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28 febbraio 2021

‘Not a good idea:’ Experts concerned about pope trip to Iraq

Nicole Winfield a Samya Kullab

Infectious disease experts are expressing concern about Pope Francis’ upcoming trip to Iraq, given a sharp rise in coronavirus infections there, a fragile health care system and the unavoidable likelihood that Iraqis will crowd to see him.
No one wants to tell Francis to call it off, and the Iraqi government has every interest in showing off its relative stability by welcoming the first pope to the birthplace of Abraham. The March 5-8 trip is expected to provide a sorely-needed spiritual boost to Iraq’s beleaguered Christians while furthering the Vatican’s bridge-building efforts with the Muslim world.
But from a purely epidemiological standpoint, as well as the public health message it sends, a papal trip to Iraq amid a global pandemic is not advisable, health experts say.
Their concerns were reinforced with the news Sunday that the Vatican ambassador to Iraq, the main point person for the trip who would have escorted Francis to all his appointments, tested positive for COVID-19 and was self-isolating.
In an email to The Associated Press, the embassy said Archbishop Mitja Leskovar’s symptoms were mild and that he was continuing to prepare for Francis’ visit.
Beyond his case, experts note that wars, economic crises and an exodus of Iraqi professionals have devastated the country’s hospital system, while studies show most of Iraq’s new COVID-19 infections are the highly-contagious variant first identified in Britain.
“I just don’t think it’s a good idea,” said Dr. Navid Madani, virologist and founding director of the Center for Science Health Education in the Middle East and North Africa at Harvard Medical School’s Dana-Farber Cancer Institute.
The Iranian-born Madani co-authored an article in The Lancet last year on the region’s uneven response to COVID-19, noting that Iraq, Syria and Yemen were poorly placed to cope, given they are still struggling with extremist insurgencies and have 40 million people who need humanitarian aid.
In a telephone interview, Madani said Middle Easterners are known for their hospitality, and cautioned that the enthusiasm among Iraqis of welcoming a peace-maker like Francis to a neglected, war-torn part of the world might lead to inadvertent violations of virus control measures.
“This could potentially lead to unsafe or superspreading risks,” she said.
Dr. Bharat Pankhania, an infectious disease control expert at the University of Exeter College of Medicine, concurred.
“It’s a perfect storm for generating lots of cases which you won’t be able to deal with,” he said.
Organizers promise to enforce mask mandates, social distancing and crowd limits, as well as the possibility of increased testing sites, two Iraqi government officials said.
The health care protocols are “critical but can be managed,” one government official told The Associated Press, speaking on condition of anonymity.
And the Vatican has taken its own precautions, with the 84-year-old pope, his 20-member Vatican entourage and the 70-plus journalists on the papal plane all vaccinated.
But the Iraqis gathering in the north, center and south of the country to attend Francis’ indoor and outdoor Masses, hear his speeches and participate in his prayer meetings are not vaccinated.
And that, scientists say, is the problem.
“We are in the middle of a global pandemic. And it is important to get the correct messages out,” Pankhania said. “The correct messages are: the less interactions with fellow human beings, the better.”
He questioned the optics of the Vatican delegation being inoculated while the Iraqis are not, and noted that Iraqis would only take such risks to go to those events because the pope was there.
In words addressed to Vatican officials and the media, he said: “You are all protected from severe disease. So if you get infected, you’re not going to die. But the people coming to see you may get infected and may die.”
“Is it wise under that circumstance for you to just turn up? And because you turn up, people turn up to see you and they get infected?” he asked.
The World Health Organization was diplomatic when asked about the wisdom of a papal trip to Iraq, saying countries should evaluate the risk of an event against the infection situation, and then decide if it should be postponed.
“It’s all about managing that risk,” said Maria Van Kerkhove, WHO’s technical lead on COVID-19. “It’s about looking at the epidemiologic situation in the country and then making sure that if that event is to take place, that it can take place as safely as possible.”

L'insolito silenzio del Papa sul viaggio in Iraq che preoccupa molti

Maria Antonietta Calabrò

Contrariamente a quanto avviene prima di un suo viaggio all’estero, oggi Papa Francesco non ha fatto alcuna menzione della sua imminente partenza per l’Iraq, prevista per il prossimo venerdì fino a lunedì 8 marzo. Né ha chiesto di pregare per il successo di una missione a lungo desiderata per visitare i cristiani del Paese, stringere più stretti legami con gli sciiti e visitare la patria di Abramo, il Padre delle tre religioni monoteiste. Crescono infatti le preoccupazioni - dal punto di vista sanitario - per la pandemia da Covid 19 nel paese che ha spinto (già due settimane fa, il 14 febbraio) il Ministero della Salute a imporre il lockdown nazionale in particolare nei weekend (dal venerdì a domenica, cioè giorni in cui avverrà la visita di Francesco nella terra di Abramo) fino all’8 marzo prossimo.
Un lockdown che finora le massime autorità del Paese hanno ufficialmente dichiarato che non coinvolgerà il viaggio papale. Del resto, il Vaticano ha sempre affermato, sin dall’inizio, che il viaggio avrebbe potuto essere sospeso in qualsiasi momento per causa di forza maggiore legata alla pandemia.
Le preoccupazioni sono cresciute dopo che è stata confermata ieri sera la notizia che il Nunzio Apostolico a Baghdad, Mitja Leskovar, principale artefice della visita con impegni e appuntamenti con le più alte autorità, con i leader sciiti (Al Sistani incontrerà il Papà), e in tutto il Paese (da Erbil a Ur), è risultato positivo al Covid.
È in quarantena, e quindi non accompagnerà il Papa, così come è in quarantena il personale della Nunziatura, cioè la sede dove dovrebbe alloggiare il Papa, i cui locali sono stati santificati. (sic!) Lo stesso Nunzio ieri in una dichiarazione ha però affermato che i preparativi del viaggio continuano e che il viaggio apostolico è confermato. Ma, come detto, Papa Francesco non ha fatto menzione all’Angelus del viaggio.
Francesco è stato immunizzato con la doppia dose di vaccino Pfizer-BioNTech , così come tutti i componenti della delegazione e i giornalisti che saliranno sul volo papale. Tuttavia il punto è il rischio sanitario per i partecipanti e per il popolo iracheno, nonostante i protocolli seguiti per gli avvenimenti, tra cui una Messa che il Papa celebrerà allo stadio di Erbil davanti a diecimila persone prenotate, con 120 orchestrali.
Il viaggio “non è una buona idea“, hanno commentato tre virologi americani e inglesi intervistati da Associated press. “Siamo nel mezzo di una pandemia - ha dichiarato uno di loro - ed è importante dare il giusto messaggio. Il messaggio corretto è che meno interazioni si hanno tra gli esseri umani e meglio è”.
E ha aggiunto: “Il seguito papale è protetto da forme gravi di malattia, se si infetta non rischia di morire. Ma la gente che accorre, non è vaccinata, si può infettare e morire”.

Aspettando il Papa nell’Iraq ferito

Chiara Zappa

Un pellegrinaggio nella Terra santa del patriarca Abramo, dei profeti Ezechiele e Giona, là dove fu scritta parte della Bibbia e dove il popolo della Promessa soffrì l’esilio babilonese. Ma lo storico viaggio di Papa Francesco in Iraq, il primo dell’era pandemica, in programma dal 5 all’8 marzo, avrà anche tanti altri significati importantissimi: per i cristiani, che di fronte a violenze e abusi stanno abbandonando quella che per secoli è stata casa loro, ma anche per tutti gli iracheni, esausti dopo decenni senza pace, vessati dalle interferenze esterne che non li lasciano liberi di costruire il proprio destino e da una politica che non riesce ad andare oltre i settarismi. E, oggi, duramente colpiti dalla pandemia di Coronavirus che ha messo in ginocchio un’economia già provata.
Tutte queste difficoltà e incertezze, che hanno messo in forse fino all’ultimo l’effettiva possibilità per il Pontefice di raggiungere un Paese dove tra l’altro la sicurezza non può essere garantita al cento per cento, rappresentano esattamente la ragioni per cui Francesco desidera fortemente questo viaggio e ha fatto di tutto, negli ultimi anni, per renderlo possibile. Una visita sognata da Giovanni Paolo II, che dovette alla fine rinunciarvi a causa di ragioni geopolitiche – erano gli anni dell’embargo al dittatore Saddam Hussein – e che ora sarà la prima di un Pontefice nella Terra dei due fiumi.
«Accogliere Papa Francesco a Mosul, dove abbiamo vissuto l’inferno dell’Isis, sarà per noi una ventata di speranza, ci aiuterà ad avere ancora fiducia in un Iraq plurale». Omar Mohammed non trattiene la gioia. Professore universitario di storia, nei tre anni di occupazione della città da parte dei tagliagole del Califfato nero (fino al settembre 2017) non smise mai di denunciare sul suo blog, con lo pseudonimo di Mosul Eye, l’agonia dell’antica Ninive, luogo simbolo di convivenza di cui i fondamentalisti volevano piegare lo spirito bruciandone le biblioteche e silenziandone le voci libere. «L’Isis non è riuscito a cancellare la nostra identità, ma le ha inferto duri colpi e oggi ci troviamo ad affrontare nuove sfide», racconta il professore, musulmano sunnita. «Se da una parte la ricostruzione è in atto e l’economia si sta lentamente rimettendo in moto, dall’altra l’area di Mosul e della Piana di Ninive è ora controllata dalle milizie sciite vicine all’Iran, in un sistema corrotto e asfissiante che ostacola il pensiero critico e non ci permette di ripartire, tra l’altro soffiando di nuovo sul fuoco del risentimento dei sunniti».
Per questo Mohammed resta convinto dell’importanza di operare sul piano culturale per seminare una mentalità aperta tra i giovani. «Sono in contatto costante con l’arcivescovo caldeo Najib Mikhail Moussa, che mise in salvo dalla furia dei fondamentalisti un enorme patrimonio di manoscritti cristiani antichi, e con i suoi confratelli domenicani che, nel loro impegno di ristrutturazione della chiesa di Nostra Signora dell’Ora, stanno realizzando anche un centro socio-culturale aperto a ragazzi cristiani, musulmani, yazidi…».
Il restauro del luogo di culto che sorge nel cuore della città vecchia – lo scorcio del suo campanile a fianco del minareto di al Hadba è uno dei più noti del quartiere storico – rientra nel progetto Unesco, finanziato dagli Emirati Arabi, che comprende anche la ricostruzione della chiesa siro-cattolica di al Tahera e quella della celebre moschea di al Nouri, in cui l’autoproclamato califfo al Baghdadi annunciò, nel giugno 2014, la nascita dello Stato Islamico. Ma altrettanto importante è la tranche dell’intervento, sostenuta dall’Ue, grazie alla quale il convento dei domenicani diventerà fulcro di un programma di formazione professionale: il lavoro resta l’esigenza primaria da queste parti. Soprattutto per le nuove generazioni.
«Abbiamo piccoli imprenditori pronti a mettersi in gioco, start up basate sulle nuove tecnologie, iniziative accademiche interessanti: questi giovani hanno tante buone idee ma hanno bisogno di sostegno», conferma Omar Mohammed. «L’ho detto personalmente ai politici di Bruxelles, spiegando che proprio la nostra eredità culturale è una risorsa da valorizzare anche economicamente».
Certo, una vera ripartenza sarà possibile «solo in un contesto in cui siano garantite sicurezza e tolleranza. Su questo, le autorità islamiche devono avere il coraggio di esporsi, anche condannando le violenze perpetrate ai danni delle minoranze nel nome dell’islam. E io spero con tutto il cuore che la presenza di Papa Francesco incoraggi queste voci a farsi sentire»
È una speranza condivisa da molti, anche nell’ottica di vedere tornare a casa almeno una parte dei tanti fedeli fuggiti dalla loro terra storica: quella Piana di Ninive dove il Papa si recherà proprio per incoraggiare chi non si è ancora arreso all’idea di lasciare per sempre l’Iraq. Non molti: se prima del 2003 i cristiani nel Paese erano quasi un milione e mezzo, oggi si aggirano intorno alle 300-400 mila unità.
«A Bartella sono rientrate 1.200 famiglie, mentre circa 400 sono ancora profughe nel Kurdistan iracheno», racconta don Behnam Benoka. Sacerdote siro-cattolico, don Behnam è parroco in questa città dove, fino a pochi decenni fa, i nuclei cristiani erano più o meno quattromila. E poi che cosa è successo?
«Intorno al 1980 fu Saddam a portare le prime famiglie musulmane qui, a Karamless, a Qaraqosh, tutti centri tradizionalmente aramaici, cominciando una politica di cambiamento demografico che si è aggravata dopo il 2003, con l’accordo tra americani e curdi e i gruppi sciiti shabak che oggi, con le loro Forze di mobilitazione popolare (in arabo Hashd Al-Shaabi), vogliono sbarazzarsi di noi per sempre, per creare una zona sciita qui nel Nord del Paese».
E in mezzo c’è stato l’Isis… «Ma per fortuna il cosiddetto Califfato è stato sconfitto. Però, visto che proprio le milizie sciite hanno contribuito alla cacciata dei terroristi sunniti, oggi hanno ancor più mano libera di spadroneggiare. Siamo passati da un estremismo all’altro», commenta sconsolato don Behnam.
Le pressioni si manifestano in vari modi nella vita quotidiana: «Molestano donne e bambini, sparano davanti alle chiese, aprono illegalmente attività commerciali rubando opportunità di lavoro ai locali cristiani… E poi cercano di accaparrarsi i terreni, costruiscono abusivamente migliaia di case e appartamenti, con la complicità delle autorità locali che sono tutte vicine agli shabak. E, qualche volta, un cristiano viene ammazzato o sparisce. Ma visto che si tratta di una persecuzione silenziosa, nessuno ne parla».
Il sacerdote iracheno spiega che il ritorno è difficile a causa di questa insicurezza, della mancanza di opportunità professionali e anche di un trauma ben lontano dall’essere guarito. «Per chi ha provato il terrore del fondamentalismo, è uno shock vivere in un contesto che è stato forzatamente e rigidamente islamizzato, con le nuove moschee da cui il richiamo alla preghiera risuona ad altissimo volume giorno e notte, con la città che in occasione delle feste religiose sciite si riveste tutta di nero o di verde, con i manifesti dell’ayatollah iraniano Khamenei e dei miliziani uccisi che tappezzano tutti i muri, anche quelli dei siti archeologici cristiani. Finché qualcuno continua a seminare ideologie intolleranti, è impossibile ricostruire la fiducia».
Eppure, la speranza non si spegne. E, a sua volta, si nutre di piccoli segni, come le chiese riedificate, che risuonano di nuovo degli antichi canti in aramaico. Su quella di Qaraqosh, che il Papa visiterà, è appena stata collocata una statua della Madonna realizzata da un noto artista cristiano locale.
«Tutti qui speriamo che il Santo Padre, che in questi anni ci ha sempre sostenuti, anche materialmente, possa parlare dei nostri problemi con i governanti locali e spingerli a trovare soluzioni da cui dipende la sopravvivenza stessa dei fedeli di Gesù in questa zona».
Molti di essi si trovano ancora oltre il confine con la regione autonoma del Kurdistan, dove si erano rifugiati, senza contare quelli – almeno 55 mila – che da lì sono definitivamente espatriati, perlopiù in Occidente.
Padre Samir Youssef, che è parroco a Enishke e si prende cura di altri cinque villaggi dell’eparchia caldea di Amadiya-Zakho, ne ha accolti migliaia. «Qui erano già arrivati i profughi in fuga dalla guerra in Siria, poi, al tempo dell’Isis, è stata la volta dei cristiani e degli yazidi iracheni. Li abbiamo sistemati nelle parrocchie, nelle chiese e negli asili, negli hotel, nelle vecchie case disabitate. Fuggivano nel cuore della notte e il mattino dopo arrivavano qui, disperati, senza più nulla se non i vestiti che avevano indosso», ricorda padre Samir. «Nel caso degli yazidi, che erano rimasti bloccati per settimane sul monte Sinjar, non avevano nemmeno le scarpe».
Per accogliere, nutrire, scaldare questa gente «fondamentale è stata la macchina della solidarietà che si è messa in moto subito e non si è mai fermata. Grazie anche all’aiuto del Pime attraverso AsiaNews, ancora oggi a Enishke e nei dintorni distribuiamo ogni mese più di 240 pacchi alimentari, non solo per i profughi ma anche per i tanti bisognosi, aumentati con la pandemia di Coronavirus. Paghiamo il kerosene, i farmaci, sosteniamo gli studi di centinaia di studenti, anche universitari… Grazie alla Provvidenza, che mi sorprende ogni giorno, cerchiamo di essere segno dell’amore di Dio, nonostante l’odio e la violenza».
Che, purtroppo, anche qui è all’ordine del giorno. «Visto che siamo molto vicini al confine con la Turchia, subiamo gli effetti dello scontro tra i militanti del Pkk e l’esercito turco, i cui raid provocano continuamente vittime civili innocenti -, racconta padre Youssef -. Per questo il Papa, che porterà una parola di pace, è così atteso non solo dai cristiani ma da tutte le comunità».
Senza dubbio, il messaggio di Francesco avrà un valore particolare per le tante minoranze che storicamente abitano la Mesopotamia. Ad esserne convinto è Saad Salloum, giornalista e professore associato di Scienze politiche all’università al Mustansiriyya a Baghdad, che proprio alla tutela della pluralità irachena ha dedicato anni di studio e di impegno attraverso la Fondazione Masarat, che presiede. «Quindici anni fa, quando abbiamo cominciato a pubblicare la nostra rivista, ci sentivamo spesso chiedere: “Ma perché vi occupate delle diverse comunità? Siamo un solo popolo, lavoriamo per redigere una nuova Costituzione o per organizzare le elezioni!”. Ma poi, dopo l’ascesa dell’Isis con i suoi orrendi crimini contro le minoranze, la gente ha cominciato a capire l’importanza di quello che facevamo. A chiedersi: chi sono questi yazidi? A conoscere i turkmeni, i kakai, i mandei, i bahai, oltre agli ebrei e le varie confessioni cristiane presenti nel Paese… Penso che oggi ci sia una chance di promuovere la pluralità dell’Iraq, anche a livello di azione politica».
Una cosa, però, è sapere che esistono tanti gruppi, etnici e religiosi, un’altra è fidarsi reciprocamente. Salloum, impegnato a vari livelli per il dialogo tra le fedi, lo sa bene. «Dopo le violenze di questi anni, la ricostruzione del tessuto sociale è un cammino lungo e parte dai giovani. Per questo, insieme a varie istituzioni, ho promosso percorsi per creare, attraverso l’incontro e l’impegno condiviso tra ragazzi e ragazze di differenti background, centinaia di “ambasciatori del dialogo” che, in tutte le aree del Paese, portino avanti l’idea di un Iraq oltre i settarismi. Lo stesso sognato dai protagonisti delle manifestazioni dell’ottobre 2019, la cui voce, che la repressione ha cercato di zittire nel sangue di centinaia di vittime, sarà sicuramente rilanciata dal Papa. Che, anche in occasione dell’incontro interreligioso nel luogo di origine del comune patriarca Abramo, valorizzerà gli sforzi di tutti quelli che credono nel dialogo come unica chiave per il futuro dell’Iraq».

IL VIAGGIO
Una palma, il Tigri e l’Eufrate e una colomba a fianco del motto “Siete tutti fratelli”. È il logo del viaggio del Papa in Iraq, in programma dal 5 all’8 marzo. Tra le tappe Baghdad, Ur – legata alla memoria di Abramo -, Erbil, nel Kurdistan iracheno, Mosul e Qaraqosh, nella Piana di Ninive e Najaf per l’incontro con le autorità sciite.
LA SERATA IN STREAMING
Al viaggio di Papa Francesco in Iraq sarà dedicata la serata del 3 marzo dei “mercoledì del Pime”. Alle 21 sul canale YouTube del Centro Pime dialogheremo con don Benham Benoka dalla Piana di Ninive sulle attese dei cristiani dell’Iraq a poche ore ormai dall’arrivo di Papa Francesco.
LA CAMPAGNA
Grazie alla Campagna di AsiaNews e Fondazione Pime “Adotta un cristiano di Mosul”, lanciata nell’agosto 2014, sono stati inviati per i cristiani sfollati nel Kurdistan iracheno oltre due milioni di euro. La raccolta è ancora aperta perché i bisogni restano tanti, come raccontiamo in queste pagine.
Per aiutare: vedi donazioni.pimemilano.com Fondi ed emergenze – prog. AN 02 Adotta un cristiano di Mosul

27 febbraio 2021

Iraq, nunzio apostolico positivo a Covid: doveva accompagnare il Papa


 A quanto apprende l’Adnkronos da fonti del Vaticano il nunzio apostolico in Iraq è risultato positivo al Covid. Il nunzio osserverà ora la quarantena.
Mons. Mitja Leskovar avrebbe dovuto accompagnare il Pontefice nelle tappe dell’impegnativo viaggio in Iraq dal 5 all’8 marzo. Leskovar, sempre a quanto apprende l’Adnkronos da fonti del Vaticano, non dovrebbe osservare l’isolamento nei locali della nunziatura ma sarebbe stato trasferito già in un’altra sede.
Di certo non potrà accompagnare, come accade in tutti i viaggi internazionali dei Papi, Bergoglio nelle tappe del viaggio. Martedì prossimo il Vaticano ha organizzato un briefing nel quale verranno dati tutti i ragguagli del viaggio che il Pontefice desidera fortemente fare per non deludere il popolo iracheno che già in passato aveva atteso invano la visita di Giovanni Paolo II.
Nei tre giorni in Iraq, Bergoglio toccherà Baghdad, Najaf, Ur, Erbil, Mosul e Qaraqosh, pronunciando quattro discorsi, tenendo due omelie e un Angelus.

«Noi, liberati ma ancora oppressi da capi politici e religiosi»

Nico Spuntoni
26 Febbraio 2021

"Salvo variazioni".
Due parole che rendono bene l'idea del clima d'incertezza in cui la pandemia ha trascinato le agende di tutti, compresa quella del Papa.
Nell'ultimo bollettino della Sala Stampa della Santa Sede risalente al 18 febbraio, infatti, l'annuncio dell'imminente viaggio papale in Iraq è stato inframmezzato dall'inserimento di questa formula che ancora non toglie del tutto dal tavolo la possibilità di un annullamento. Il coprifuoco imposto per contenere l'aumento dei contagi e la ripresa dei razzi probabilmente filo-iraniani che non ha risparmiato la zona internazionale della capitale rendono ad alto rischio la prima visita all'estero dopo lo scoppio dell'emergenza sanitaria.
A metà novembre, come avviene regolarmente nei preparativi per i viaggi papali, funzionari della gendarmeria e dei servizi italiani si sono recati in loco per studiare il piano sicurezza insieme ad i colleghi iracheni. Nel frattempo, però, la fragile tregua che durava da giugno 2019 è stata interrotta lo scorso 21 gennaio dal duplice attentato che ha insanguinato il mercato della capitale di piazza Tayaran, provocando 32 morti. Anche alla luce di questa situazione interna tutt'altro che rosea, le comunità cristiane dell'Iraq sono molto grate al Santo Padre per la determinazione con cui sta dimostrando di voler portare comunque a compimento il viaggio annunciato.
Sono quasi commoventi le immagini che arrivano da Qaraqosh, quarta tappa del tour papale, con le suore ed i parrocchiani impegnati a pulire il pavimento della chiesa di Santa Maria al-Tahira, occupata e devastata dall'Isis nel 2014 e ricostruita a tempo di record dopo la liberazione arrivata due anni più tardi. In cima al nuovo campanile è stata eretta una statua di Maria che svetta su questo villaggio della Piana di Ninive dove la presenza dei cristiani è attestata sin dal VII secolo d.C. L'arrivo del Papa era inatteso dalle comunità tornate dopo la liberazione che si aspettavano di vederlo solo a Baghdad.
Francesco, invece, ha stupito tutti ed ha scelto di fare tappa anche a Qaraqosh, oltre che ad Erbil e Mosul.
Don Aisen Elia Barbar, primo salesiano di rito caldeo iracheno, ha spiegato alla Nuova Bussola Quotidiana che i cristiani locali sono pieni di gioia per l'imminente viaggio papale perché lo leggono come un segnale di speranza. E di speranza hanno davvero bisogno: il cristianesimo rischia di scomparire da queste terre in cui è presente da sempre ed i numeri che si leggono sulla presenza cristiana, già di per sé spaventosi, potrebbero essere persino al ribasso.
Don Aisen, nato e cresciuto a Baghdad, ci porta come esempio il destino dei suoi parenti: "La mia era una famiglia numerosa, adesso ho solo una sorella in Iraq e tutti gli altri sono emigrati. Per farsi un'idea dell'attuale situazione è sufficiente pensare che due anni fa, prima di venire in Italia, ero viceparroco in Libano ed avevo a che fare con 3000 famiglie irachene".
L'Isis è stato sconfitto, ma non sempre la liberazione ha favorito il ritorno dei profughi cristiani che si ritrovano ora le case dei villaggi d'origine occupate dalle milizie paramilitari del Pmf. Per questo, accanto alla gioia per l'arrivo di Francesco, l'altro stato d'animo che prevale nei cristiani d'Iraq è la diffidenza nei confronti delle parole di benvenuto che gli stanno rivolgendo in questi giorni i capi politici e religiosi sciiti.
Don Aisen ci racconta che in molti persiste la paura che la classe politica locale, accusata di non aver fatto nulla per impedire l'esodo dei cristiani e di non fare nulla per favorirne il ritorno, possa strumentalizzare la visita del Papa e la sua disponibilità al dialogo per presentare al mondo l'immagine di un Iraq sicuro ed accogliente per le minoranze religiose. Un Iraq che, purtroppo, non corrisponde alla realtà.
"Ammiro molto il Papa per la volontà ed il coraggio di visitare il mio Paese, va assolutamente ringraziato per questo", ci dice il salesiano confidando il suo dispiacere, invece, per l'atteggiamento dei capi religiosi e politici iracheni che incontrerà e che si stanno sperticando in saluti di benvenuto, pur avendo sempre dato prova di disinteresse per la sorte dei cristiani dell'Iraq.
"Credo che se potessero emigrare tranquillamente e senza rischi, tutte le famiglie cristiane rimaste abbandonerebbero la nostra terra e difatti, a cinque anni dalla sconfitta dell'Isis, sono molto poche quelle che hanno scelto di tornare".
Don Aisen ha un ricordo nitido delle prime ondate migratorie a seguito dell'avanzata degli jihadisti nel Nord perché nel 2014 era stato inviato a Edril e si ritrovò ad accogliere i profughi dei villaggi cristiani attorno a Mosul: "Fu una doccia gelata per noi, non ci saremmo mai aspettati di vedere quei villaggi occupati perché non avevano una posizione strategica ed erano abitati da persone pacifiche", racconta il salesiano, arrivando alla conclusione che se l'Isis decise di occuparli fu esclusivamente per via della loro connotazione culturale e religiosa.
L'Iraq che dal 5 all'8 marzo accoglierà il Papa, dunque, ha il volto e l'anima ancora deformate dai conflitti. Francesco sarà il primo pontefice a mettere piede nel Paese mediorientale, realizzando un sogno precedentemente coltivato da San Giovanni Paolo II. Proprio la figura di Wojtyła resta ancora oggi una delle più ammirate tra i cristiani locali (e non solo) grazie alla sua netta presa di posizione contro l'intervento militare nel 2003, una delle ultime battaglie combattute in vita dal Papa Santo. "Lui - ricorda don Aisen - sapeva che la guerra non porta frutto e che avrebbe distrutto tutto. E' sempre la comunità più debole a subire di più le conseguenze della guerra e in Iraq, la comunità più debole, è quella dei cristiani".

Francesco nella terra di Abramo

By RAI

DOMENICA
28 Febbraio
Ore 15.15

La prima volta di un Papa in Iraq, la prima volta di un Papa nella terra di Abramo. Domenica 28 febbraio alle 15.15, a pochi giorni dal viaggio di Francesco in Iraq, previsto dal 5 all’8 marzo, Rai Premium (canale 25 del digitale terrestre) propone in prima visione assoluta “Francesco nella terra di Abramo”, un reportage realizzato da Rai Vaticano che, attraverso una serie di interviste a personalità del mondo ecumenico, religioso, sociale e geo-politico, ci aiuterà a conoscere e comprendere l’importanza di questo storico viaggio del Papa in una terra così tormentata dal terrorismo.
Fratellanza fra tutti: esseri umani e religioni.
Inseguendo quest’idea Papa Francesco si recherà nella piana di Ur dove partì Abramo, padre nella fede di tutti: ebrei, cristiani, mussulmani.
A Najaf il Santo Padre incontrerà l’imam Al-Sistani, leader spirituale degli sciiti in Iraq e nel mondo, ponendo le basi per un ponte - dopo quello con i mussulmani sunniti - anche con gli sciiti.
Nel nord dell’Iraq, nella piana di Ninive che l’Isis scelse come proprio territorio uccidendo e cacciando tutti i cristiani, inoltre, la testimonianza di Padre Karam, parroco di una chiesa in quella zona, dove piano piano i cristiani stanno tornando.
Nel reportage anche la voce del Patriarca di Babilonia dei Caldei, il Cardinale Sako e le analisi geo-politiche dei nostri ambasciatori in Iraq e Giordania: tutti protagonisti che lavorano ogni giorno in quella terra tormentata da guerre e terrorismo.

Entretien exceptionnel avec le cardinal Louis Raphaël Sako

By KTO TV


« Pendant 18 ans nous avons entendu le bruit des armes. Nous voulons entendre autre chose: les paroles de réconfort et d'espérance du pape ».
À quelques jours de l'arrivée du Pape en Irak, le Cardinal Sako, Patriarche chaldéen, détaille la situation du pays et ce que vivent les chrétiens.

Papa in Iraq: card. Sako (patriarca), “a Ur il pontefice pianta il seme della fraternità. A noi innaffiarlo con la preghiera”


“Nella terra di Abramo c’è qualcosa di speciale e distintivo che ci travolge con i suoi doni ed è la fede fraterna. Cristiani, musulmani, ebrei e altri condividono l’autenticità della fede di Abramo in un solo Dio e dovrebbero rispettare la bellezza di essere diversi nell’esprimerlo. Tale diversità è ricchezza piuttosto che motivo di disaccordo o litigio”.
Così il patriarca caldeo di Baghdad, card. Louis Raphael Sako, descrive l’incontro interreligioso che si terrà esattamente fra una settimana a Ur dei caldei, una delle tappe più attese del viaggio apostolico di Papa Francesco in Iraq (5-8 marzo).
All’incontro, definito da Mar Sako “fraterno, umano e spirituale” parteciperanno rappresentanti delle religioni in Iraq, tra i quali anche un rappresentante della piccola comunità ebraica della capitale irachena.
In una nota diffusa poco fa dal Patriarcato caldeo, il cardinale ricorda che “la nostra missione come leader spirituali e membri della famiglia abramitica è convogliare tutti i nostri sforzi per il bene dell’umanità; aumentare la consapevolezza dei valori di amore, tolleranza, solidarietà, cooperazione, rispetto per la vita e l’ambiente, raggiungere la pace e la stabilità; mettere fine a disaccordi, conflitti e guerre assurde che portano solo morte e distruzione”.
Da qui l’auspicio che “questa storica visita possa avere impatto su tutti gli iracheni e gli abitanti della regione per camminare verso una fraternità sentita e consolidata che garantisca dignità ad ogni essere umano.
La forza della nostra fede e le nostre preghiere sono fattori essenziali per il cambiamento. Nella terra di Abramo, Papa Francesco oggi pianta il seme della fraternità e dell’amore che dobbiamo innaffiare e pregare affinché Dio Onnipotente lo coltivi e lo faccia crescere”.

Chaldean Patriarchate
The importance of Pope Francis’ visit to Ur of Chaldea and the interreligious meeting

The importance of Pope Francis’ visit to Ur of Chaldea and the interreligious meeting

By Chaldean Patriarchate
Cardinal Louis Raphael Sako

Next Saturday, the sixth of March, that is, like today, Pope Francis will visit the Chaldean city of Ur in the province of Dhi Qar. This visit has its significance, and impact inside and outside Iraq. Its importance stems from the difficult and complex conditions that Iraq and the countries of the region live in, and from the places he visits and the people he will meet. It is an indication of the openness of Iraq to the to the global arena.
Representatives of the religions in Iraq will participate in this fraternal, human and spiritual meeting.
Pope Francis has been highlighting human fraternity and encouraging those in charge to enhance it in the midst of regional conflicts and struggles. However, here on the land of Abraham there is something special and distinctive, which is the brotherly faith that overwhelms us with its gifts. Christians, Muslims, Jews and others share the authenticity of Abraham’s belief in one God, and they should respect the beauty of being different in expressing it. Such diversity is richness rather than a reason for disagreement or fighting.
 In fact, we use many times in our prayers the same vocabulary: love, mercy, and forgiveness for sins in addition to retrieval from diseases and dangers. Even if we say it differently, the meaning remains the same as in the Christian prayer “Our Father in Heaven, and Muslim prayer in Surat Al-Fatihah.
Our mission as spiritual leaders and members of Abraham family is: to direct all our efforts for the good of mankind; to raise awareness of the values ​​of love, tolerance, solidarity, cooperation, respect for life and environment, achieve peace and stability; and to cease disagreements, conflicts and absurd wars that only bring death and destruction.
This historic visit that happens in such an exceptional circumstance, should impact all Iraqis and regional inhabitants, to change positively towards a heartfelt fraternity and consolidated coexistent that guarantees dignity for every human being. The strength of our faith and our prayers are essential factors for change.
 On the land of Abraham, Pope Francis today implants the value ​​of fraternity and love that we must water, and pray for Almighty God to nurture it.

26 febbraio 2021

In Iraq's Biblical lands, scattered Christians ask 'should I stay or go?'

John Davison

A jihadist message, “Islamic State endures”, is still graffitied on the front gate of Thanoun Yahya, an Iraqi Christian from the northern city of Mosul, scrawled by Islamist militants who occupied his home for three years when they ruled the city.
He refuses to remove it, partly in defiance of the militants who were eventually beaten by Iraqi forces, but also as a reminder that Iraq’s scattered and dwindling Christian community still lives a precarious existence.
“They’re gone, they can’t hurt us,” said the 59-year-old, sitting in his home which he reclaimed when Islamic State was driven out in 2017. “But there aren’t many of us left. The younger generation want to leave.”
The stark choice facing many Christians in Muslim-majority Iraq will be highlighted during the first ever papal visit to the Biblical nation. Pope Francis’s trip runs from March 5-8 and will include a stop in Mosul.
Yahya sold the family’s metalwork shop to pay a ransom for his brother, kidnapped by al Qaeda militants in 2004 at a time when Christians were being abducted and executed.
Since then, he has watched siblings leave for foreign countries and work and income dry up.
Of 20 relatives who once lived in the neighbourhood, only his family of six remain.
Iraq’s Christians have endured unrest over centuries, but a mass exodus began after the U.S.-led invasion of Iraq in 2003 and accelerated during the reign of Islamic State, which brutalised minorities and Muslims alike.
Hundreds of thousands left for nearby areas and Western countries.
Across Iraq’s northern Nineveh Plains, home to some of the oldest churches and monasteries in the world, the remaining Christians often live displaced in villages that fell easily to Islamic State in 2014 or in enclaves of bigger cities such as Mosul and the nearby self-run Kurdish region.
The Islamists’ rule over almost a third of Iraq, with Mosul as their capital, ended in 2017 in a destructive battle with security forces.

‘ONLY GOD CAN HELP’
Physical and economic ruin remain. Iraqi authorities have struggled to rebuild areas decimated by war, and armed groups that the government has not been able to control vie for territory and resources, including Christian heartlands.
Christians say they are left with a dilemma - whether to return to damaged homes, resettle inside Iraq or migrate from a country that experience has shown cannot protect them.
“In 2014, Christians thought their displacement would last a few days,” said Cardinal Louis Sako, head of Iraq’s Chaldean Catholic Church.
“It lasted three years. Many lost hope and migrated. There’s no security or stability.”
Iraq’s indigenous Christians are estimated to number around 300,000, a fifth of the 1.5 million who lived in the country before the 2003 invasion that toppled Sunni Muslim leader Saddam Hussein.
Christians were tolerated under Hussein, but singled out for kidnappings and killings in the communal bloodshed of the mid-2000s onwards.
Pope Francis is to visit Iraq on an historic trip that eluded his predecessors. He will say a prayer for the victims of conflict at a site in Mosul where old churches lie in ruins, once used as religious tribunals by Islamic State.
Christians welcome the visit, but do not believe it will improve their lot.
“The pope can’t help us, only God can,” Yahya said.

DISPLACED, DISTRUSTFUL
Yahya’s family, who fled to Iraq’s northern Kurdistan region during Islamic State’s rule, is one of just a few dozen that have returned to Mosul out of an original population of some 50,000 Christians, according to local clergy.
His two teenage sons help out at the local church, the only one fully repaired in Mosul, which fills to about half its modest capacity on Sundays.
Firas, his eldest, finds little more than a day a week of casual labour and sees no future in Mosul, Iraq’s second-largest city.
“If I want to marry, I’ll have to leave. Christian women from here are displaced to other areas and don’t want to come back,” he said. “Ideally, I’d go to the West.”
The experience of Islamic State, which told Christians to convert, pay a tax or be killed, and the inability of Iraqi and Kurdish security forces to prevent the group marauding through their hometowns, has left many Christians distrustful of any but their own.
The nearby Christian town of Hamdaniya boasts its own militia, which local officials say is necessary because of the proliferation of Shi’ite Muslim paramilitary groups which seek control of land, and Islamic State militants who remain in hideouts across northern Iraq.
“If there were no Christian militia here, no one would come back. Why should we rely on outside forces to protect us?” said a local militia leader, who requested anonymity.
Nearly 30,000 Christians, half of Hamdaniya’s population, have returned, including a small number from abroad, and began rebuilding infrastructure thanks to foreign aid. It is a rare bright spot.
In the neighbouring village, Christian leader Sako said most Christians were unable or unwilling to return out of fear of a local Shi’ite militia, and because non-Christians had bought their property in their absence.
Some have showed interest in resettling in Hamdaniya, but local officials generally reject this, fearing it would weaken Iraqi Christians’ presence.
“If people move here from their own villages, it empties those areas of Christians,” said Isam Daaboul, the mayor of Hamdaniya.
“This threatens our existence in areas we’ve been for generations.”

Reporting by John Davison; Editing by Mike Collett-White

Monteduro (ACS): «Realizzati due progetti per i cristiani della Piana di Ninive grazie alla Lamborghini donata dal Papa»


Papa Francesco è atteso con impazienza in Iraq. I cristiani perseguitati e oppressi del Paese confidano infatti in un incoraggiamento e in una guida spirituale. Molti di loro hanno tuttavia già sperimentato con modalità insolite l'aiuto del Santo Padre molto prima della sua visita.
Nel novembre 2017 Papa Francesco ha ricevuto in dono dalla casa automobilistica Lamborghini un numero unico del modello Huracán. Il Santo Padre, dopo averne autografato il cofano, ha deciso di vendere all'asta l’autovettura per destinare il ricavato in beneficenza.
Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) è stata una delle organizzazioni alle quali il Pontefice ha devoluto la somma raccolta. Alla fondazione pontificia sono stati infatti affidati 200.000 euro che ACS, su indicazione del Santo Padre, ha destinato al sostegno delle comunità cristiane che in Iraq, nella Piana di Ninive, dopo la disarticolazione militare del sedicente Stato Islamico, avevano immediatamente espresso il desiderio di rientrare nei propri villaggi.
Sono stati «realizzati due progetti a sostegno dei cristiani della Piana di Ninive grazie alla Lamborghini donata da Papa Francesco», commenta Alessandro Monteduro, direttore di ACS Italia.
«Il primo è la ricostruzione della sala polivalente siro-cattolica intitolata alla Vergine Maria a Bashiqa, totalmente distrutta dai jihadisti dell’ISIS. Dei 200.000 euro donati dal Papa, ACS ha destinato a questa iniziativa 166.000 euro, ai quali sono stati aggiunti altri 124.000 euro offerti dai benefattori della Fondazione, per un totale di 290.000 euro».
La seconda iniziativa è la ricostruzione della scuola materna siro-cattolica anch'essa intitolata alla Vergine Maria a Bashiqa, parzialmente devastata dagli estremisti islamici. «Dei 200.000 euro donati dal Papa, ACS ha destinato a questa iniziativa 34.000 euro. L’edificio, che accoglierà circa 70 bambini, è ormai completato, anche se le attività non hanno avuto ancora inizio a causa della pandemia da Covid-19», aggiunge Monteduro.
«Siamo felici di terminare i lavori della scuola materna Vergine Maria, il che aiuterà e incoraggerà i nostri bambini a tornare a Bashiqa e a studiare ancora», commentano mons. Yohanna Boutros Mouche, vescovo siro-cattolico di Mosul, e Don Rezqallah Alsimanni, parroco della chiesa della Vergine Maria.
Secondo gli ultimi dati di ACS, aggiornati al 12 gennaio 2021, oltre il 45% delle famiglie originariamente residenti nella Piana di Ninive, e scacciate dalla violenza islamista, è tornato a casa, grazie anche al grande sforzo di solidarietà profuso dalla comunità cattolica internazionale, a cominciare dai benefattori di ACS. Le case ricostruite con il contributo di diverse organizzazioni sono quasi il 57% di quelle distrutte. «Con i due progetti descritti - conclude Alessandro Monteduro - Aiuto alla Chiesa che Soffre ha voluto onorare la donazione del Santo Padre ponendosi concretamente a fianco dei cristiani aggrediti dall’ISIS, ed è lieta che essi siano stati terminati a ridosso dello storico Viaggio apostolico dello stesso Francesco in Iraq».

Preghiera per la settimana prima della visita del Papa (5-8 marzo 2021)



Signore, ti affidiamo,il viaggio in Iraq di papa Francesco dal 5 marzo. Che il tuo Santo Spirito sia nei suoi gesti e parole, e nei cuori di chi lo incontra e lo ascolta, perche’ circolino i doni dell’incoraggiamento, della consolazione, dell’incontro tra etnie, culture e religioni diverse e l’impegno di compiere passi coraggiosi di riconciliazione e collaborazione per il bene comune. Alla chiesa in Iraq, sia donato conforto, luce e forza per non stancarsi di tessere nuovi legami di fratellanza e pace. Signore, libera l’Iraq e i paesi del Medio Oriente, dall’odio e dalla violenza.

25 febbraio 2021

Meeting Pope Francis permitted for Muslims, head of Kurdish Islamic Scholars Union says ahead of papal trip

Halgurd Sherwani
February 24, 2021

Ahead of Pope Francis’s historic visit to Iraq and the autonomous Kurdistan Region, the head of Islamic Scholars Union in the Kurdistan Region said that is it permitted for Muslims to meet the pontiff as it is part of respecting and welcoming a guest regardless of his faith.
Mullah Abdulla Waysi spoke with Kurdistan 24 on Tuesday about the upcoming apostolic visit of the head of the Roman Catholic church and its importance to the country.
“Meeting the pope as a guest is allowed and considered part of respecting a guest,” as part of the Muslim faith, Waysi said, as the primary aim is not practicing a religious ritual.
Waysi further said that the Muslim Prophet Mohammad himself regularly met and spoke with religious leaders from other faiths during his life.
The Vatican announced that Pope Francis is scheduled to hold Mass in the Kurdistan Region’s capital Erbil Staudium of Franso Hariri as well as meeting top officials during his scheduled visit to Iraq that begins on March 5.
“Holding the Mass in Erbil is a message that religious coexistence and security and safety provisions are present in the Kurdistan Region compared to the rest of the country,” Waysi said.
Roughly 4,500 people have so far registered to attend the mass at Franso Hariri stadium on March 7, according to one organizer.
An organizer previously told Kurdistan 24 that the majority of applicants are Christians, but others can register to see the pope as well.
Waysi asked the pope to use his remarkable position on the global stage to “further support” the Kurdistan Region and its cause of independence.
Pope Francis is also expected to travel to the city of Qaraqosh in Nineveh province and to lead prayers at a church in Mosul during his trip, the agenda noted.
The visit is the first of its kind by any pope to Iraq after Pope St. John Paul II's scheduled trip in the year 2000 was cancelled.
In mid-2019, Pope Francis announced that he intended to embark on his first visit to Iraq the following year, but it was postponed amid regional tensions and ongoing anti-government protests across southern and central parts of the country. The coronavirus pandemic forced the pope to cancel all trips abroad last year so the Iraq visit will be his first overseas journey since November 2019.

Editing by Joanne Stocker-Kelly

Iraq’s struggling Christians hope for boost from pope visit

By Crux
Mariam Fam
Febraury 24, 2021

Nasser Banyameen speaks about his hometown of Qaraqosh in the historical heartland of Iraqi Christianity with nostalgia. Before Islamic State group fighters swept through the Nineveh Plains in northern Iraq. Before the militants shattered his sense of peace. Before panicked relatives and neighbors fled, some never to return.
Iraq’s Christian communities in the area were dealt a severe blow when they were scattered by the IS onslaught in 2014, further shrinking the country’s already dwindling Christian population. Many hope their struggle to endure will get a boost from a historic visit by Pope Francis planned in March.
Among the places on his itinerary is Qaraqosh, where this week Vatican and Iraqi flags fluttered from light poles, some adorned with the pope’s image.
Francis’ visit, his first foreign trip since the coronavirus pandemic and the first ever by a pope to Iraq, is a sign that “You’re not alone,” said Monsignor Segundo Tejado Muñoz, the undersecretary of the Vatican’s development office. “There’s someone who is thinking of you, who is with you. And these signs are so important. So important.”
The IS juggernaut and the long war to drive the militants out left ransacked homes and charred or pulverized buildings around the north. But the biggest loss perhaps has been the people. Traditionally Christian towns across the Nineveh Plains virtually emptied out and, by some of the widely varying estimates, fewer than half of the Christians who fled have returned.
The Vatican and the pope have frequently insisted on the need to preserve Iraq’s ancient Christian communities and create the security, economic and social conditions for those who have left to return.
To do that, the Vatican for years has helped coordinate a network of Catholic non-governmental organizations providing help in the field in Iraq and other countries, including in education, health care and reconstruction. The aid is non-denominational — Muslims are helped as well as Christians — and the overall hope is that the delicate interfaith balance can be preserved and strengthened. The pope’s March 5-8 visit will also have a strong interfaith component.
“People want to look for a better future for their families, so you can’t stop them if they have the intention of going somewhere else,” Tejado said. “But at least we try to create the conditions they might return.”
That could be difficult.
Many Christians who fled the IS advance have either stayed in Iraq’s Kurdistan region or started new lives abroad. While those who have returned have been rebuilding fractured but vibrant communities with resolve, some still feel vulnerable and eye better lives elsewhere.
Banyameen returned in 2019 from the Kurdish region to his house in Qaraqosh, also known as Bakhdida. But many family members who fled like him ended up in Australia and Germany. IS sleeper cells still carry out attacks in parts of Iraq, so he worries about the specter of a militant resurgence, the future of his three children and Iraq’s economic and security woes.
“The homeland is the family, not the house … I feel very homesick,” he said. “When something is broken, it doesn’t go back to the way it used to be.”
Their home has been repaired, but the sight of empty or damaged ones on their street reminds his wife, Ban Saeed, of the IS reign of terror. After she gave birth to the couple’s third child in December, she wondered if it would have been better for their daughter to have been born abroad.
“If we left, I am sure their future would be better abroad, not like here,” she said. “There would be safety and I wouldn’t be scared for them when they come and go.”
In nearby Bartella, Sargon Issa said he felt the town’s spirit dim with so many familiar faces gone.
“Walking down a street, I used to salute so many people, friends and neighbors. Now, there’s hardly any of that,” said Issa. “Life is not like before. There’s no flavor to it. … Even those Christians who have returned to Bartella say they want to leave to find stability.”
He, too, would like to leave if he could; his mother tells him she wants to die in Iraq.
“I try to change her mind and tell her, ‘Let’s travel and live without worry or fear … somewhere where we wouldn’t be driven out of our homes,’” he said. “She tells me we should stay, and that God is with us.”
The numerical decline and waning clout of Iraqi Christians started before the Islamic State’s persecution of religious minorities like theirs. Christians were among groups targeted by militants amid the breakdown in security after the 2003 U.S.-led invasion that overthrew Saddam Hussein.
The Chaldean Catholic Patriarch, Cardinal Louis Raphael Sako, estimated that 1 million Christians have left Iraq since 2003 and about 500,000 remained. But there are no official figures, and estimates vary: Some put the number left at fewer than 250,000.
Without faith the government can provide security from potential violence, legal protections and economic opportunities, many Christians are wary of returning.
William Warda, co-founder of Hammurabi Human Rights Organization in Baghdad, said the Christian presence is under threat. “To this day, they don’t feel safe and secure … because the state is weak, and the rule of law is weak.”
Some Christians lament broken trust with some Muslims in neighboring villages who they believe sympathized with IS or helped pillage their homes. They are also wary of the ascension of largely Shiite militias and fearful of what they say are unfavorable demographic changes in some traditionally Christian areas.
Etched in the minds of many are the memories of the flight to escape IS, the indignities of displacement and the scenes of devastation that awaited those who returned, including burnt out churches and desecrated tombs.
As he left under cover of darkness shortly before the militants entered his town of Karamlis in 2014, Father Thabet Habeb felt pain for all that he was leaving behind. He took little besides some manuscripts, including a Bible.
“It was as if we had been expelled forever from the lands of our grandfathers.”
More than two years would pass before Habeb could set foot in the town. The smell of smoke from burnt out structures still hung in the air. In November 2016, he held prayers at the St. Adday church, the sound of broken glass crunching beneath the feet of worshippers stunned by the damage around them. Decapitated statues of Jesus and Virgin Mary stood in the scarred church that day; one woman wept bitterly.
Much reconstruction has taken place since. But so far, only about 345 of about 820 Christian families in pre-2014 Karamlis have returned, Habeb said.
“We need to restore our numbers to support the Christian presence and identity in the town,” he said.
Those who did come back make sure an ancient heritage and a way of life endure.
At St. Paul’s House for Church Services in Qaraqosh, religious paintings and musical instruments were burned and a statue of Jesus hurled to the ground, said Father Duraid Barber, the former manager.
But the house’s activities, which include religious classes and teaching the Syriac language, have been revived and even expanded.
“We decided to return and serve this wounded and pained country to the last drop of our blood,” he said. “As Christians, we believe that we are like the salt that adds flavor to food.”

Associated Press writers Nicole Winfield in Rome, Hadi Mizban in Qaraqosh and Samya Kullab in Baghdad contributed.

Iraqi priest says Pope’s visit an act of ‘bravery’ and ‘madness’

By Crux
Inés San Martín
Febaruary 24, 2021

Father Naim Shoshandy has plenty of reasons to be angry: On March 23, 2014, the terrorist organization known as Islamic State murdered his 27-year-old brother, for no other reason other than the fact that he was a Christian.
Today, he welcomes Pope Francis’s “bravery” in deciding to visit the “martyred nation” of Iraq. “The country is burning, but he is still going,” the priest told Crux over the phone. “It’s an act of bravery, for him to go to Iraq, the land of Abraham, as an apostle.”
An act of bravery, Shoshandy said, without denying it could also be considered an act of “madness.” There have been three rockets attacks in the past 10 days in Iraq, including one on the United States embassy in Baghdad, and another at a U.S. base in the airport of Erbil, the capital of Kurdistan, the autonomous northern region Pope Francis will also be visiting and using as his base to go to the Nineveh Plain. Shoshandy is from this plain, specifically Qaraqosh.
However, odds are against him being there when the pope visits: After his brother was murdered, he was forced to flee Iraq, and today lives in Albacete, Spain, where he has been the parish priest of the church of Santa Ana since 2016.
Francis will visit Erbil, Mosul and Qaraqosh on March 7.
His March 5-8 trip to Iraq also includes stops in the Plain of Ur — the homeland of the biblical patriarch Abraham — and Najaf, where he will meet with Ayatollah Ali al-Sistani. The encounter between the pontiff and one of the chief figures of Shi’a Islam will be just another landmark moment during the history-making visit, the first ever by a pope to Iraq. St. John Paul II tried to go to Iraq in 1999 to kickstart a pilgrimage that took him to the holiest sites of Christianity, but negotiations with the government of Saddam Hussein failed, and the visit never materialized.
 “We hope that this visit will open the eyes of many in Iraq, serve as a reminder that we are all siblings,” Shoshandy said. “And we also hope it will bring something of extreme importance: the hope of religious freedom,” Shoshandy, noting that the pope’s meeting with al-Sistani will be historic.
The Syriac Catholic priest was ordained Sept. 12, 2013 in the Cathedral of the Immaculate Conception in Qaraqosh, and he worked as a priest in several Iraqi parishes until he was forced to flee his diocese, threatened by ISIS. The cathedral was destroyed, but with the help of papal charity Aid to the Church in Need, it was rebuilt and is ready for the papal visit, as the pictures shared by the priest on Twitter show:

En Qaraquos la gente espera muy ilusionada la visita del Santo Padre dando los últimos retoques a la recién restaurada catedral de la Inmaculada Concepcion. Lo esperan con los brazos abiertos.
D. Naim Shoshandy –
Sacertode Iraquí pic.twitter.com/VD4ZLFakAP —
D. Naim Shoshandy
ن (@naim75839678)
February 22, 2021

He often refers to August 6, 2014, as the day of “evil and cruelty.” The memory of the bombs that covered the city and the image of himself removing the lifeless bodies of his own neighbors from under the rubble after ISIS invaded his city is still fresh in his mind.
Regardless, he has hopes for the pope’s visit: “We are all brothers, as the motto for the visit says. Hopefully, people in Iraq will understand this.”
He wants to go to Iraq for the visit, and is trying to get all his paperwork in order, but he’s afraid he could have problems reentering Spain from Iraq if he were to leave the European Union. He is not giving up, however, and until the very last day he will tell anyone he asks that “he is hoping to be in Iraq when the pope is there.” If he can’t go, he will still follow the visit from Spain, much like the hundreds of thousands of Christians forced to flee Iraq in a diaspora that began after the U.S. invasion in 2003, but which worsened in 2014, after the rise of ISIS.
 Shosandy met with the pope on March 20, 2019, in the Vatican: “My legs were shaking, and I could barely get any words out, but he grabbed my hands and told me to be at ease.” “I introduced myself as what I am: A priest from Iraq who is also a victim of Daesh [another name for ISIS],” he said. “I told him that I represent the persecuted Christians of my country, and asked him to pray for us. In his eyes I could see the reflection of his compassion with my family’s history, particularly the suffering we’ve gone through since my brother’s murder.”
The pope’s closeness, Shosandy said, is something that will be with him “throughout my life. I thank God for these moments he has gifted me with.”
This will be the pontiff’s first international trip since Nov. 2019, when he visited Japan and Thailand. He had a trip scheduled to Malta last May, but it was canceled due to the COVID-19 pandemic. When the Vatican announced the trip to Iraq last December, it did so with the warning that the international COVID-19 situation would be monitored closely. 
 Last week Iraq announced a series of restrictions, including the closure all houses of worship, until March 8, the last day of the papal visit, in an attempt to curb the spread of the coronavirus, with some 3,000 new cases reported daily. 
Over 13,295 people having died of COVID-19, in a country with a very compromised health care system due to years of war and violence. The martyred church of Iraq, Shoshandy said, welcomes the pope’s visit, and it is expected “bring support to a suffering people.”
 “From the first day of my priesthood, I have understood the meaning of pain, generally caused by silence, indifference and loneliness, suffered both during the war in Iraq, and also during the war against the coronavirus,”
the priest told Crux. “Iraq is a nation that needs the visit from the Holy Father, but when he lands in Baghdad, he won’t only be visiting Iraq: all of the Christians in the Middle East await this pilgrimage,” he said. “Everyone is very excited and happy with the visit of His Holiness,” he added. “It is a sacred visit for us, and the only cloud above it is that of the coronavirus, but everything possible is being done to ensure all are safe.”
 For instance, even though the stadium where the pope will say Mass in Erbil can comfortably host 20,000 people, only 10,000 will be allowed to attend.
 “Christians and all the people of good will in the Middle East have been living for some time in a state of doubt and fear, facing too many problems,” Shoshandy said. “But the pope comes to us to support and encourage us. We all, even those living abroad, look forward to welcoming him.”

Al Sistani, l’uomo chiave in Iraq

Elisa Pinna
24 Febbraio 2021

Durante il suo imminente viaggio in Iraq papa Francesco farà tappa nella città santa di Najaf, cara ai musulmani sciiti e dimora dell'ayatollah Al Sayyed Ali al Husseini al Sistani.
Chi è questo anziano leader religioso? E perché conta?
 Chi è il grande ayatollah sciita Al Sayyed Ali al Husseini al Sistani, il leader religioso con cui papa Francesco si incontrerà nella città santa di Najaf il prossimo 6 marzo, in uno dei momenti più significativi della sua visita in Iraq? Qualcuno potrebbe rispondere che è il vero uomo al comando in un Paese in cui i governi e le forze armate sono perennemente troppo deboli e incapaci di difendere la sovranità nazionale.
In realtà Sistani è molto di più. La sua autorità morale e il suo seguito popolare travalicano i confini dell’Iraq, facendo di questo religioso, fragile, silenzioso, ultranovantenne, un punto di riferimento per la maggioranza degli sciiti della regione, Iran compreso.
Persino l’onnipotente generale Qassem Soleimani, che dal 2014 al 2016 organizzò e guidò in Iraq la controffensiva contro l’Isis, ammetteva senza imbarazzo che l’unica persona a cui obbediva era l’ayatollah di Najaf, facendo probabilmente rabbrividire non solo il governo di Baghdad ma anche molti chierici di Qom.
Di origini iraniane, e il suo accento ancora oggi lo rivela, al Sistani è il simbolo vivente di un islam sciita che in tanti rimpiangono: una fede fatta di preghiere, di consigli ed esempi spirituali per i credenti, di compassione e solidarietà, di alterità rispetto al potere terreno.
È il «quietismo» contrapposto alla teocrazia politica degli ayatollah imposta in Iran dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Sistani raramente esce dalla sua modesta casa, che si trova in un vicolo di Najaf a due passi dalla Moschea di Alì, il sito sacro più venerato dagli sciiti di tutto il mondo, probabilmente più amato della stessa Mecca. Fuori della porta vi è sempre una fila infinita di persone. L’ayatollah le riceve seduto a gambe incrociate su un tappeto, in una stanza dalle mura disadorne; il turbante nero, la grande barba bianca, le folte sopracciglia ed occhi che cercano sempre il contatto visivo con l’ospite. Davanti a lui si accovacciano talvolta politici iracheni, capi-milizie, in passato anche generali statunitensi, ma soprattutto persone semplici alla ricerca di un conforto, di un’indicazione, di una spiegazione per piccoli o grandi eventi della vita. Sistani non fa discorsi pubblici. Quando è il caso affida i suoi messaggi ai portavoce, che li diffondono anche tramite internet. Nella recente e turbolenta storia irachena, è intervenuto solo nei momenti chiave e il più delle volte ha salvato il Paese dall’abisso.
Nel 2004, riuscì a fermare i combattimenti, scoppiati propria a Najaf tra le milizie sciite da una parte ed esercito iracheno e soldati americani dall’altra. Più tardi cercò di impedire le rappresaglie sciite contro la minoranza sunnita irachena, senza però avere altrettanto successo. Essenziale è stato il suo appello agli iracheni, nel 2014, ad unirsi per combattere insieme lo Stato islamico. Il suo soft power sembra talvolta invincibile. Negli ultimi anni ha appoggiato le proteste di piazza contro la corruzione del potere e dopo l’omicidio di Soleimani a Baghdad il 3 gennaio 2020 (deciso dal presidente statunitense Donald Trump) ha sostenuto la fine delle ingerenze esterne in Iraq. Un segnale agli Stati Uniti e, certamente, all’Iran degli ayatollah khomeinisti, ma non all’Iran della gente comune, stanca della crisi economica e della sovraesposizione internazionale del proprio Paese.
Non bisogna dunque immaginare che il Papa parli con Sistani con l’obiettivo di coinvolgere anche le autorità iraniane. Del resto i rapporti diplomatici tra Santa Sede e Iran sono buoni. Il grande ayatollah di Najaf è comunque la persona giusta per arrivare al cuore del mondo sciita. Sistani è un uomo di pace e sicuramente con Francesco affronterà il tema cruciale di come ricucire i rapporti di fiducia tra la minoranza cristiana, ormai ridotta a 200mila persone, e le componenti musulmane maggioritarie.
Il religioso è pronto a gesti coraggiosi. Nei primi mesi della pandemia di Covid-19, i cimiteri iracheni rifiutavano i morti da virus nel timore che contaminassero il suolo. I parenti erano disperati, non sapevano dove portare i loro cari. A Najaf vi è uno dei più grandi cimiteri del mondo: tutti gli sciiti vogliono farsi seppellire vicino alla Moschea di Ali, le tombe sono milioni e milioni. Ebbene, Sistani decise di dedicare uno spazio ancora inutilizzato della «Valle della pace» per accogliere coloro che nessuno voleva, i morti di Covid-19, gratis e senza guardare alla fede professata. Adesso, in quell’angolo di terra che si confonde quasi col deserto, migliaia di sciiti e di sunniti – persino qualche cristiano – riposano uno accanto all’altro.

Baghdadhope
16 giugno 2020

Papa in Iraq - Arcivescovo Warda ad ACS: "Il rispetto da parte del popolo iraacheno nei confronti dei cristani crescerà-"


Mons. Bashar Warda, arcivescovo cattolico caldeo di Erbil, ospiterà Papa Francesco il prossimo 7 marzo.
Mons. Warda commenta con Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) l’imminente viaggio apostolico in Iraq del Santo Padre con parole di speranza: «Ci auguriamo che la sua visita alla nazione sensibilizzi l’opinione pubblica in merito alla presenza dei cristiani in Iraq. Il rispetto da parte del popolo iracheno nei confronti di questa comunità crescerà. La gente in Iraq sa poco di noi. Speriamo si rendano conto che non siamo ospiti bensì abitanti originari del Paese».
In merito all’incontro del Papa con il capo degli sciiti, il Grande Ayatollah Ali Al Sistani, l’arcivescovo ha affermato: «L’Iraq ha una maggioranza sciita. Al Sistani è notoriamente considerato un uomo di pace che condanna la dilagante corruzione della nazione. L’incontro fra le due personalità avrà certamente un impatto positivo sull’idea che gli sciiti hanno di noi cristiani. L’arrivo del Papa ad Ur, venerata quale città natale di Abramo, dimostrerà che ebrei, cristiani e musulmani hanno un padre comune in Abramo».
Mons. Warda non nasconde le difficoltà della visita. «Alcuni religiosi fondamentalisti stanno assumendo sui social media un atteggiamento ostile nei confronti del viaggio del Papa. Qualsiasi cosa provenga dall’Occidente viene da loro considerata una crociata. Per questa gente il Papa è il re dei crociati che arriva nel Paese come missionario».
I giovani iracheni, tuttavia, hanno un’idea diversa di Francesco, perché «hanno notato quanto spesso e con quanta compassione il Papa ha parlato della situazione della Siria e dell’Iraq».
L’arcivescovo esclude che le minacce alla sicurezza possano indurre a posporre il viaggio previsto dal 5 all’8 marzo. «L’unica cosa che potrebbe causare un rinvio è la pandemia. Il Papa lo ha detto chiaramente. Il Papa sa dove si reca. Sta venendo deliberatamente in un’area segnata da guerra e violenza per portare un messaggio di pace. Ovviamente i nostri fedeli vorrebbero che il Papa visitasse un numero maggiore di luoghi. Ma tutti capiscono che ciò non è possibile a causa della situazione».
Il numero delle infezioni, infatti, è nuovamente aumentato sia a Baghdad sia a Erbil, e per questo «in occasione della grande Messa nello stadio di Erbil, abbiamo previsto solo 10.000 biglietti, sebbene possa ospitare 30.000 persone»
Nonostante tutte le limitazioni, afferma mons. Warda, «ognuno è emozionato per l’arrivo del Papa».
In occasione della celebrazione della Messa verrà esposta la statua della Vergine di Karemlesh. Porta i segni della barbara aggressione dei terroristi dell’ISIS, i quali le hanno mozzato le mani. In merito alla cooperazione da parte delle autorità della regione autonoma curda l’arcivescovo afferma che tali autorità «stanno trattando la sicurezza del Papa in modo molto serio, attraverso l’impiego di 10.000 addetti alla sicurezza». I mezzi di informazione, inoltre, «trasmetteranno gli eventi in alta definizione. Questo dimostra che vi è reale coesistenza qui. So che lo stesso vale per Baghdad».
Dopo la sconfitta militare dell’ISIS, e con l’aiuto dei benefattori di Aiuto alla Chiesa che Soffre, decine di migliaia di cristiani sono tornati nelle loro case, abbandonate nel 2014 a causa dell’aggressione dei jihadisti. ACS ha sostenuto la minoranza cristiana sia durante l’esilio sia nella fase di ricostruzione delle abitazioni distrutte dall’ISIS con finanziamenti di oltre 48 milioni di euro.

Papa in Iraq: Baghdad, ieri sera delegazione di Governo in visita alla cattedrale caldea di san Giuseppe


Foto Patriarcato Caldeo



Ieri sera una delegazione composta da membri della Presidenza della Repubblica, dell’ufficio del primo ministro, del ministero degli Affari esteri e della municipalità della capitale ha visitato la cattedrale caldea di San Giuseppe di Baghdad dove Papa Francesco celebrerà la messa nel pomeriggio del 6 marzo.
La delegazione è stata ricevuta dal patriarca caldeo, card. Louis Raphael Sako, e dai suoi vicari patriarcali.
Al centro della visita la discussione delle misure logistiche e di sicurezza relative al viaggio papale.

Senza pace in Iraq non c’è pace nel Mediterraneo. Courban spiega il viaggio del papa

Riccardo Cristiano

Conversazione con Antoine Courban, cristiano ortodosso, docente all’Università dei gesuiti Saint Joseph a Beirut, punto di riferimento teologico e culturale della scuola teologica sciita di Najaf, che segue con attenzione e trepidazione gli sviluppi e l’approssimarsi del viaggio iracheno di papa Francesco.
 Sotto assedio, in una città morente dal 4 agosto dello scorso anno, quando è stata devastata da un’esplosione sulla quale il governo libanese sembra non voler indagare tanto da aver rimosso non i sospetti autori del crimine ma il magistrato che li indagava, il professor Antoine Courban, uomo così radicato nella scelta dell’ecumenismo da essere un cristiano ortodosso e docente all’Università dei gesuiti Saint Joseph, interlocutore stimato e ascoltato da anni della più importante università islamica sunnita, al-Azhar, e della fondazione al-Khoei, punto di riferimento teologico e culturale della scuola teologica sciita di Najaf, segue con attenzione e trepidazione gli sviluppi e l’approssimarsi del viaggio iracheno di Francesco.
Cosa significa per lei che il papa stia per visitare la città santa degli sciiti, Najaf, dove incontrerà l’ayatollah al Sistani?
“Un passo storico per tutto il Mediterraneo, che va capito. Vede, un incontro a Baghdad con l’ayatollah al-Sistani avrebbe significato l’incontro tra due grandi personalità, sicuramente di altissimo rango, ma pur sempre un incontro tra due autorevoli personalità. Andando nella città santa dello sciismo mondiale, tutto, la città dove è sepolto l’Imam Ali, al quale gli sciiti sono fedeli da secoli, il papa incontra una comunità. Non dico che incontra una comunità nel senso istituzionale della parola, incontra una comunità come fatto di fede. Per capirci vorrei paragonare il significato di Najaf per gli sciiti con quello di Gerusalemme per la Cristianità. Certo anche Roma è importante e per tutti i cristiani, ma per ogni cristiano Gerusalemme è un’altra cosa”.
Parlando di sciismo non si può non parlare del contrasto tra la grande scuola di Najaf e quella khomeinista usualmente assimilata con la scuola iraniana di Qom. Lo slogan khomeinista per cui “solo una buona società può formare buoni credenti” ha dato vita al sistema per cui vertici del clero possono bloccare l’eleggi del Parlamento. Ritenete che andando a Najaf il papa colga l’opportunità di incontrare e abbracciare lo sciismo che da mezzo secolo rifiuta questa teoria, detta del “governo del giureconsulto” che di fatto impone un sistema teocratico a chi la accetta?
Da giornalista occidentale pone un aspetto importante da sottolineare ma prestando attenzione alle parole: non si tratta di scegliere una scuola che non accetta la teoria khomeinista del governo del giureconsulto, quella che consente al Consiglio dei Guardiani di cancellare leggi parlamentari se ritenute non in linea con la legge religiosa islamica. Questa teoria è sopraggiunta, è una variante ma non è l’origine, la costante o la storia della tradizione sciita: è Najaf la grande tradizione universale sciita.
Veniamo al grande incontro inter-religioso di Ur, la città natale di Abramo. È certamente un evento epocale, con letture bibliche e coraniche relative ad Abramo, il padre comune. “Siete tutti fratelli”, dice il motto della visita. Ma tra tanti problemi, tante angustie nella vita, l’opinione pubblica potrà cogliere, capire cosa accadrà a Ur?
Il papa arriva nell’antica Mesopotamia come uomo di pace, come costruttore di pace. Se guardiamo il contesto in cui sta per giungere e il momento in cui arriverà siamo in grado di capire che si tratta di un vero e proprio kairòs? Nella mia Chiesa, quella ortodossa, prima che cominci la liturgia, il Diacono esclama “Kairos tou poiesai to Kyrio“, cioè “è tempo [kairos] che il Signore agisca”. Sì, io vedo in questa decisione di Francesco di visitare l’Iraq e di recarsi a Ur come un segno dello Spirito Santo. Il cammino di Abramo, seguendo la volontà di Dio, lo ha condotto da Ur alle coste del Mediterraneo. La cartina spirituale del cammino di Abramo ci indica, ci spiega la cartina geopolitica di oggi. Sia il cammino di Abramo che la realtà geopolitica fanno della Mesopotamia la vera “chiusura strategica”, o il “Gate”, del Mediterraneo. Le chiavi per la pace mediterranea sono lì. Sono due cartine diverse, certamente, ma che si accavallano perfettamente e divengono inseparabili. Senza pace nell’antica Mesopotamia non c’è pace nel Mediterraneo, e le parole “cittadini” e “fratelli” sono una parola sola, cioè la chiave di lettura e soluzione di tanti problemi. Questa è la prospettiva di pace che comporta e implica, infatti è incompatibile con identitarismi o progetti settari e miliziani. Questo lo vediamo in tutti i drammi mediterranei e lo indica proprio il senso della scelta di Abramo: i figli di Abramo, cioè ebrei, cristiani e musulmani, sanno che loro padre non ha fondato una religione, ha sentito Dio dirgli “fai così” e lui ha agito con “fede e fiducia”. Fede e fiducia nell’unico Dio di tutti i figli di Abramo, questo è il messaggio di Abramo, quello che va ricordato a tutti i suoi figli.
Vorrei concludere questo nostro breve colloquio tornando a quel punto che sembrava un auspicio del papa, venire in Libano rientrando dall’Iraq. Sembrava un desiderio, visitare il vostro Paese ormai sprofondato in una crisi che sembra la fine di un Paese che indicava un modello di pace, problematica ma pluralista. Sarebbe auspicabile una visita del papa nelle attuali condizioni del vostro Paese, con scontri di piazza, pandemia, collasso economico e una classe politica ormai ritenuta impresentabile da tutto il popolo?
 Credo che il Vaticano abbia fatto bene a non prevedere una sosta sulla via di andata o di ritorno dall’Iraq. Una sosta cosa avrebbe fatto? Avrebbe offerto un puntello a un ceto politico screditato? Il Libano ha enorme bisogno del sostegno morale del papa, che servirebbe a tutti i libanesi con una visita per loro e a loro, nel nome del solo processo che può salvarci in questo momento terribile, imparare a vivere insieme.

24 febbraio 2021

Papa in Iraq: card. Sako (patriarca), “iracheni hanno fame delle parole di pace del Pontefice”


“Gli iracheni hanno fame delle parole di pace che Papa Francesco donerà loro nella sua prossima visita in Iraq. Egli è un messaggero di pace e non credo che ci sia qualcuno che rifiuti questa visita o possa danneggiarla. Il Papa è in Iraq per il bene del popolo”.
Così il card. Louis Raphael Sako, patriarca caldeo di Baghdad, descrive l’attesa nel Paese a pochi giorni dall’arrivo del Pontefice (5-8 marzo).
In un’intervista al giornale Al-Nahar Al-Arabi il patriarca, passando in rassegna il programma, sottolinea l’importanza dell’incontro a Najaf con il religioso sciita, il grande ayatollah Ali al-Sistani: “Confidiamo molto su questo incontro, dopo quello con il grande imam di Al-Azhar , il sunnita Ahmed Al-Tayeb. È importante promuovere il dialogo e la comprensione con la parte sciita per il bene dei musulmani e dei cristiani”.
Altra tappa del viaggio papale sarà a Ur, patria di Abramo che per islamici, cristiani ed ebrei, è il padre della fede. Dico fede, non religioni, perché la fede in Dio è una. Lo scontro di religioni è inaccettabile e lo scontro di civiltà è inaccettabile perché apparteniamo alla famiglia umana e dobbiamo mostrare solidarietà per poter vivere”.
Un messaggio che risuonerà anche a Mosul, durante la preghiera per le vittime della guerra: “Fermare il fanatismo che è contro la religione. Dobbiamo vivere in pace e stabilità, indipendentemente dalla religione o dall’etnia”.

Papa: vescovo Erbil, nodo sicurezza non fermerà viaggio pace

By ANSA
23 febbario 2021

Non sarà la questione della sicurezza a fermare il viaggio del Papa in Iraq:
"Viene a portare un messaggio di pace" e gli episodi recenti, come il lancio di razzi ad una base di Erbil o all'ambasciata Usa a Baghdad, non potranno ostacolare la visita in calendario dal 5 all'8 marzo.
Lo afferma mons. Bashar Warda, l'arcivescovo caldeo di Erbil.
I maggiori problemi riguardano invece "la situazione pandemica perché stiamo attraversando la seconda ondata ma l'organizzazione del viaggio va avanti con grande entusiasmo". Proprio ad Erbil si terrà l'evento con la maggiore partecipazione di persone: sono previsti infatti 10mila fedeli alla Messa del Papa che si terrà allo stadio cittadino e mons. Warda parla di una "collaborazione eccellente" tra la Chiesa e le autorità locali nell'organizzazione del viaggio.
Alla Messa, per l'organizzazione della quale sono al lavoro centinaia di volontari, verrà esposta anche la statua della Madonna di Karamles, "senza mani, danneggiata dalla furia dell'Isis, come memoria della pagina nera che abbiamo vissuto".
Nel Paese c'è "un generale clima di entusiasmo che conferma il senso di ospitalità del popolo iracheno. Certo, alcuni fondamentalisti stanno usando i social media per dire il loro 'no'. Parlano del Papa come del re della nuova crociata europea. E' abbastanza normale - minimizza mons. Warda in un incontro online con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre - ma il feeling generale è di grande ospitalità per questa visita di pace e di fraternità".
Il vescovo parla poi delle popolazioni dei piccoli villaggi, soprattutto ad Ur, contente della visita del Papa anche per gli sforzi profusi dal governo per rendere i luoghi i più accoglienti possibili.
"Dicono: sono decenni che chiediamo di riparare le strade, di portare l'elettricità, e ora grazie alla visita del Papa - riferisce Warda sorridendo - tutto questo è stato fatto".
Warda si aspetta "un impatto molto positivo" dall'incontro del Papa con il leader degli sciiti Al-Sistani, come anche, nel dialogo interreligioso, "importante è la tappa ad Ur, la casa di Abramo, il padre dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani".
La visita del Papa sarà importante per la comunità cristiana "ma per cambiare davvero occorrerebbe mettere mano alla Costituzione", dice facendo riferimento all'articolo 2 secondo il quale l'Islam è la fonte primaria della legislazione.
Una norma che 'autorizza' la marginalizzazione dei cristiani, "nella politica e nel lavoro", pur vantando in queste terre una presenza bimillenaria.
Warda ha ringraziato Aiuto alla Chiesa che Soffre per i grandi aiuti profusi per aiutare i cristiani a tornare nella Piana di Ninive che nel 2014 erano stati cacciati dall'Isis. "Sono state ricostruite le case, le chiese, ora la grande sfida è quella di offrire un lavoro che garantisca davvero alle famiglie cristiane una vita dignitosa".

23 febbraio 2021

Kurdistan Region restricts travel to federal Iraq, as new coronavirus variant hits

Dilan Sirwan

The Kurdistan Region announced on Monday that it would be restricting travel to and from federal Iraq, following a new variant of coronavirus hitting Erbil.
 “We have authorized the provincial crisis cell to control the border points between Iraqi provinces and Kurdistan Region provinces,” Kurdistan Regional Government (KRG) spokesperson Jotiar Adil announced at a press conference on Monday, noting that political and diplomatic missions hold an exception to the rule.
The decision by the KRG came after the region recorded 19 cases of the UK coronavirus variant in Erbil in recent days.
Experts believe the UK variant emerged in September, and may be as much as 70% more transmissible or infectious.
Newer research by Public Health England puts it between 30% and 50%.
A spike in cases led Iraqi authorities to decide last week on a partial curfew, which began on Thursday.
A few days after the announcement, Iraq’s health ministry said that it had registered several cases of the UK coronavirus variant for the first time. Adil also announced that Newroz and several other holidays would have to be celebrated without social gatherings. “The celebrations in March will be respected, however without any social gathering,” Adil added in the press conference.
The Kurdistan Region was under a full lockdown for last year’s Newroz.
The spokesperson on Monday reiterated that schools would remain open, but pleaded that schools abide by the protection measures set out.
The Kurdistan Region recorded 157 new cases, 55 recoveries, 1 death in 24 hours, the health ministry announced on Monday.
Overall, the Region has recorded 107,933 coronavirus cases, including 103,011 recoveries and 3,508 deaths, since the beginning of the pandemic.