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11 dicembre 2020

Dove è nata la fede di Abramo

By L'Osservatore Romano 
Fernando Filoni Cardinale gran maestro dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, già nunzio apostolico in Iraq dal 2001 al 2006

Papa Francesco, con annuncio sorprendente, sebbene atteso, ha rivelato nei giorni scorsi di accogliere l’invito rivolto dalle autorità irachene di visitare la terra di Abramo nei primi giorni di marzo. Un viaggio molto atteso sia dagli iracheni, sia dal Pontefice che per vari motivi aveva dovuto procrastinarlo. La notizia ha suscitato viva emozione. Molti in Iraq hanno pianto, mi è stato riferito. Ne sono emozionato anch’io, avendo condiviso con quel nobile popolo e in particolare con i cristiani, vita, drammi e speranze negli ultimi vent’anni.
L’Iraq non è un Paese qualsiasi. La Mesopotamia è stata culla di civiltà antiche di straordinaria bellezza (Sumeri, Babilonesi, Assiri): qui si ebbe la prima codificazione scritta di leggi (Codice di Hammurabi); qui è nata la fede di Abramo, hanno predicato e si ritengono sepolti vari profeti (Ezechiele, Giona, Nahum); qui è fiorita la prima evangelizzazione attribuita all’apostolo Tommaso; qui si è sviluppata la Chiesa d’Oriente che estese la sua feconda presenza lungo il Golfo Persico fino all’India, all’Afghanistan e all’antica Cina (la “Stele di Xian” ne porta inciso il credo); qui l’islam fece una delle sue prime conquiste e conobbe la prima drammatica divisione tra sunniti e sciiti; qui la pur non facile convivenza di conquistatori e conquistati produsse l’incontro tra le civiltà arabo-greco-cristiana che ha avuto tanta parte nella civiltà del Mediterraneo; qui sono nate eresie e grandi opere teologiche, grandi santi e scrittori sacri. I cristiani che finora l’hanno abitata sono eredi di una storia gloriosa, non sempre ben conosciuta.
Geo-politicamente l’Iraq è una terra “cerniera” tra il Medio Oriente e l’Asia centro-occidentale. La fertilità per i due grandi fiumi che l’attraversano e le ricchezze petrolifere sono state all’origine di grandi benedizioni, di guerre e sofferenze. Il Papa troverà nelle pieghe di questa terra, intrisa dal sangue per innumerevoli conflitti, una storia che pesa sulle spalle delle popolazioni che la abitano.
La presenza cristiana, nel corso degli ultimi cento anni è gradualmente e drammaticamente diminuita. Fino a pochi decenni fa era concentrata a Baghdad (che in quanto capitale offriva maggiori possibilità di lavoro), nella Piana di Ninive (Mosul, antica Assiria) e nel Kurdistan settentrionale — dove i missionari domenicani toscani composero il primo vocabolario e la prima grammatica curda (1787). Si tratta di comunità sopravvissute a secoli di adattamenti, di convivenze non facili, di pressioni autoritarie, di imposte e gravami, di induzioni matrimoniali e divieti, di discriminazioni e di odi, di intolleranze e di invidie e, negli ultimi tempi, anche di persecuzioni (cfr. La Chiesa in Iraq. Storia, sviluppo e missione, dagli inizi ai nostri giorni, Libreria editrice vaticana, 2015). La storia di questa terra è un intreccio di persone e di avvenimenti. E quella di oggi non prescinde da quella di ieri.
Papa Francesco porterà con sé una novità. La possibilità di una convivenza fondata su quella fratellanza che ha voluto sottoscrivere ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019. Non è secondario che ciò avvenga dopo quell’evento e che porti quei principi di convivenza di cui la terra di Abramo, l’Iraq di oggi ha assolutamente bisogno. La Chiesa cattolica (caldea, sira, armena, latina), ma anche d’Oriente si è fatta portavoce, insieme a tante minoranze, della necessità di una convivenza rispettosa di tutti i cittadini al di là della professione di credo di ciascuna.
Il 20 agosto 2014, nel tardo pomeriggio, Papa Francesco mi concedeva un’udienza al mio ritorno dall’Iraq dove mi aveva inviato dieci giorni prima come suo rappresentante per essere vicino e per manifestare la solidarietà della Chiesa alle migliaia di cristiani e di altre minoranze che i terroristi dell’Isis avevano cacciate, spogliate di ogni avere, da Mosul e dalla Piana di Ninive; gli raccontai la terribile situazione delle innumerevoli famiglie che sostavano smarrite lungo le strade o appena accomodate in qualsiasi luogo che avesse potuto offrire ospitalità: chiese, scuole, giardini, edifici in costruzione. Ovunque si organizzavano cucine, bagni, piccole infermerie per anziani e ammalati. Una generosità incredibile. Avevo sentito storie di persone che avevano perso tutto, episodi di tremende uccisioni, racconti di violenze su giovani donne sequestrate e vendute nei mercati, di bambini separati dai genitori; avevo condiviso le ansie e le preoccupazioni dei capi Yazidi che parlavano di violenze inenarrabili; avevo visitato il fronte militare nord-occidentale dei peshmerga a poche centinaia di metri dalle linee dell’Isis. Le autorità curde erano state assai generose nell’aiutare e organizzare la resistenza; chiedevano che i cristiani non abbandonassero la loro terra, riconoscendo che «avevano il diritto nativo di viverci». Fu la prima volta che lo dicevano, secondo quanto mi raccontavano i vescovi. Ne riferii, non senza profonda emozione al Papa, assai colpito, da quella narrazione. Tornai in Iraq per la Pasqua del 2015; volevo che quella popolazione sapesse che non l’avevamo dimenticata. L’aeronautica militare italiana mi aiutò a portare seimila “colombe pasquali” per le famiglie, dono di famiglie della diocesi di Roma. Fu un momento di gioia e di amicizia.
Avevo imparato ad amare il popolo iracheno e le sue comunità cristiane nei cinque anni di servizio quale rappresentante diplomatico della Sede apostolica in Iraq. Furono anni difficili; la caduta di Saddam Hussein aveva portato il caos e la comunità cristiana divenne oggetto di feroci attentanti, di uccisioni, di confisca di case e di beni; chi poteva fuggiva. I vescovi, il clero e i religiosi e le religiose, tutti abbiamo condiviso il dramma dei bombardamenti e della guerra. Questo aveva cementato la stima e l’affetto.
La visita pastorale del Papa sarà un’iniezione di incoraggiamento, perché l’Iraq divenga un Paese di civile e rispettosa convivenza. Ricostruire la fiducia è fondamentale. Come ebbe a dire l’arcivescovo latino di Baghdad, monsignor Jean Benjamin Sleiman, è necessario che i cristiani, rinvigoriti nella fede, non debbano comportarsi come una minoranza che si affanna a raggiungere la storia che apparentemente li ha lasciati indietro, ma devono ripartire dal concetto di patria comune, di cittadinanza senza connotazioni e dalla Carta dei diritti dell’uomo, dal bene collettivo e da una organizzazione moderna e razionale. Aggiungo: il Documento di Abu Dhabi può aiutare a raggiungere questo fine: sia tra musulmani per superare la profonda divisione tra sunniti e sciti, sia tra l’islam e il cristianesimo, senza ignorare le tante piccole minoranze che abitano questa straordinaria terra di Abramo.