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31 marzo 2023

Mosul: nel monastero di san Michele prima messa dall’invasione Usa (era deposito armi Isis)


Foto Al Jazeera

Per 20 anni dall’invasione Usa in Iraq del 2003 “abbiamo sperimentato ogni tipo di evento”, inclusi “omicidi, rapimenti ed esplosioni”. Ora, a distanza di tempo, la situazione sembra essere almeno in parte migliorata “e come comunità siamo felici e sollevati” di poter tornare a celebrare una messa nel monastero di Deir Mar Mikhael. Le parole di Hamid Tuzi, raccolte da al-Jazeera, raccontano i sentimenti e lo stato d’animo di una comunità, quella dei cristiani del nord dell’Iraq, che dopo anni di violenze e persecuzioni torna a vivere la propria fede, e prima ancora la propria terra, con un misto di gioia e timore.
Una fase traumatica della loro millenaria storia, culminata nell’estate 2014 con l’ascesa dello Stato islamico e la grande fuga da Mosul e dalla piana di Ninive in direzione del Kurdistan, o all’estero. Oggi, a sei anni dalla liberazione, solo 50 famiglie (su 50mila persone) sono rientrate nelle loro case e l’opera di ricostruzione di abitazioni, luoghi di culto e attività commerciali fatica a decollare, tanto che qualcuno opta ancora per il pendolarismo da Erbil in attesa di tempi migliori.
Ciononostante, la funzione celebrata nel monastero di san Michele dall’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Najib Mikhael Moussa, accompagnato dal vescovo di Alqosh mons. Paolo Thabit Mekko, rappresenta una pietra miliare nel cammino di rinascita. “Questa liturgia - ha sottolineato il prelato - rappresenta l’inizio della ricostruzione del monastero” che avverrà “in un futuro prossimo” e con essa “il ritorno della preghiera” in un luogo caro.
“L’Isis - ha aggiunto - ha saccheggiato tutte le proprietà del monastero, vandalizzandolo in modo deliberato e deturpandolo con graffiti”. Il luogo di culto è stato anche oggetto di bombardamenti aerei, perché i miliziani jihadisti “lo usavano come riparo e deposito per conservare armi e produrre esplosivi”.
Per anni i cristiani di Mosul (e della piana di Ninive) non hanno potuto pregare nelle chiese e nei monasteri, a causa delle violenze e del clima di sicurezza. La ricostruzione parziale di alcuni edifici, come la celebrazione della divina liturgia nel monastero per la prima volta in due decenni sono un nuovo passo verso la stabilità, sebbene il cammino sia ancora lungo. “Speriamo - sottolinea mons. Moussa - di poter continuare a pregare in tutte le chiese e monasteri un tempo distrutti”.
Dopo il 2003, riprende il 31enne Hamid Tuzi, “noi cristiani eravamo soliti restare in casa a lungo e non frequentavamo luoghi di culto per le pessime condizioni di sicurezza e le minacce ai cristiani […] che spesso erano obiettivo di attacchi, per questo hanno dovuto emigrare”. Nella comunità è ancora vivo il ricordo del vescovo, mons. Paul Faraj Rahho, e dei sette sacerdoti - fra i quali p. Ragheed Ganni - uccisi dai fondamentalisti. Fra quanti sono migrati il 69enne Ezzat Sami, che oggi vive a Dohuk, nel Kurdistan iracheno, ma che spesso visita quella che un tempo era la metropoli economica e commerciale del nord. “Siamo felici di tornare a celebrare la messa, perché questo è un modo per ricordare i nostri cari scomparsi, il mio defunto padre. I musulmani - aggiunge - condividevano gioie e dolori, eravamo fratelli e lo siamo ancora. La guardia del monastero è musulmana. Quando abbiamo celebrato la messa, i residenti ci hanno accolto con grande gioia”.
Da Mosul e dalla piana di Ninive, in questi giorni, giunge infine notizia di una clamorosa protesta dei vescovi locali contro la riforma della legge elettorale e la annosa questione delle quote di seggi parlamentari riservate alle minoranze. L’obiettivo non è tanto quello di rivendicare posti, quanto di garantire il “pluralismo” etnico e religioso. Se non verranno adottate adeguate misure che possano garantire la rappresentatività, i prelati raggruppati nel cosiddetto “Consiglio di Ninive” non escludono iniziative forti fra le quali il boicottaggio delle prossime tornate elettorali.