Pagine

12 marzo 2021

“Con il Papa, al-Sistani si è fatto garante dei cristiani in Iraq”

Giuseppe Acconcia

Lo scorso lunedì si è conclusa l’importante e attesa visita durata quattro giorni di Papa Francesco in Iraq. Questa visita è stata realizzata in un contesto storico che sembrava impedirla per motivi sanitari e di sicurezza. La pandemia non ha certo risparmiato il claudicante sistema sanitario iracheno mentre a pochi passi dal confine l’Iran, con le sue relazioni strettissime per motivi commerciali e religiosi con l’Iraq, è il paese con il numero più alto di vittime per Covid-19 nella regione. Eppure per un istante, nel momento in cui Francesco ha salutato a Erbil la folla che, seppure con numeri contingentati, era venuta a incontrarlo, la pandemia è sembrata un ricordo del passato.
Di tutte le immagini quella che più resterà nella memoria di questa visita è l’incontro nella città santa sciita di Najaf di Francesco nella dimora dimessa dell’ayatollah, Ali al-Sistani. Al di là del significato religioso di un riconoscimento reciproco, quell’immagine mostra la volontà solida di permettere alla, ormai piccola ma con radici antiche, minoranza cristiana in Iraq, di avere pieno diritto di cittadinanza, dopo essere stata decimata o costretta all’esilio durante i conflitti che hanno attraversato la regione.
Ne abbiamo parlato con uno dei principali esperti di Medio Oriente, il docente iracheno di Storia all’Università di Londra (Birkbeck), Sami Zubaida.

Perché la visita di Papa Francesco in Iraq è stata così significativa?
È stato molto importante dare sostegno e supporto ai cristiani in Iraq. I cristiani iracheni sono ancora minacciati e hanno subito tremende persecuzioni. Negli ultimi anni sono stati continui gli attacchi contro i cristiani e le altre minoranze religiose, in centinaia di migliaia hanno lasciato il paese. Vi invito ad approfondire i dilemmi che hanno affrontato i cristiani iracheni dopo l’invasione del 2003, raccontati magistralmente dallo scrittore, Sinan Antoon, nel libro “Ave Maria”. Per questo, è particolarmente rilevante l’incontro di Francesco con al-Sistani. È stato significativo sentire al-Sistani dire che tutti i cristiani hanno gli stessi diritti degli iracheni, come sicurezza e libertà, sebbene spesso neppure le altre comunità in Iraq godano di quei diritti.
Qual è il rapporto dei cristiani iracheni con le comunità sciite irachene?
Non c’è una comunità sciita unita in Iraq, governo e opposizione sono entrambi interni alle comunità sciite. Ci sono vari gruppi paramilitari che guardano all’Iran, politici sciiti con connessioni con le istituzioni iraniane, e i meccanismi di potere controllati da al-Sistani. Lo stesso Al-Sistani è fortemente critico della situazione, ed è in favore dell’integrazione e per l’uguaglianza dei cristiani iracheni, così come dei giovani che scendono in piazza per chiedere uno stato civile e non uno stato controllato dalla religione. Questo sarebbe in favore anche dei cristiani.
Qual è il rapporto tra al-Sistani e la guida suprema iraniana, Ali Khamenei?
Al-Sistani e le istituzioni che controlla sono implicitamente rivali dell’Iran, mentre molti tra gli sciiti iracheni, incluse le milizie, sono leali all’Iran e a Khamenei. Ma al-Sistani ha un’importante influenza sugli sciiti che lo seguono in Iraq, Iran e nel Golfo. L’incontro del Papa ha rafforzato al-Sistani come leader degli sciiti in competizione con la guida suprema iraniana, Ali Khamenei. Per esempio, al-Sistani si è sempre opposto alla velayat e-faqih (il governo dell’esperto concepito da Khomeini, ndr).
L’Iraq è anche dilaniato da una grave crisi economica che ha portato proteste diffuse soprattutto tra i giovani, stanno continuando?
Ci sono grande scontento e frustrazione diffuse. Sono centinaia di migliaia i giovani iracheni laureati disoccupati, senza servizi, sicurezza. Il governo di Mustafa al-Kadhimi, anche se in verità non c’è un governo coerente in Iraq, non si occupa di questo. Credo che le proteste continueranno. C’è grande malcontento in Iraq per istituzioni frammentate e corrotte, che non funzionano. E per politici che sono impegnati a fare soldi solo nell’interesse delle loro cricche. Nel 2019, migliaia di giovani iracheni sono scesi in piazza non solo per protestare contro le interferenze statunitensi nel paese ma anche per stigmatizzare proprio il ruolo iraniano nei casi di corruzione e di mala gestione economica e finanziaria del paese.
La seconda tappa di questo viaggio, riconosciuto dallo stesso presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, come “storico”, “una speranza per il mondo”, è stata la visita alle macerie di Mosul. L’immagine di Francesco in preghiera nei luoghi dove la ferocia di Isis è stata più cruenta tra il 2014 e il 2017 ha cambiato le carte in tavola?
Ancora una volta si tratta di una questione di umanizzazione, in questo caso, delle conseguenze del terrorismo. Isis è stato anche un fenomeno mediatico con gli sgozzamenti, le decapitazioni, le chiese date alle fiamme, i giornalisti usati dai jihadisti per fare propaganda. Eppure con la liberazione di Raqqa tutto è improvvisamente scomparso dalle pagine dei giornali, come se fosse tutto risolto, se non ci fossero le mine, i morti, i feriti, le vittime di stupro, le macerie, la continua guerra turca contro i curdi, l’abbandono da parte della comunità internazionale, la violazione dei diritti delle donne yazide e non solo. Quell’immagine tra le macerie di Mosul ci ha ricordato che Isis non è stato solo un fenomeno mediatico ma ha distrutto intere città e la vita di migliaia di persone che di certo vorrebbero ricostruire i loro quartieri ma ancora non hanno la completa possibilità per farlo.
L’incontro tra Papa Francesco con Massoud e Masrour Barzani, che volevano guidare il Kurdistan iracheno verso l’indipendenza dopo il referendum del 2017 a Erbil, ha legittimato, agli occhi della comunità internazionale, le loro richieste, già messe in pratica in ambito commerciale, di autonomia rispetto alle autorità di Baghdad?
Penso che il regime di Barzani sia corrotto tanto quanto il governo iracheno. Allo stesso tempo, è in grave difficoltà economica in questa fase, perché le autorità curde irachene puntano quasi esclusivamente sul petrolio. È solo dello scorso 15 febbraio, la notizia dell’ultimo attacco turco contro il partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) che ha causato la morte di 13 turchi, inclusi militari e poliziotti, presi in ostaggio dai curdi, e di 44 combattenti del Pkk. La notizia ha sollevato grandi polemiche ad Ankara, mentre le autorità turche continuano ad accusare dell’uccisione dei 13 turchi le forze curde. Pochi giorni prima, l’aviazione turca aveva bombardato le città di Priz, Bergare e Siyane nella zona di difesa di Medya a Gare. Le azioni turche nel Kurdistan iracheno sono partite lo scorso anno in seguito all’accordo di Sinjar che, con il lascia passare del governo autonomo del Kurdistan iracheno, ha permesso all’esercito turco di attaccare i sostenitori del leader curdo, Abdullah Ӧcalan, in prigione in isolamento in Turchia, presenti nelle montagne irachene.
Quindi la visita di Francesco ci ricorda che la guerra non è finita, il dolore e la distruzione non sono svaniti. Proseguono in altre forme, in molti casi con violenze contro i combattenti curdi e i cittadini curdi siriani che avevano dato un sostegno essenziale per sconfiggere lo Stato islamico nella regione a maggioranza curda di Rojava nel Nord della Siria, dopo l’occupazione di Afrin per mano turca con l’Operazione ramoscello d’Ulivo (2018, ndr). Invece di continuare a vedere distruzione e macerie, tutti noi vorremmo, al contrario, che non fosse messo a rischio quel progetto ecologico, di uguaglianza tra uomini e donne, confederale e accademico con l’apertura dell’Università di Kobane.
 L’ultimo incontro di Francesco prima del rientro in Italia è stato con Abdullah, il padre del piccolo, Alan Kurdi, il cui corpo è stato ritrovato sulle coste di Bodrum nel sud della Turchia nel settembre del 2015. Quell’immagine di un bambino naufrago, di un rifugiato che avrebbe avuto tutto il diritto di essere accolto con la sua famiglia perché scappava da anni di conflitti, ha fatto immediatamente il giro del mondo. Ci sono milioni di migranti siriani e curdi che sono stati costretti a lasciare i loro paesi? Le élite politiche irachene e turche come gestiscono la crisi migratoria?
Torna ancora una volta il tema dell’umanizzazione delle migrazioni, del ricordo del dolore della famiglia di un bambino che a distanza di anni si sarebbe perso nell’infinita contabilità dei morti e dispersi nel Mediterraneo degli ultimi anni, ha assunto un significato centrale. In realtà, i politici iracheni sono preoccupati principalmente delle migrazioni all’interno del paese, a Erbil e nelle regioni curde, ci sono migliaia e migliaia di sfollati interni, soprattutto cristiani, yadizi e di altre minoranze, attaccate da Isis. I migranti sono rimasti bloccati in un limbo che li ha costretti in questi anni a fare di tutto per sfuggire al disumano conflitto siriano e cercare di raggiungere per esempio le isole greche con lo scopo di arrivare in Europa. Eppure il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha fatto ancora una volta leva sulla retorica dell’invasione per ottenere sostegno economico da Germania e Unione europea. I migranti, trattati come cittadini di serie B, con la loro presenza hanno alimentato il nazionalismo di cui si nutre Erdoğan per accrescere a dismisura il suo consenso populista e controllare l’intero sistema politico turco. E poi ci sono molti fattori per cui i curdi turchi continuano a subire arresti di massa e repressione. Erdoğan sta perdendo sostegno elettorale, ci sono molte divisioni nel suo partito, mentre i suoi ex alleati che stanno formando nuovi partiti. Vuole mantenere una forte coalizione con gli ultra-nazionalisti. E il prezzo per fare questo è essere molto duro con i curdi.