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29 novembre 2023

Il Patriarca senza patria

Luigia Storti

Un caso diplomatico spinoso tra Iraq, Vaticano e Italia.
È crisi fra Stato iracheno e il cardinale Sako.
La ricostruzione dei fatti.
Ancora una volta i cristiani iracheni si sentono traditi da tutti


Il ventesimo anno dalla caduta del regime Baathista è segnato per la comunità cristiana irachena da un'ennesima crisi foriera di una nuova spinta migratoria che ne ridurrebbe ulteriormente i membri, 250.000 oggi rispetto al milione e mezzo pre-2003. Da quell'anno gli iracheni cristiani sono stati perseguitati perché percepiti come alleati dei correligionari invasori, per impossessarsi delle loro proprietà, e perché anello debole e disarmato, in quanto minoranza ed a ragione della loro fede, nella lotta per il potere tra la minoranza sunnita che l'ha perso e la maggioranza sciita che governa il paese in virtù dei numeri.
Sono stati traditi dall'Iraq il cui esercito abbandonò senza combattere Mosul lasciando nelle mani dei miliziani dell'ISIS una città che però condivideva con loro la fede sunnita e che non li difese quando le loro case furono segnate con la lettera "enne" iniziale di "Nazareno."
Sono stati traditi dal governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno, al cui esercito era affidata la sicurezza della Piana di Ninive, il loro territorio ancestrale dove a centinaia di migliaia erano già fuggiti da Bassora, da Baghdad e da Mosul, e che pur appartenente all'Iraq era boccone ambito per chi ad Erbil sognava di aumentare il proprio territorio. L'esercito curdo, infatti, come quello iracheno, si ritirò senza combattere contro i miliziani dell'ISIS che in una notte sola, nell'agosto del 2014, costrinsero più di centomila cristiani ad abbandonare i villaggi della Piana ed a dirigersi con ogni mezzo, anche a piedi, verso la capitale curda, quella sì ben difesa dai propri soldati.
E sono stati traditi dall'Occidente, troppo avaro nel concedere i visti di ingresso per alcuni ma troppo generoso in questo per altri, ad esempio la gerarchia ecclesiastica che per bocca dell'allora vescovo ed ora patriarca Cardinale Louis Sako nel 2012 tuonava contro i "visti facili" che favorivano la fuga dei fedeli.

La Brigata Babilonia
Ma torniamo alla crisi di oggi.
Per farlo dobbiamo ricordare quando nel 2014 la massima autorità sciita irachena, l'Ayatollah Ali al-Sistani, fece un appello ai suoi fedeli perché combattessero i miliziani sunniti dell'auto proclamatosi califfo dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (ISIS) Abu Bakr al Baghdadi, che avevano appena conquistato vaste aree del nord del paese.
Da quell'appello nacque un'organizzazione formata in maggioranza da milizie sciite ma anche da una cristiana.
Era la "Brigata Babilonia" guidata Rayan al-Kaldani, Ryan il Caldeo, il cui scopo dichiarato era riconquistare i territori ed i beni sottratti ai cristiani dall'ISIS appellandosi alle parole di Luca, 22.36 -Ed egli soggiunse: "Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una."-
La guerra tra le due parti cristiane, quella disarmata del cardinale Sako e quella armata di Rayan il Caldeo era cominciata.

La sconfessione del Patriarca
La prima bordata ufficiale arrivò nel 2017 come reazione ad un video in cui Rayan il Caldeo si mostrava a fianco di alcuni prigionieri sunniti accusati di essere fiancheggiatori dell'ISIS ed aveva parlato a nome di tutti i cristiani. Rayan il Caldeo, si leggeva nella nota patriarcale, “non ha alcun legame con la morale insegnata da Cristo, messaggero di pace, amore e perdono”, e non può “fare tali affermazioni coinvolgendo i cristiani perché “non li rappresenta in alcun modo.”
Il timore era che l'agire di singoli individui che operavano ostentando simboli cristiani potesse fomentare scontri su base religiosa ed innescare una spirale di vendette.
Se i cristiani avessero proprio voluto partecipare alla liberazione dei territori occupati dall'ISIS sarebbe stato meglio farlo arruolandosi nell'esercito iracheno o in quello curdo piuttosto che in milizie ufficialmente cristiane ma finanziate e popolate da sciiti, in grado di alimentare la "sedizione confessionale." Alle accuse del patriarcato caldeo si unirono quelle del Consiglio dei capi delle chiese in Iraq che nel luglio del 2019 criticò aspramente Rayan il Caldeo per aver scritto una lettera aperta all'Ayatollah Ali al Sistani per lamentarsi delle espressioni negative usate da alcuni esponenti sciiti nei confronti della festa cristiana del Natale.
Una buona intenzione vanificata dall'aver definito il destinatario come “la più alta guida spirituale dell’Iraq” in completo disprezzo della varietà di minoranze religiose non sciite, ed in più di averlo fatto a nome di "tutti i cristiani dell'Iraq" scavalcando quindi le autorità religiose di tutte le chiese riconosciute nel paese.

Anche gli USA contro Rayan il Caldeo
A dare manforte alla posizione dei leader cristiani da lì a poco sarebbe arrivata anche l'amministrazione Trump che nel 2019 inserì Rayan il Caldeo tra gli iracheni cui imporre sanzioni per "violazione dei diritti umani e corruzione" in riferimento ad un video del 2018 in cui lo si era visto tagliare un orecchio ad un prigioniero ammanettato, ed al suo essere capo della 50ma Brigata: "... il principale impedimento al ritorno degli sfollati nella Piana di Ninive" che "ha sistematicamente saccheggiato case nel villaggio di Batnaya che sta lottando per riprendersi dopo la brutale dominazione dell'ISIS" e che "ha illegalmente sequestrato e venduto terreni agricoli e che la popolazione ha accusato di atti di intimidazione, estorsione e molestie sessuali."
La guerra continuò negli anni successivi senza esclusione di colpi. Se Rayan il Caldeo accusava il patriarca Sako di commerciare i beni della chiesa e di avere un conto bancario segreto in Canada il patriarca ribaltava le accuse di furto e frode e minacciava di deferire il governo iracheno all'assise internazionale per non aver perseguito un siffatto criminale.
La situazione si aggravò lo scorso maggio quando per l'ennesima volta il patriarca fu convocato dalla Polizia dopo le denunce di calunnia e diffamazione istigate - come da lui stesso scritto in una lettera aperta alla presidenza - dal Movimento Babilonia, il braccio politico della Brigata Babilonia di Rayan il Caldeo che dalle elezioni del 2021 può contare su 4 dei 5 seggi riservati alla minoranza cristiana ed un ministro. Posti ottenuti, questa è l'accusa del patriarca, con i voti non dei propri correligionari ma di elettori sciiti, i veri padroni della Brigata e del Movimento.

A luglio la crisi precipita
Il presidente iracheno, il curdo Abdul Latif Rashid, ritirò infatti il decreto presidenziale n° 147 firmato dal suo predecessore e che riconosceva il patriarca caldeo come "Patriarca e capo della chiesa caldea" e quindi "responsabile dei beni della chiesa."
Secondo Rashid "dal 2018 i consiglieri legali e costituzionali della presidenza, così come le autorità giudiziarie, hanno stabilito che il presidente della repubblica irachena non ha il potere o l'autorità di emanare decreti che riguardino i capi delle denominazioni" (religiose) e di conseguenza il decreto non avrebbe avuto basi istituzionali.
Una tale decisione non poteva che scatenare l'inferno.
In pochi giorni il patriarca Sako rivolse ben tre lettere aperte alla presidenza della repubblica per chiedere di ritirarla appellandosi alla storia che aveva visto riconosciuta la figura del patriarca come capo della chiesa e responsabile dei suoi beni fin dai tempi della dominazione ottomana dell'attuale Iraq, sottolineando come essa avrebbe potuto incidere negativamente sulla permanenza in patria della già esigua comunità cristiana testimone dell'attacco diretto del governo al suo esponente di maggior spicco e ribadendo l'importanza del suo ruolo di nominato dal papa e, in quanto cardinale elettore, egli stesso possibile candidato al soglio di Pietro.

Il Patriarca si ritira in Kurdistan
Di fronte al granitico rifiuto presidenziale di una marcia indietro ed alla minaccia di altre convocazioni da parte della Polizia -qualcuno non escludeva il rischio di un arresto- rimanevano poche strade da percorrere ed il patriarca scelse quella, rischiosa, dell'esilio volontario.
Lasciata Baghdad a metà luglio per la già programmata cerimonia di nomina del vescovo caldeo per la Turchia il patriarca non vi ha fatto più ritorno rifugiandosi nella regione autonoma del Kurdistan iracheno dove ormai vive la maggior parte dei suoi fedeli e dove ha trovato calda accoglienza da parte delle autorità politiche desiderose di mostrare al mondo il loro atteggiamento di apertura verso le minoranze religiose, magari anche per far dimenticare di aver abbandonato nelle mani dell'ISIS proprio i cristiani della Piana di Ninive nel 2014.
Ad oggi, metà settembre, la situazione è ancora in stallo.
Nessuna delle due parti sembra voler - ma neanche potere senza rimetterci il prestigio - recedere dalle sue decisioni e fino ad ora le manifestazioni di solidarietà arrivate al patriarca da leader politici e religiosi iracheni e stranieri non hanno portato a nulla.
Quello che di certo il patriarca sta attendendo è una chiara presa di posizione da parte di Papa Francesco che il governo iracheno non possa ignorare tanto da far pressione sul presidente a suo favore.

Il papa si consulta e riflette
Il papa che fino ad ora ha taciuto e che è stato piuttosto inconsapevole protagonista di un evento spiacevole quando, il 6 settembre, nel corso dell'udienza generale in Piazza San Pietro è stato avvicinato da un gruppo di fedeli iracheni uno dei quali è riuscito a farsi fotografare mentre gli porgeva un regalo.
Un fedele che altri non era che il tagliaorecchie Rayan il Caldeo, l'accusato di "violazione dei diritti umani e corruzione" ed al quale lo stesso papa aveva rifiutato udienza ad aprile sapendolo acerrimo nemico del suo massimo rappresentante in terra irachena.
Forse è quindi proprio perché il Vaticano si esprima ufficialmente che il 13 dello stesso mese a parlare con il papa a Roma è arrivato da Baghdad il vicario patriarcale caldeo, Monsignor Basel Yaldo.
Come sempre però nulla è semplice per gli iracheni cristiani.
Perché se può essere facile per il Vaticano schierarsi ufficialmente a favore del Cardinale che è riuscito a portare il papa ad Ur, sarà più difficile mettersi contro la decisione di un presidente di uno stato sovrano.
E lo sarà ancora di più perché dal 19 maggio scorso Abdul Latif Rashid è anche Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell'Ordine al Merito, la massima onorificenza concessa dalla Repubblica Italiana riservata ai capi di stato. Un pasticcio diplomatico di non facile soluzione.