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26 luglio 2022

Mons. Moussa: la difficile rinascita di Mosul, dopo l’incubo jihadista

Dario Salvi

Un percorso difficile, una situazione complessa che a volte non è esagerato definire “un incubo”, una ricostruzione che fatica a decollare e la lotta all’ideologia estremista che pervade ancora alcuni ambiti della società.
Così il domenicano mons. Michaeel Najeeb Moussa, dal gennaio 2019 arcivescovo di Mosul, descrive ad AsiaNews la metropoli del nord dell’Iraq in questi giorni in cui, otto anni fa, iniziava la grande fuga dei cristiani per l’avanzata delle milizie dello Stato islamico (SI, ex Isis). Una escalation di morte e distruzione, durata oltre tre anni e conclusa con la liberazione in seguito all’offensiva sferrata dall’esercito iracheno, sostenuto dalle truppe statunitensi. Il percorso di ripresa è iniziato, ma è un cammino lungo e faticoso, ricco di sfide anche e soprattutto per la comunità cristiana, una componente originaria della regione ma ridotta oggi a una sparuta minoranza come racconta il presule.

Un vero incubo
“A otto anni dall’invasione delle truppe dello Stato islamico a Mosul, Sinjar e nella piana di Ninive - sottolinea mons. Moussa - l’Iraq per noi oggi resta un vero incubo. I jihadisti che marciavano al grido ‘Allah Akhbar’ sono stati sterminati, le loro bandiere bruciate, ma il fantasma della loro ideologia razzista resta ancorato nella mente di una parte della società, soprattutto fra le persone meno acculturate”. L’ascesa di Daesh [acronimo arabo per l’Isis] è coincisa con uno dei tanti segni dell’infamia, le case dei cristiani marchiate con la lettere “N” (Noun in arabo) ad indicare “nazareno”. “Una espressione - prosegue il prelato - oggi umiliante, utilizzata nel Corano per indicare gli ‘eretici’ cristiani nella Penisola araba”. Certo l’approccio estremista e radicale non contraddistingue tutta la società “e i musulmani più illuminati respingono questi gesti barbari di Daesh commessi contro i cristiani, gli yazidi e persino i musulmani di ispirazione diversa”. Ciononostante, aggiunge il vescovo, “questa lettera fonte di umiliazione” si è trasformata negli anni “in un segno di orgoglio e di gloria per noi, posizionando una croce nel mezzo della lettera”.
Parole che ricordano le profonde sofferenze e le ferite che hanno caratterizzato la storia recente dell’Iraq, e che assumono ancora più valore nell’anniversario dell’ascesa del califfato. Un dominio durato fino all’estate del 2017 e perpetrato con la violenza, le esecuzioni nella pubblica piazza, i sequestri e il terrore, oltre alla devastazione di luoghi simbolo come la moschea di al-Nouri e la chiesa di Al-Saa (Nostra Signora dell’Ora). Due luoghi di culto, musulmano e cristiano, che oggi si sono trasformati in simbolo di rinascita grazie a un progetto di ricostruzione finanziato dall’Unesco e dagli Emirati Arabi Uniti, all’interno del programma denominato “Ravvivare lo spirito di Mosul ricostruendo i suoi monumenti storici”.

Lenta rinascita
“Il ritorno dei cristiani a Mosul - racconta l’arcivescovo, che da qualche tempo risiede in modo permanente in città - resta minimo e timido. Perché la corruzione è ben consolidata nel governo, che finisce per non sostenere i suoi cittadini. Mancano le occasioni di lavoro, le infrastrutture sono degradate, il 60% delle case restano tuttora danneggiate, sono 28 le chiese distrutte, di cui solo due operative grazie allo sforzo delle ong che si occupano anche della ristrutturazione delle case oggi agibili, in grado di ospitare le 56 famiglie cristiane che hanno deciso di tornare dando prova di grande coraggio, sotto la guida di un sacerdote e di un solo vescovo. Conventi e monasteri, tre dei quali risalgono al quinto e al sesto secolo, risultano ancora fatiscenti e in macerie”.
Mons. Moussa conosce bene la realtà di Mosul, essendovi nato nel 1955 mentre l’ordinazione sacerdotale è del 1987. Ha conseguito un master in Teologia cattolica e, a partire dal 1990, ha ricoperto la carica di direttore del Centro digitale dei manoscritti orientali della città, curando la conservazione e la digitalizzazione di oltre 800 manoscritti antichi in aramaico, arabo e altre lingue, di migliaia di libri e di lettere secolari. Di fronte all’avanzata delle milizie del Califfato, il presule si è visto costretto a fuggire prima nella piana di Ninive, poi verso il Kurdistan iracheno come decine di migliaia di cristiani. Ed è stata proprio la sua tenacia nel salvare questo patrimonio culturale dalla follia jihadista, che gli è valsa la nomina al premio Sakharov 2020. Archiviata l’inaugurazione dell’arcivescovado, l’obiettivo è quello di ricostruire il tessuto sociale, anche se il percorso resta lungo e complicato.

Segni di speranza
La visita di papa Francesco nel marzo 2021 ha segnato una tappa fondamentale per la città, perché ha saputo mostrare germogli di rinascita, impensabili fino a qualche anno fa. L’anziano pontefice che si inchina e chiede perdono a Dio per le violenze scatenate nella piazza delle quattro chiese a Mosul; la partecipazione corale di musulmani, cristiani, yazidi e sabei, vestiti a festa, loro, sopravvissuti allo sradicamento; le mura sbrecciate delle chiese in ricostruzione, di cui si benedice il monumento ai martiri e ai morti per la furia omicida sono stati segni e gesti simbolici carichi di significato. Semi di speranza, conferma il vescovo, che si riflettono in alcune iniziative che uniscono tutte le anime della città.
“Si sta instaurando una aspettativa diversa, e positiva - prosegue mons. Moussa - fra le diverse comunità, perché la ferocia di Daesh ha innescato una reazione dei cittadini contro le violenze e il settarismo. Tutti lavorano fianco a fianco per ricostruire o ripristinare gradualmente le abitazioni, come esempio fra i tanti di solidarietà, grazie anche ad associazioni e organizzazioni non governative” presenti sul territorio.
L’arcivescovo di Mosul conclude con una riflessione sulla propria missione “di sopravvissuto a Daesh” come suole definirsi, e le prospettive future.
“Sono nato a Mosul, quindi non posso essere al servizio solo dei cristiani. Il vescovo è un uomo di pace e di riconciliazione, un costruttore di ponti fra le persone e le diverse comunità. Fra i nostri amici, i fedeli musulmani sono più numerosi degli stessi cristiani, ci aiutano nei vari progetti ristrutturando le chiese, partecipando alle attività e alle celebrazioni, con cuore aperto e desiderio di condivisione. Nonostante le difficoltà, i cristiani restano una realtà forte e unita, vogliono rimanere in questo Paese martirizzato, testimoni di Cristo sulla terra. Attraverso l’educazione - conclude mons. Moussa - possiamo combattere l’ignoranza e attraverso la buona volontà e la tenacia possiamo fermare l’odio e l’acrimonia dei fanatici”.