Pagine

1 giugno 2022

Padre Ganni, testimone di una Chiesa «con le porte aperte»

Roberta Pumpo

«Chissà se la Vergine Maria quando è arrivata da santa Elisabetta ha dovuto bussare prima di entrare in casa o ha trovato la porta aperta, segno di accoglienza. È proprio per manifestare questa apertura verso il prossimo che padre Ragheed lasciava sempre aperta la sua chiesa, trasmettendo il senso di ospitalità alla sua comunità. Dio non ha orari ed è bello permettere al prossimo di trovare la porta spalancata in qualsiasi momento. Così si è strumento dell’apertura del Padre».
Ieri sera, 31 maggio, nel giorno in cui la Chiesa fa memoria della Visitazione della Beata Vergine Maria, il vescovo Benoni Ambarus, delegato diocesano per la Carità e la pastorale dei migranti, ha introdotto con questo parallelismo la figura del sacerdote caldeo cattolico Ragheed Ganni, iracheno di Mosul, ucciso insieme a tre diaconi il 3 giugno 2007. Assassinato a 35 anni perché aveva lasciato la chiesa aperta. Prima di ucciderlo, infatti, i terroristi gli urlarono che gli era stato ordinato di chiudere la chiesa e lui aveva semplicemente risposto: «Come posso chiudere la casa di Dio?».
Nel 15° anniversario del martirio si è svolta nella parrocchia Santissimo Sacramento a Tor de’ Schiavi la celebrazione eucaristica alla quale ha fatto seguito la testimonianza di Wisam Pekandi, anch’egli di Mosul, amico di padre Ragheed e giornalista dell’Adn Kronos. L’incontro è stato organizzato con il sostegno del Centro missionario diocesano, dal Gruppo Nuovi Martiri. «Era una persona eccezionale, infondeva allegria negli altri», ha detto Pekandi, che aveva conosciuto padre Ragheed a Roma nel 1996. Il sacerdote studiava Teologia alla Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino. Pekandi studiava Catechesi missionaria con Propaganda Fide. Un’amicizia che si è rafforzata negli anni. Spesso il sacerdote ha aiutato il connazionale in difficoltà economica e aveva celebrato il suo matrimonio donando le fedi nuziali. «Per noi sono delle reliquie – ha detto il giornalista -. Il suo martirio è stato un duro colpo. Ho cercato in tutti i modi di convincerlo a non tornare in Iraq, le minacce contro i sacerdoti erano sempre più pressanti, ma nel 2003 è rientrato nella sua diocesi. Ci sentivamo spesso al telefono, pochi giorni prima del suo omicidio mi raccontò di essere stato seguito ma che era riuscito a mettersi in salvo. Aveva avuto il via libera dal vescovo per tornare a Roma per completare gli studi. Se il visto fosse arrivato in tempo sarebbe ancora vivo».
Durante l’incontro è stato ricordato che a Roma padre Ragheed aveva conosciuto la Comunità di Sant’Egidio, con la quale tutte le settimane andava a distribuire la cena ai senza dimora. La sua stola sacerdotale è conservata nella basilica di San Bartolomeo all’Isola. Una testimonianza, la sua, da divulgare perché «i terroristi lo hanno ucciso ma i cristiani lo hanno dimenticato», ha detto don Massimiliano Testi, parroco di Sant’Innocenzo I Papa e San Guido Vescovo, che ha concelebrato con don Maurizio Mirilli, parroco del Santissimo Sacramento a Tor de’ Schiavi.