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11 ottobre 2022

A un anno dal voto l'Iraq è senza governo e sull’orlo della guerra civile

Dario Salvi

Un “dialogo senza precondizioni” per sbloccare uno stallo politico e istituzionale che si trascina da un anno, dalle elezioni parlamentari dell’ottobre 2021 che non hanno garantito una maggioranza definita facendo prevalere la logica dei veti incrociati. A lanciare l’appello, ultima in ordine di tempo, è la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Iraq (Unami) che si rivolge a tutti gli attori in gioco, dai sadristi ai filo-iraniani, dai sunniti ai curdi, perché lavorino per la nascita di un nuovo esecutivo.
“Attraverso il compromesso - spiega la nota Onu - [gli schieramenti] devono concordare in modo corale gli obiettivi chiave” per far fronte alle “esigenze del popolo iracheno” e “stabilire un governo efficace e con pieni poteri”. Tuttavia, non vi sono all’orizzonte elementi che facciano presagire svolte positive, mentre il vuoto di potere rischia di favorire, oggi come in passato, una nuova spirale di violenze di movimenti jihadisti o gruppi di interesse sostenuti da attori regionali o internazionali. Una impasse istituzionale, prima ancora che politica, un baratro come lo definiscono i vescovi caldei, che va affrontato secondo alcuni non col voto anticipato, ma mettendo mano all’architettura dello Stato e riscrivendo le regole della competizione. Anche in questo caso l’interesse per il Paese è relegato in secondo piano e sopraffatto da egoismi di partito e obiettivi personali di leader politici e loro tutori all’estero.

Paralisi istituzionale
Un anno fa, in Iraq si sono tenute elezioni parlamentari frutto di un voto anticipato indetto in risposta alle proteste di piazza su scala nazionale contro corruzione e malaffare. A oggi il Paese non ha un nuovo governo, né ha saputo votare - e approvare - il bilancio dello Stato, oltre alla nomina del nuovo presidente della Repubblica e del primo ministro, prolungando ad interim le cariche. L’unica elezione portata a termine è quella del presidente della Camera, affidata al sunnita Mohammed al Habousi, peraltro dimissionario.
Per il capo dello Stato, un curdo, sono state bruciate diverse candidature e non vi è consenso unanime sul prolungamento del mandato di Bahram Salih. Una paralisi che ha spinto lo stesso premier Mustafa al-Kadhimi a pubblicare un comunicato in cui, rivolgendosi a tutte le forze, chiede di rilanciare la collaborazione e mettere la parola fine alla crisi attraverso il dialogo. Parole che sembrano destinate a cadere nel vuoto prolungando lo stallo di un esecutivo ad interim con poteri e margini di manovra assai ridotti, soprattutto in campo economico e in un’ottica di alleanze sul piano regionale e globale.
Il nocciolo della questione ruota attorno al vincitore delle elezioni, il leader radicale sciita Moqtada al-Sadr, che non intende sottostare a un esecutivo di larghe intese, ma, al tempo stesso, non ha i numeri per formare un governo di maggioranza; di contro, la fazione sciita filo-iraniana espressione del Coordination Framework preme per una formazione di larghe intese. A ciò si sommano le tensioni alimentate da ingerenze esterne e potenze straniere con interessi contrapposti. Alla paralisi nelle istituzioni ha fatto da contraltare la tensione nelle piazze, che ha raggiunto l’apice a fine agosto in seguito all’annuncio di al-Sadr di volersi ritirare dalla vita politica, parole che hanno spinto i suoi simpatizzanti e sostenitori a scendere in piazza a manifestare, col rischio di una deriva verso la guerra civile. L’appello dello stesso leader sciita e una faticosa opera di mediazione hanno restituito la calma e scongiurato ulteriori spargimenti di sangue, pur lasciando immutati i molti problemi del Paese. “La situazione resta di estrema fragilità” ha sottolineato al Consiglio di sicurezza Onu l’inviato speciale Jeanine Hennis-Plasschaert. “Troppi iracheni - ha aggiunto - hanno perso fiducia nella capacità della classe politica di agire nell’interesse del Paese”.

Crescita e povertà
Ricco di idrocarburi, ma devastato da decenni di conflitti, l’Iraq ha raccolto nell’anno corrente entrate cospicue grazie alle esportazioni petrolifere. Queste ricchezze finiscono però per restare bloccate - e inutilizzate - nelle casse della Banca centrale, dove le riserve di valuta estera hanno raggiunto quasi 90 miliardi di euro. Per investire questa ricchezza serve un governo nel pieno dei poteri e capace di presentare al Parlamento un bilancio, prerogativa che non compete all’esecutivo ad interim che può solo gestire gli affari correnti. “Ogni progetto infrastrutturale - spiega a L’Orient-Le Jour l’economista Yesar Al-Maleki - richiede anni di pianificazione. La situazione politica ha causato una massiccia perturbazione, che ne ha aggravato la cattiva reputazione”.
Dall’altro, la Banca mondiale mostra proiezioni che parlano di una crescita economica media annuale del 5,4% tra il 2022 e il 2024. A giugno il Parlamento ha votato una legge sui finanziamenti di emergenza del valore di quasi 18 miliardi di euro che include l’acquisto di gas ed elettricità, oltre ai cereali per garantire la “sicurezza alimentare”. Questa situazione di caos “non permette opportunità di crescita economica e privata” pur a fronte di un potenziale di prim’ordine. In prospettiva 2023, le autorità potrebbero essere tentate di approvare un’altra legge finanziaria di emergenza. In effetti, diversi progetti lanciati dal ministero del Petrolio e dalle aziende straniere avanzano sin troppo lentamente, e a pagarne le conseguenze è la popolazione: in una nazione di 42 milioni di abitanti, quasi 4 giovani su 10 sono disoccupati e un terzo del totale vive in condizione di povertà (fonti Onu).

Sfollati, emergenza attuale
A farne le spese sono le fasce più deboli ed emarginate della popolazione. Fra questi vi sono i rifugiati cristiani che, nell’estate 2014 in seguito all’ascesa dello Stato islamico (SI, ex Isis), hanno abbandonato le loro case e le loro terre a Mosul e nella piana di Ninive. Se una parte è potuta ritornare, molti altri ancora restano abbandonati alla loro sorte e un governo debole, unito a istituzioni e realtà assistenziali pressoché assenti, hanno contribuito ad inasprire l’emergenza. Fra le poche realtà che cercano di portare aiuto, pur a fronte di risorse limitate, vi è la Chiesa caldea con il suo primate il card. Louis Raphael Sako che nei giorni scorsi ha visitato il centro di accoglienza di Zayouna, alle porte della capitale, condividendo sofferenze e bisogni degli ospiti.
Accompagnato dall’ausiliare mons. Basilio Yaldo, la sera del 5 ottobre il porporato si è recato al complesso della Vergine Maria, che il Dipartimento per gli investimenti e lo sviluppo di Baghdad intende evacuare. Nella struttura, che sorge su terreno demaniale, vi sono fino a 120 nuclei familiari ricollocati in passato nell’area dal governo centrale. Fra i problemi che queste famiglie si trovano ad affrontare vi è l’inizio dell’anno scolastico, con la necessità di garantire la frequenza ai figli, e l’arrivo della stagione invernale. Lo stesso card. Sako sta trattando con i funzionari dell’amministrazione capitolina* per rinviare almeno di un anno l’evacuazione, per poter trovare un’alternativa adeguata in un’ottica di accoglienza, lavorando al contempo a soluzioni di lungo periodo in Iraq. Il timore, che la Chiesa per prima vorrebbe scongiurare, è quello di un nuovo esodo all’estero verso l’Europa, il Nord America o l’Australia andando così ad alimentare la già nutrita pattuglia dei caldei della diaspora.

* Ovviamente si tratta di una svista e nel testo arabo sono citati i "funzionari governativi"   iracheni e non romani. 
Nota di Baghdadhope

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