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4 marzo 2021

L’attesa dei cristiani iracheni di Germania, che vedranno il Papa solo in tv

Alessandro Di Bussolo

Nessuna delle 10 mila famiglie di caldei e siro-cattolici emigrate nella “locomotiva d’Europa”, causa pandemia, potrà raggiungere l’Iraq per il viaggio di Francesco, ma lo accompagneranno con la preghiera. Don Basa, parroco per il Nord Reno - Westfalia: “C’è gioia, preoccupazione e speranza. Come messaggero di pace, la visita del Papa potrà aprire la strada al dialogo e alla fratellanza”
Molti di loro avrebbero certo affrontato i costi del viaggio e anche i rischi di tornare in quell’Iraq dal quale hanno dovuto fuggire per salvarsi da guerra, persecuzione o anche solo dalla disoccupazione, per pregare con Papa Francesco nella terra dove sono nati. Ma i cristiani caldei della diaspora, 8 mila famiglie in Germania (10 mila se si contano anche i siro-cattolici), a causa delle restrizioni per frenare la pandemia, potranno seguire Francesco nel suo viaggio da Baghdad a Ur, da Erbil a Qaraqosh, dal 5 all’8 marzo, solo in televisione, in casa, e nemmeno in gruppo in qualche sala parrocchiale.
Cinque sacerdoti per 8 mila famiglie caldee in Germania
Sarà così anche per i caldei emigrati in Australia, Canada, Stati Uniti, e in tutta Europa, come ci spiega don Rebwar Basa, nato 42 anni fa a Shaqlawa, a pochi chilometri da Erbil, nel Nord dell’Iraq, e dalla fine del 2018 parroco ad Essen e in altre quattro missioni tedesche, a Bonn, Monschengladbach, Munster e Stadtlohn. A lui è affidata la cura pastorale di 1300 famiglie di cristiani caldei iracheni del Land Nord Reno-Westfalia, ed è uno dei 5 sacerdoti per le 8mila famiglie in Germania. La sua parrocchia caldea dei Santi Addai e Mari ad Essen si è spostata a giugno dalla chiesa di St. Albertus Magnus a quella più grande di St. Nikolaus, ma di trasferimenti don Rebwar ne ha fatti molti, nella sua vita.
Allievo di don Ganni, ucciso dall'Isis a Mosul nel 2007
Ha vissuto per nove anni a Mosul, dove è stato ordinato sacerdote nel 2004 dal cardinale patriarca Emmanuel III Delly, ed è stato allievo alla facoltà di teologia di Baghdad di don Ragheed Ganni, che nel giugno 2007, parroco della chiesa dello Spirito Santo a Mosul, è stato ucciso da terroristi dell’Isis all’uscita dalla Messa insieme a tre suoi giovani diaconi. Don Rebwar allora era a Roma, studente del Pontificio Istituto Biblico, ma nel 2017, per i 10 anni dalla morte del suo professore, ha pubblicato con Aiuto alla Chiesa che Soffre “Un sacerdote cattolico nello Stato Islamico: la storia di padre Ganni”.
Don Basa: non c'è pace in Iraq, preghiamo per il Papa
Ora don Ragheed è sepolto nella sua Karemlesh, nella piana di Ninive, da dove proviene anche la statua della Vergine Maria sfregiata dall’Isis che sarà accanto all’altare del Papa nella Messa ad Erbil, il pomeriggio del 7 marzo. Ad agosto 2019 si è chiusa la fase diocesana della causa di beatificazione, e oggi la Chiesa caldea ne fa memoria accanto al vescovo di Mosul Paulos Faraj Rahho, rapito il 29 febbraio 2008 e trovato senza vita due settimane dopo. A don Basa chiediamo che si sta vivendo, nelle comunità cristiane caldee irachene in Germania, l'attesa per la visita di Papa Francesco in Iraq.

Con grande gioia, ma anche con tristezza e preoccupazione. Con grande gioia, perché sappiamo che questa è una visita storica: la prima visita di un Pontefice in terra di Mesopotamia. I cristiani iracheni sono popoli originari, la Chiesa risale ai primi secoli, grazie all’ evangelizzazione di San Tommaso apostolo, e questi cristiani hanno mantenuto la fede dai primi secoli fino ad oggi, nonostante tanti conflitti e preoccupazioni. Ma oggi questa comunità cristiana è diminuita, a causa delle ultime guerre e persecuzioni. Siamo tristi perché non possiamo essere lì. Volevamo partecipare a questo grande evento, come comunità cristiana irachena che vive in Germania, ma purtroppo non possiamo andare, perché la situazione della pandemia non ce lo permette. Siamo preoccupati perché sappiamo che in Iraq manca la pace. Ci sono tanti conflitti, tanti problemi, tante milizie e ci sono ogni giorno degli attentati, dei missili che vengono lanciati di qua e di là. Ci sono tante vittime e quindi siamo preoccupati per il Santo Padre. Lo accompagniamo con la preghiera e preghiamo il Signore affinché il Santo Padre come messaggero di pace possa portare tanta pace per l'Iraq e possa andare in pace e tornare in pace dall'Iraq. Questa sua visita ci apre una strada di dialogo, di grande volontà per ricostruire l’Iraq e per uscire da tutti questi conflitti, cominciando così una epoca di pace e di fratellanza.
Durante le celebrazioni del Papa in Iraq, non potrete riunirvi come comunità per assistervi insieme attraverso la Tv, a causa della pandemia. Lei però potrà parlare della sua Erbil come commentatore della Messa per Mediaset. Come descriverà la vita nella sua città e nel Nord Iraq oggi per i cristiani?
La vita dei cristiani iracheni ad Erbil e nel Nord Iraq è abbastanza stabile. Vorrei ricordare che i cristiani di Erbil hanno accolto con tanta gioia, con tanto amore i cristiani che dovevano fuggire dall’attacco dello Stato Islamico. Solo nella città di Erbil i cristiani hanno accolto circa 120 mila fratelli cristiani. Poi anche la comunità internazionale, la Chiesa, le associazioni, e il Santo Padre hanno aiutato tanto affinché la città di Erbil, ma anche altre del Nord e la Chiesa del Nord Iraq potessero accogliere questi cristiani e aiutarli a vivere una vita dignitosa, nonostante la persecuzione e la situazione in cui vivevano.
C'è la speranza che questo viaggio faccia capire a tutti nel mondo, e soprattutto in Iraq, che i cristiani non sono ospiti stranieri nella terra del Tigri e dell'Eufrate, ma abitanti originari del Paese. Oggi questo non è compreso abbastanza?
Sicuramente la visita del Santo Padre in Iraq fa capire a tanta gente in tutto il mondo che c'è una Chiesa in Iraq, c'è una presenza cristiana in Iraq che risale ai primi secoli. E c'è una Chiesa viva, che nonostante la persecuzione dà una grande testimonianza a Cristo. Poi per gli altri iracheni questa visita del Papa fa capire a tanta gente che i cristiani sono popoli originari, discendenti degli antichi caldei e assiri. Sono una presenza importante in Iraq: perché hanno una lunga storia, ma anche hanno un ruolo molto importante. Oggi sono pochi, ma non è importante la quantità ma la qualità. Gesù Cristo ci invita ad essere il sale della nostra terra, la terra del Tigri e dell'Eufrate, ad essere la luce, ad essere testimoni di Gesù, ad essere strumenti di pace e di fratellanza in questo Paese al quale manca la stabilità, la sicurezza e la pace.
Per la situazione drammatica dei cristiani in Iraq, il Patriarcato rivolge spesso appelli all'aiuto ai caldei della diaspora. Quale aiuto riuscite a dare, nella vostra situazione di piccola Chiesa di missione in Germania?
Come iracheni, l’Iraq e la nostra Chiesa in Iraq stanno al centro della nostra vita. Noi ricordiamo sempre l'Iraq nelle nostre preghiere, nelle Messe e preghiamo per la pace. Dopo la preghiera viene anche l'aiuto concreto: tante volte come comunità raccogliamo fondi per aiutare chi ha bisogno in Iraq, ma anche a livello personale tante famiglie vengono da me come parroco e perché vogliono donare qualcosa alle famiglie che si trovano in difficoltà in Iraq o ai cristiani che si trovano oggi in Turchia, Libano, in Giordania. Hanno lasciato l'Iraq ma vivono una situazione drammatica. I nostri cristiani qui in parrocchia e nelle missioni che abbiamo in Germania sono sempre in solidarietà e unità con l'Iraq, con la Chiesa e i suoi abitanti. Per esempio qui ad Essen, ultimamente, la nostra parrocchia ha anche aiutato una nuova diocesi Iraq. La maggior parte delle nostre famiglie sono nuove, qui in Germania. Nonostante questo siamo riusciti a raccogliere più di duemila euro per sostenere una delle nostre diocesi in Iraq. La nostra parrocchia è sostenuta delle famiglie: tante famiglie ogni mese donano 10 euro per poter coprire le spese mensili della chiesa e così possiamo avere una chiesa tutta nostra. Inoltre tanti cristiani caldei qui hanno dei parenti in Iraq e sempre sono in contatto con loro e li aiutano in diversi modi.
Qualcuna delle famiglie che sono fuggite dall'Iraq più di recente, dopo l'attacco dell'Isis nel luglio 2014 alla Piana di Ninive, sta pensando di rientrare in Iraq? Come sostenere comunque la presenza dei cristiani nella terra di Abramo?
Sappiamo tutti che una famiglia quando lascia il proprio Paese è molto difficile che poi prenda la decisione di tornare, dopo anni nei quali si è ricostruita una vita. I figli crescono, vanno a scuola, poi cominciano a lavorare… hanno imparato un'altra lingua, un'altra cultura, quindi anche se i genitori vogliono tornare, per i figli diventa troppo complicato. Però devo dire che tutti i cristiani dell'Iraq sia in Germania, ma anche in altri Paesi del mondo soffrono di una grande nostalgia dell'Iraq. Soffrono tanto. Sappiamo bene che non è stata una loro decisione quella di lasciare l'Iraq, ma purtroppo sono state le guerre, i conflitti, le persecuzioni. Come l'ultimo esempio dell’Isis, per come ha cacciato i cristiani dalle loro case, dalle loro chiese, dalle loro terre. Ma l’Iraq rimane sempre nel loro cuore e ringraziamo il Santo Padre Francesco che sta andando in Iraq per essere solidale con il popolo iracheno che ha sofferto per tante guerre e ancora sta soffrendo.