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16 marzo 2023

Card. Sako: a 20 anni dall’invasione Usa, l’Iraq è ’un mosaico sfregiato e non riparato’

Dario Salvi
14 marzo 2023

Saddam Hussein “un dittatore”, ma come spesso avviene in Medio oriente “lodato e sfruttato” per garantirsi potere e alimentare “interessi personali”, partendo “dalla famiglia stessa” che ha “approfittato” per prima del ruolo del raìs. Nella primissima fase la popolazione irachena “era contenta” per il cambio di regime legato all’intervento militare Usa e accompagnato da una “propaganda pro-democrazia, libertà, prosperità e diritti”, salvo poi ricredersi a distanza di pochi mesi.
Il patriarca di Baghdad dei caldei, card. Louis Raphael Sako, ripercorre con AsiaNews l’invasione statunitense del marzo 2003, di cui ricorrono i 20 anni, e che ha stravolto la vita dell’Iraq poi segnato da instabilità, violenze confessionali, fondamentalismo (islamico) e corruzione diffusa. Problemi ancora oggi in gran parte irrisolti, sebbene la situazione sia in minima parte migliorata.

L’invasione
Nelle prime ore del mattino di giovedì 20 marzo 2003 il primo missile Usa colpisce il palazzo presidenziale, sulla sponda destra del fiume Tigri. L’attacco segna l’avvio dell’operazione Iraqi Freedom, l’offensiva lanciata dal repubblicano George W. Bush contro Baghdad e il regime baath al potere. Una operazione costata migliaia di miliardi di euro e oltre 151mila morti sono nel quadriennio 2003-2006. Un intervento militare fra i più controversi della storia moderna, per colpire uno Stato canaglia colpevole di nascondere - accusa in realtà mai comprovata - armi di distruzione di massa. Tre settimane di bombardamenti (col sostegno di Londra) e una invasione di terra conclusi con la caduta della capitale il 9 aprile, la dichiarazione di vittoria, la scritta celebrativa che campeggia sopra il presidente nel discorso: “Missione compiuta”. E l’instantanea della statua di Saddam rovesciata, illusione di libertà destinata a svanire in un abisso di violenza, terrore e sangue.
“Mi trovavo a Baghdad per una conferenza - ricorda il primate caldeo, al tempo sacerdote a Mosul prima della nomina ad arcivescovo di Kirkuk nel settembre 2003 - e una mattina, all’improvviso, abbiamo sentito un bombardamento terribile. Siamo usciti in strada, la gente aveva paura, si respirava un clima di miseria, non si sapeva dove andare”.
Quello del raìs, prosegue il card. Sako, era “un regime dittatoriale che ha saputo tenere unito il Paese, a eccezione dei curdi, garantendo ordine e sicurezza”. L’errore più grande, insieme ai massacri e alle violazioni compiute contro la minoranza curda nel nord, è stato “la guerra con l’Iran e il milione e più di morti. Questo evento - prosegue - ha segnato la storia recente del Paese e proprio in quella fase è iniziato il primo esodo, anche dei cristiani, soprattutto giovani contrari al conflitto e che non volevano rispondere alla chiamata al fronte”. Archiviata la guerra con la Repubblica islamica si apre la fase dell’invasione del Kuwait, nel 1991, anche in questo caso “assurda, distruttrice, disastrosa e in palese violazione del diritto internazionale”. “Ricorda - sottolinea il porporato - quanto sta avvenendo oggi con il conflitto russo in Ucraina. E la popolazione che viveva con la paura dei bombardamenti, cercavamo rifugi di fortuna sotto terra, perché non c’erano ancora bunker anti-aerei”.

L’illusione di libertà
Il fallimento dell’operazione militare Usa, giustificata in sede Onu con l’accusa mai dimostrata di armi distruzione di massa da parte di Saddam (poi catturato, processato e impiccato nel dicembre del 2006), consiste nell’aver totalmente affossato la nazione. Un Paese prima di allora fra i più prosperi e sviluppati del Medio oriente, con illustri scuole e atenei. Oggi, a 20 anni di distanza, fatica persino a conservare integrità territoriale, coesione sociale e unità istituzionale dopo le drammatiche vicende legate allo Stato islamico (prima ancora al-Qaeda) e le proteste di piazza contro la classe politica. “I primi tempi post invasione - ricorda il card. Sako - stavo a Mosul e vedevo i soldati passeggiare per le strade, andare in visita alle famiglie. Tuttavia, in poco tempo il clima è cambiato, le frontiere aperte hanno permesso l’ingresso del fondamentalismo, le istituzioni non hanno saputo controllare un Paese grande e non si è dato vita a una squadra capace di imprimere una guida autorevole. Lo stesso Bremer [Paul, a capo dell’Autorità provvisoria di Coalizione, ndr] ha governato senza conoscere lingua, mentalità, cultura. Questa illusione di libertà è presto evaporata, la gente delusa, gruppi di potere in esilio da 30 anni sono rientrati e la nazione è sprofondata nell’anarchia tanto che oggi, qualcuno, sente nostalgia dell’uomo”.
“Il vuoto di potere che si è creato - prosegue il cardinale - è stato riempito da al-Qaeda, dall’Isis e dagli stessi partiti islamici, di ispirazione fondamentalista, spesso in lotta fra loro per potere e denaro. Non si è mai arrivati a formulare una visione di Stato, abbiamo subito le interferenze dei Paesi vicini che hanno fatto i loro interessi. L’Iraq è una nazione ricca, ma debole, nella quale tutti hanno potuto rubare più o meno indisturbati”. In questo, prosegue, vi è “grande colpa degli iracheni, che non hanno mai saputo raggiungere un accordo, lasciando campo libero a una distruzione che è forse peggiore dell’epoca precedente la caduta di Saddam. Nella mente di tutti è ancora vivo il ricordo dei rapimenti, delle violenze anche contro i cristiani come l’uccisione di sette sacerdoti e di mons. Rahho, l’arcivescovo di Mosul, fra il 2007 e il 2008. E poi la grande fuga seguita all’arrivo dell’Isis, le centinaia di migliaia di sfollati, il problema delle milizie che in alcuni casi sono più forti dello Stato, la deriva settaria e le divisioni fra arabi e curdi, fra sciiti e sunniti, la corruzione diffusa e sistematica con l’enorme fiume di denaro nelle tasche dei partiti”.

L’esodo dei cristiani
“Sotto Saddam - racconta il card. Sako - i cristiani non godevano di maggiore libertà, ma potevano beneficiare di un certo clima di sicurezza, lasciare aperta la porta delle case, dormire tranquilli. In seguito all’invasione ha iniziato a regnare un clima di paura, che ha alimentato la grande emorragia di una popolazione che da oltre un milione e mezzo si è ridotta a circa un terzo”.
Tuttavia, la fase post-invasione è stata anche occasione per “sperimentare” l’inizio di un lungo percorso di dialogo e di confronto col mondo musulmano e i suoi leader. “Gli statunitensi - racconta - avevano formato un concilio municipale a Mosul e io ne facevo parte come rappresentante cristiano. In quel periodo ho imparato il rapporto con i musulmani, a quel tempo ho conosciuto un imam dalle idee radicali, ma pian piano si è creato un sentimento di amicizia coltivato nel tempo. Sia lui che il sindaco sono venuti alla consacrazione, quando mi hanno nominato arcivescovo di Kirkuk. Penso che papa Francesco abbia colto appieno il valore dell’amicizia, che può cambiare il rapporto con il mondo islamico: non discorsi teologici, ma vicinanza e amicizia”.
Ciononostante, a 20 anni di distanza da quel 20 marzo 2003 il Paese è ancora impantanato nelle sabbie mobili della crisi, incapace di risolvere mali che finora sono apparsi incurabili. In questo quadro si prospetta di difficile applicazione l’ambizioso programma di riforme del primo ministro Mohammed Shia al-Sudani, sul quale attori regionali e internazionali non devono fare eccessivo affidamento. Ragione e dialogo, spesso invocati dai vertici cristiani, sembrano essere la posizione più realistica per cominciare davvero a costruire le fondamenta future del Paese e scongiurarne l’implosione. “In questo modo saremo in grado di salvaguardare - conclude il patriarca caldeo - il prezioso mosaico iracheno”.