Libano o in Terra Santa: siamo chiamati ad essere missionari con il nostro Battesimo. Questo è stato un punto centrale del Sinodo appena trascorso: ogni battezzato deve vivere pienamente la sua fede per trasmetterla al mondo. Noi, cristiani del Medio Oriente, con la nostra presenza testimoniamo a tutti una fraternità. Le nostre piccole comunità cristiane sono sale della terra: siamo infinitamente piccoli, siamo come candele. Ma se c’è buio, quanta luce può fare anche un lumicino! Questo è possibile tramite cose molto concrete: è stato istituito ad esempio un comitato di dialogo tra cristiani, sciiti, sunniti, yazidi in Iraq, e in tutta la regione mediorientale le comunità cristiane sono impegnate in campo educativo, culturale, di carità per vivere nella fedeltà, nella pace, nel perdono. La nostra è una fede feconda. Il nostro compito è preparare terreno al futuro, per gli uomini domani. Perché le guerre finiranno, la pace verrà e ci sarà bisogno di uomini e donne liberi per ricostruire».
Anche per questo il recente Sinodo per il Cardinale è stato «un momento di grande grazia» tanto che in una delle sue ultime omelie si è trovato ad augurare al mondo musulmano di poter vivere un confronto così aperto e appassionato. «Auspico che anche i musulmani possano sperimentare una vera sinodalità per scoprire la bellezza della loro fede. Penso che abbiano bisogno di confrontarsi di più con i problemi della modernità, di affrontare temi scomodi come l’esegesi o l’interpretazione del Corano. Le autorità religiose musulmane devono fare qualcosa perché è diffusa una mentalità chiusa e che irrigidisce. Se non si offre qualcosa di interessante, un giovane dove andrà a cercare?».
Per vivere un’unità e cercare di uscire dalle guerre che ciclicamente sconvolgono i Paesi mediorientali, per il Cardinale non esiste altra via che «una conversione del cuore profonda e radicale. E bisogna avere il coraggio di aprirsi anche a chi è diverso. Dall’unità nasce una fecondità che poi contagia la politica, la società. Questo vale anche tra noi cristiani, che a volte ci perdiamo nelle nostre scaramucce. Attenzione, quando parlo di unità non intendo dire uniformità: è bello avere liturgie diverse, lingue diverse, tradizioni diverse ma al centro non dobbiamo dimenticare che c’è Cristo. Cristo - ce lo insegna il Natale - è quello che il mondo attende».