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2 marzo 2021

Mano nella mano per costruire il Paese

Rossella Fabiani

C’è un’atmosfera di amicizia sul pulmino che sta attraversando la piana di Ninive per portarci ad Alqosh a visitare il monastero caldeo di Rabban Ormisda. Sono in Iraq. Nell’antica Mesopotamia. E di colpo i libri letti, i testi tradotti, i manuali consumati sono annullati dalla vista di questa terra che svela, senza bisogno di mediazioni, tutta la sua storia, le sue genti e i pellegrini che l’hanno attraversata. Lei è ancora lì. Immobile. E accogliente. Pur tra tanto dolore. Ma uno spirito di fratellanza pervade ogni cosa. Nonostante il male l’abbia attraversata molte volte nella storia. Perché dal dolore può nascere la misericordia. Sono venuta qui da sola nonostante tutti mi dicessero è pericoloso, dove vai? Avevo paura all’inizio. E invece è stata una benedizione poter andare. 
Lasciamo la pianura e cominciamo a salire una serie di tornanti, sempre più in alto fino in cima dove, scavato nelle rocce della montagna, finalmente vediamo il monastero di Rabban Ormisda che appartiene alla Chiesa cattolica caldea. 
Fu fondato intorno al 640 da Rabban Ormisda venerato come santo nella tradizione sia nestoriana che cattolica della Chiesa d’Oriente. Rabban significa monaco nell’antica lingua siriaca. 
Il monastero si trova a circa tre chilometri dal villaggio cristiano di Alqosh, che è a 45 chilometri da Mosul e a una settantina di chilometri da Qaraqosh, la più grande città cristiana dell’Iraq. Alqosh è un piccolo villaggio abitato da sempre solo da assiri e siriaci cristiani. 
Ho visto diversi villaggi cristiani viaggiando per il nord dell’Iraq. Ma questo è il più famoso perché è pieno di antiche chiese e ha persino un chiostro. Questo antichissimo luogo — menzionato per la prima volta in un’iscrizione muraria nel palazzo di Sennacherib risalente agli inizi del VII secolo avanti Cristo — è uno dei principali centri del cristianesimo assiro-caldeo.
Il monastero di Rabban Ormisda, che è stato sede dei patriarchi nestoriani dal 1551 al 1804, era definito il Vaticano dell’Iraq e ancora oggi è visitato dai pellegrini che venerano la grotta con gli anelli al soffitto ai quali, secondo la tradizione, l’eremita legava la barba e i capelli così da non addormentarsi e praticare la preghiera del cuore. Il sole illumina il monastero, tutto il paesaggio è invaso da una luce bellissima. Un piccolo campanile si erge solitario poco distante. Ricordava alla gente dei villaggi della pianura le ore della preghiera e scandiva la giornata del monastero. Uso il verbo al passato perché oggi il monastero — che un tempo accoglieva una nutrita comunità monastica che seguiva la regola cenobitica, con alcuni monaci che avevano invece scelto quella anacoretica vivendo in grotte scavate nella montagna — è in stato di abbandono dopo essere stato saccheggiato dall’Is nel 2013. 
È un luogo del silenzio. «Per noi cristiani questo monastero fa ricordare il passato, come era la Chiesa unita, una Chiesa di milioni di persone», mi dice padre Salar cattolico caldeo che mi accompagna all’interno della chiesa dove mi inginocchio davanti all’altare di pietra e all’icona di Rabban Ormisda. Poi raggiungo la cella del santo monaco Ormisda e attraverso il corridoio dove ci sono le pietre tombali di nove patriarchi della Chiesa assira d’Oriente. 
 È dal monastero di Alqosh — che racconta quasi quindici secoli di storia del cristianesimo siriaco — che nel 1551 si avvia il processo di unione con Roma da cui è nato il patriarcato siro-cattolico che si stabilì ad Amida, oggi Diyarbakir. Nel 1845 Gregorio XVI approva la regola dell’ordine antoniano di Sant’Ormisda dei Caldei. E sempre qui una preziosa biblioteca conservava i testi fondativi della Chiesa siriaca, redatti in siriaco, una lingua semitica con caratteri e radici simili all’ebraico, praticata dai popoli che pregano in aramaico, la lingua di Gesù e del Talmud. Ma, soprattutto, in questo monastero fu redatto un prezioso manoscritto che contiene la storia conciliare dei primi sette secoli del cristianesimo siriaco e delle Chiese collocate fuori dall’impero bizantino, portatrici di un dinamismo missionario che era arrivato a predicare il Vangelo in Cina già nel VI secolo. Un testo oggi conservato in un luogo segreto e che in pochissimi hanno visto. Quando infatti, nel 1902, Jean-Baptiste Chabot, prete di Tour di formazione lovaniense e poi studioso all’Ecole pratique di Parigi, fece l’edizione critica del Synodicon orientale lavorò su due copie di questo manoscritto. Nel tempo i monaci del monastero si trasferirono in pianura vicino al villaggio di Alqosh dove fu costruito un nuovo monastero, Notre Dame des Semences. 
Fino al completo abbandono dopo gli assalti dell’Is. Oggi l’antico monastero rimane un luogo di pellegrinaggio e di preghiera. Fuori, tutte intorno, ci sono le grotte scavate nella montagna dove vivevano gli eremiti. 
Un’incisione nella roccia recita «i semplici erediteranno la terra» è una delle Beatitudini. «Questo luogo rappresenta il passato della nostra gente, ma anche il futuro perché i cristiani qui ci sono sempre stati e continueranno a esserci», mi dice padre Salar. In un’altra iscrizione nella roccia leggo «mano nella mano per costruire il Paese» questo dovrebbe essere l’Iraq, è la speranza di padre Salar.
Nel silenzio che lo circonda questo luogo appare appoggiato all’azzurro del cielo mentre dall’alto osserva la piana di Ninive che si mostra in tutta la sua potente fertilità dove il verde dei campi racconta una prosperità millenaria e contesa, attraversata dai grandi imperi assiri, dai tanti simboli religiosi, dalle civiltà giuridiche, dalle antiche lingue diventate scrittura, dalla crudeltà dei potenti e dalla speranza di rivincita del povero di cui parla il profeta Naum che ad Alqosh, in mezzo alle vecchie case del villaggio, ha la sua tomba. 
 Due sono le strade principali di questa regione. Una più grande che va dalla Turchia a Zakko e di lì a Erbil e giù fino Baghdad, l’altra, più piccola, che corre perpendicolare e va da Alqosh verso Mosul, attraversando una serie di villaggi che hanno visto l’avanzata di Daesh che è giunto fino a Teleskof, a venti chilometri da questo monastero, dove vive padre Salar che ha studiato con me al Pontificio Istituto Orientale a Roma. 
Ancora in attività e centro di un arcivescovado è invece il monastero di Mar Mattai (San Matteo) che si aggrappa al fianco di una ripida montagna, il monte Alfaf, a 20 chilometri a nord-est da Mosul. Qui in una giornata limpida un pellegrino può stare contro le sue mura simili a quelle di una fortezza e discernere molto al di sotto le affascinanti terre coltivate dell’Alta Mesopotamia, culla della civiltà. Mar Mattai è famoso per la sua biblioteca e la collezione di manoscritti cristiani siriaci. Attraverso le pesanti porte del monastero e mi avvio lungo i suoi portici ombreggiati. Un ragazzo gioca con un pallone nel cortile. Al suo apice, nel IX secolo, il monastero ospitava fino a settemila monaci. 
Oggi ne ha cinque, un vescovo, e questo ragazzo con la sua famiglia. Il monastero fu fondato nel 363 dall’eremita Mar Mattai fuggito dal villaggio di Abkarchat, nella regione di Diyarbakir, dalle persecuzioni dell’imperatore romano Giuliano l’Apostata. Da subito Mattai venne raggiunto da un piccolo gruppo di seguaci siriaci e sotto la sua guida quella comunità sviluppò un vero luogo monastico. E già alla fine del IV secolo il monastero ospitava migliaia di monaci. Secondo la tradizione siriaca, Mar Mattai convertì al cristianesimo Mar Behnam e sua sorella Marth Sarah. Il loro padre, Sennacherib re di Nimrud d’Assiria, li uccise, ma in seguito si pentì e diede a Mattai un posto in cima al monte Alfaf per fondare il suo monastero. Mentre lui, come penitenza per aver martirizzato i suoi figli che si erano convertiti al cristianesimo, fece costruire il monastero dei martiri Mar Behnam e Marth Sarah che è l’ex residenza e l’attuale luogo di riposo di alcuni patriarchi siro-ortodossi, 34 chilometri a sud di Mosul. 
All’interno del complesso monastico ci sono diverse chiese, oltre alla principale dedicata a Mar Mattai, e cappelle. All’esterno delle mura, sfilano anche qui un serie di grotte scavate nella montagna abitate dagli anacoreti, testimonianza viva di una fede antica. Oggi il convento di Mar Mattai non è altro che un’ombra della sua magnificenza, ma la piccola comunità monastica che rimane sul sito custodisce un patrimonio antichissimo che gli abitanti dei villaggi circostanti e i numerosi pellegrini frequentano ancora con fervore. Attualmente il monastero di Mar Mattai è mantenuto dalla Chiesa siro-ortodossa e serve il piccolo villaggio agricolo sottostante. Ogni anno, i cristiani si riuniscono nel monastero il 18 settembre per commemorare il giorno della morte di Mar Mattai. 
Ma l’aria già comincia a rinfrescare mentre concludo il mio tempo al monastero. La mattina dopo il nostro autista è diretto verso il santuario di Rabban Boya a Shaqlawa, a nord est di Erbil. Scivoliamo davanti a campi di grano, stazioni di servizio con nomi imitazione come “Shall” e “Nobil”, e una raffineria: testimonianze dell’economia agricola del nord del Paese e del fatto che l’Iraq controlla alcuni dei giacimenti petroliferi più ricchi del mondo, un quarto dei quali si trovano proprio nel nord. Affacciato sulla valle del monte Safeen, il santuario, oggi è un importante luogo di pellegrinaggio, soprattutto per le donne, sia cristiane che musulmane, che si rivolgono a San Boya per esaudire i loro desideri di fertilità. All’inizio, il santuario di Rabban Boya era soltanto un eremo, proprio come ce ne sono tanti in queste montagne nel nord dell’Iraq. Sembra che in seguito si sia trasformato in un deir, cioè un monastero. Ci sono infatti prove che alcuni monaci vivevano qui e gestivano anche una piccola industria di tessitura, confezionando abiti con pelo di capra. Oggi non ci sono più monaci che vivono da eremiti in montagna. 
Il sito è ancora mantenuto come un mausoleo ed è noto per ospitare le reliquie venerate di alcuni monaci santi, come quelle del monaco Boya. Il santuario stesso è ancora oggi un luogo povero e ascetico. La scala metallica e il muro in pietra costruito all’ingresso del santuario sono le uniche due concessioni alla modernità. Tutto il resto e la parte principale del santuario è costituito da piccole stanze scavate nella roccia. All’interno, subito a sinistra, si trova una grande pietra rettangolare detta della “fertilità”, levigata e inclinata, usata come “roccia del desiderio”. 
Nel corso dei secoli, molte donne cristiane e musulmane si sono adagiate su questa pietra, a faccia in su massaggiandosi lo stomaco e pregando di avere un bambino. Secondo la tradizione il santo Rabban Boya avrebbe avuto il potere miracoloso di rendere fertili le donne sterili. Attraversando una porta bassa, considerata santa dai fedeli, entriamo in una cappella dove si trova un altare rivolto a oriente. In una stanza accanto sotto un mucchio di pietre e ciottoli, si trova la tomba del santo. La festa di Rabban Boya viene celebrata in questo santuario una settimana dopo la Pasqua. In primavera, sia prima che dopo la festa della Risurrezione, il luogo si riempie di pellegrini. Ritornando al pulmino scorgo una mucca solitaria nell’erba e un ragazzino con una maglietta gialla che passando su una bicicletta si è girato a salutare. È tempo di lasciare il cuore di una delle regioni più belle dell’antica Assira cristiana. Ricca di monasteri, santuari, chiese e centri spirituali. Molti costruiti in alto su picchi rocciosi che visti dalla valle, appaiono sospesi tra cielo e terra e sembrano richiamare alla meditazione mentre loro sembrano vegliare sul mondo sottostante, quello degli uomini di Ninive e l’agitazione perpetua.