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19 aprile 2022

Ankawa, la Pasqua dei cristiani che parlano la lingua di Gesù

Alessandra De Poli
16 aprile 2022

Non esiste su Google Maps, non appare in nessun risultato di ricerca di internet, e anche una volta arrivati sul posto non è facile intuire che cosa si celi dietro agli alti muri bianchi contrassegnati da uno stemma blu e verde con un tau in campo giallo al centro. 
Ma una volta varcato l’ingresso principale, il monastero di Gabriel Danbo si presenta maestoso, placido, geometrico: le forme squadrate degli edifici principali dialogano con la fontana circolare che si trova davanti alla chiesa.
In questa Pasqua - con il suo paziente lavoro di recupero della storia di questa antichissima comunità cristiana, è un piccolo segno della speranza che tra tante fatiche prova a rinasce ad Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno divenuto negli anni dell'Isis il rifugio per migliaia di cristiani di Mosul e della piana di Ninive.
Il complesso - inaugurato l'anno scorso - sorge al limite di Ankawa e ospita cinque confratelli dell'Ordine antoniano di Sant'Ormisda dei caldei. Il loro monastero originario, quello di Rabban Hormizd ad al-Qosh, era stato abbandonato decenni fa. Ma ora qui il patrimonio di manoscritti siriaci che possedevano (alcuni provenienti anche dal monastero siriaco ortodosso di Mar Mattai sul monte Maqlub, dove nel 2014 l’Isis era a soli 3 km di distanza nella valle sottostante) sta venendo catalogato e digitalizzato dai padri e da un gruppo di studenti.
“Questi ragazzi parlano il sureth, l’aramaico moderno”, spiega ad AsiaNews il superiore generale dell’ordine di Sant’Ormisda, p. Samer Yohanna. “È come se tu leggessi il latino: qualcosa capisci, ma devi studiare per padroneggiare la lingua. È quello che facciamo con questi ragazzi”, aggiunge il sacerdote, professore alla facoltà di siriaco dell’Università Salahaddin di Erbil.
L’aramaico parlato oggi da alcune comunità cristiane in Medio Oriente (si stima siano in tutto 400mila persone), è una versione moderna della lingua di Gesù. La liturgia invece utilizza ancora il siriaco classico e l’arabo. Ma i cristiani di questa regione non si considerano arabi, neanche quelli che al posto del sureth parlano appunto l’arabo, come ad al-Qosh, città contesa tra il governo regionale del Kurdistan e l’Iraq federale. “Sei curdo o arabo?”. A questa domanda i cristiani si sentono quasi offesi: aggrottano le sopracciglia, indietreggiano, il sorriso scompare dal loro volto: “No, sono cristiano”.
In questo pot-pourri di popoli, dove tanti sono già scomparsi (il quartiere ebraico di Erbil è disabitato, mentre a Baghdad restano solo sei ebrei) i cristiani dal punto di vista etnico si dicono assiri, diretti discendenti dei babilonesi. E infatti ad Ankawa si vedono murales che ritraggono la famosa porta blu di Babilonia circondata da una coppia di lamassu, le divinità mitologiche con testa d’uomo, corpo di toro e possenti ali d’angelo.
Anche se i cristiani di rito caldeo dell’Iraq non si sentono più in pericolo come tra il 2014 e il 2017 - gli anni dell’Isis, quando migliaia di famiglie erano scappate dai loro villaggi di origine per rifugiarsi a Hawler (il nome curdo di Erbil) - il loro numero continua a ridursi.
“Più o meno dovrebbero esserci 8mila famiglie cristiane qui”, afferma il vescovo Bashar Warda. “Negli anni scorsi ne sono arrivate almeno 2mila da Mosul e dalla piana di Ninive. E sono quasi tutte rimaste”. Ma allargando lo sguardo all’intero l’Iraq, dal 2003 un terzo dei cristiani è emigrato all’estero. La sfida è quella di mantenere nel Paese i giovani, che, come in Libano o in Siria, appena ne hanno la possibilità se ne vanno, soprattutto se hanno studiato.
“Cerchiamo di lavorare nelle aree in cui vediamo che c’è possibilità di prosperare, come a Erbil, dove abbiamo creato più di 400 posti di lavoro”, racconta mons. Warda. “Il governo del Kurdistan ci ha sostenuti e incoraggiati, ma dal 2010 stiamo cercando non solo di mantenere la nostra presenza qui come cristiani, ma anche di avere voce in capitolo nella società, e lo facciamo soprattutto attraverso l’istruzione e la sanità”.
“Ma è il governo di Baghdad a dover capire che è necessario attuare leggi e regolamenti per proteggere le minoranze e le popolazioni indigene di questo Paese”, prosegue il presule. Se scomparissero, si perderebbe una fetta importante della storia dell’Iraq. Oltre ai manoscritti, si stanno digitalizzando anche tutti i reperti del Syriac Heritage Museum grazie a un finanziamento di due anni da parte di Usaid, agenzia di cooperazione statunitense.
“Ma p. Samer aveva quest’idea da molto tempo”, continua mons. Warda, “da prima che arrivasse l’Isis”.
A Erbil ora ci sono quattro scuole cattoliche e un ospedale, il Maryamana, voluto dal vescovo. “Per me è incredibile vedere che c’è un ospedale dedicato a Maria, con un nome cristiano, nella mia città”, racconta Onell Nael, uno studente di siriaco di p. Yohanna che ora ha in parte abbandonato il lavoro di catalogazione al monastero per fare l’interprete per i soldati americani stanziati a Erbil. “Cristiani e musulmani escono insieme e si rispettano. In questo periodo di Ramadan per esempio non fumo e non mangio davanti ai miei colleghi che digiunano”, racconta il giovane, che nel tempo libero collabora con il museo. “Ma se chiedessi la mano di una ragazza musulmana la sua famiglia mi ammazzerebbe”.
Le divisioni settarie sono più difficili da superare in politica piuttosto che nella vita di tutti i giorni. Le proteste scoppiate nell’ottobre 2019 chiedevano la fine del sistema politico iracheno post-2003, che assegna a sunniti, sciiti e curdi uno specifico ruolo nel governo: “Deve tornare al centro l’idea di cittadino iracheno in quanto tale”, sostiene p. Samer. “Basta con queste divisioni confessionali”.
“La democrazia è un processo che richiede decenni”, sintetizza mons. Warda. “C’è un sacco di sospetto e di sfiducia ancora tra le varie comunità, bisogna aspettare che le cose migliorino con il tempo. Ma con il numero di cristiani che diminuisce di anno in anno, temo che avere pazienza non giocherà a nostro favore”.