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27 novembre 2020

26 novembre 2020

«L’islam radicale usa i migranti per invadere e destabilizzare l’Europa»

«Tra gli immigrati che dalla Siria cercano di raggiungere l’Europa attraverso la Turchia ci sono migliaia di jihadisti infiltrati». Ad affermarlo è Najib Mikhael Moussa, arcivescovo di Mosul dal 2018, tra i cinque finalisti del premio Sakharov 2020, assegnato in ultima istanza all’opposizione democratica in Bielorussia. Invitato a ottobre al Parlamento europeo in occasione della consegna del premio si è detto «preoccupato» per quello che sta avvenendo in Europa e soprattutto in Francia. Le migrazioni, come il terrorismo, non sono soltanto un problema islamico, ha dichiarato, ma vengono utilizzati politicamente e geopoliticamente da chi vuole «destabilizzare l’Europa».

«MIGRANTI, PROBLEMA UMANITARIO E POLITICO»
Riprendendo i contenuti del suo intervento con il National Catholic Register, monsignor Mikhael ha spiegato:
«Sono stato in Turchia molte volte e ho visitato i campi profughi. La Turchia tiene tutte queste persone sapendo che potrà aprire le porte ogni volta che vuole. Il problema dei migranti non è solo umanitario ma anche politico. Vengono usati per scopi politici. Ciò che sta avvenendo in Francia e altrove, violenza e terrorismo, non ha a che fare solo con l’islam. Ci sono paesi che vogliono invadere e destabilizzare il sistema politico e di diritti umani dell’Europa in generale. La religione viene così usata per scopi politici. Ovviamente ci sono motivazioni religiose dietro gli attentati, ma queste sono solo una parte del problema. Molti paesi sono convinti che quando l’Occidente sarà destabilizzato sul piano della sicurezza, l’islam potrà diffondersi più facilmente».

«L’ISLAM RADICALE NON PUÒ INTEGRARSI IN EUROPA»
A proposito della difficoltà di integrazione in Europa da parte di molti musulmani radicali, spiega:
«L’islam radicale non può integrarsi in un paese come la Francia. Se prendiamo le parti del Corano risalenti al periodo di Medina, non può funzionare. Questi testi sostengono la creazione di una sola umanità unita da una sola religione. Dall’altra parte, i testi risalenti al periodo della Mecca sono più pacifici, purtroppo sono stati abrogati da quelli di Medina. La maggior parte dei musulmani in Europa si rifanno a questi testi che vengono prima di quelli di Medina come base per l’integrazione ma in se stessi non sono più validi ed essi non possono vivere in base a questi precetti nei loro paesi di origine, dall’Arabia Saudita all’Egitto. La Fratellanza musulmana, ad esempio, li rigetta completamente. Organizzazioni come l’Isis usano questi testi di Medina come base per le loro azioni terroristiche e per incoraggiare conversioni di massa. Durante la mia gioventù a Mosul la sharia non era davvero applicata e il 90 per cento delle donne non portava il velo; ora queste ideologie dannose stanno tornando e si diffondono nelle scuole, come in Europa. Noi lo abbiamo permesso. Questi network fanatici non potrebbero prosperare se i paesi europei facessero applicare la legge. Io disapprovo questo lassismo occidentale».

NO ALL’ACCOGLIENZA INDISCRIMINATA
Combattere queste ideologie «attraverso l’educazione e la giustizia», continua l’arcivescovo, è l’unico modo di «aiutare i musulmani a liberarsi da esse». E una parte la può giocare anche la politica migratoria dei paesi europei:
«L’accoglienza è un tema di carità, che è fondamentalmente cristiana. Penso che certe leggi in Europa debbano essere cambiate così che coloro che non riescono ad adattarsi ai costumi del paese ospite possano essere rimandati indietro nei paesi di origine. E se i loro paesi non li rivogliono indietro, è la prova che sono terroristi. In questo caso bisogna tagliarli fuori dalle loro famiglie e da qualunque cosa che abbia condotto alla loro radicalizzazione e cercare di curarli dal lavaggio del cervello che hanno ricevuto con programmi di riabilitazione. Non vedo altra strada per proteggere le popolazioni europee. Non è l’Europa che ha chiesto a questi estremisti di venire. Potevano andare a vivere nei paesi vicini alle loro convinzioni religiose e ideologiche. Perché vengono in Europa a cercare altri valori se questi valori non gli piacciono? Queste persone vengono per destabilizzare l’Europa e danneggiare i musulmani che sono venuti per liberarsi da una certa cultura islamista che priva gli esseri umani della loro libertà. Ho molti amici musulmani che non condividono queste visioni estremiste e hanno uno spirito libero, ma in Iraq non sono considerati veri musulmani. Per i fanatici, un musulmano non dovrebbe salutare un cristiano e se un cristiano saluta un musulmano, quest’ultimo non dovrebbe rispondere. Se un musulmano lascia l’islam, rischia di essere assassinato in ogni momento per apostasia. E l’uguaglianza tra uomini e donne non può esistere ipso facto per loro. Le persone che si riconoscono in questo modello non potranno mai integrarsi nelle società occidentali. Fortunatamente, non tutti i musulmani e i migranti sono dei radicali».

«UN ALBERO SENZA RADICI DIVENTA SECCO»
L’Europa, continua monsignor Mikhael, ha però la sua parte di responsabilità: «L’Europa ha sbagliato a tagliare le proprie radici spirituali e culturali, perché così si è indebolita. Un albero senza radici non può che seccare». Infine, si esprime sulle caricature di Maometto che tanto hanno fatto infuriare il mondo islamico: «Non sono particolarmente favorevole alle vignette che sminuiscono e deridono gli altri. La libertà di espressione è un diritto fondamentale, ma la pratica di provare a offendere le sensibilità altrui potrebbe non essere incoraggiata moralmente. Anche perché persone innocenti ne pagano le conseguenze, come i tre cristiani di Nizza che sono stati barbaramente uccisi mentre pregavano. E noi cristiani cominciamo a pagarne il conte qui in Oriente. L’odio antifrancese, e di conseguenza antioccidentale, comincia a crescere».

25 novembre 2020

Iraqi Christians ‘living with hope’ as stability slowly returns to Nineveh Plains

Hannah Brockhaus

Iraqi Christians are trying to face challenges with strength and hope as they continue to rebuild their lives after the Islamic State invaded in 2014, a Chaldean Catholic priest has said. “It’s a difficult place, but we are living with hope, with faith, with love for everyone, even if they have done a lot of bad things,” Fr. Karam Shamasha told CNA via video call last week. “As Christians, we try to not meet evil with evil. We try to calm things and to be really these seeds of life, seeds of peace, seeds of happiness, of serenity,” he added.
 Shamasha is one of two priests serving at St. George Chaldean Catholic Church in Telskuf, a Christian village about 20 miles north of Mosul. Shamasha returned to Telskuf, his hometown, in August after six years studying in Rome. 
The priest said that today there are around 900 families living in his village, most of whom returned in 2017, after the Islamic State lost control of Mosul. But many did not return, including his own family members. And around 200 of the families now in Telskuf are from neighboring villages.
In the past three years, the situation has been relatively stable and the houses in the village have mostly been rebuilt, he said. But many other challenges remain. In addition to facing devastating economic problems, Iraqi people have been hurt emotionally, psychologically, and spiritually by the conflict, Shamasha said. “Unfortunately after ISIS everything has changed.” “We are trying to heal this wound created by ISIS. Our families are strong; they have defended the faith. But they need someone who says, ‘You have done very well, but you must continue your mission.’” He said: “It is not easy to return to how it was before… However, at least, today, we have again resumed Masses, youth activities.”
So far the area has not been gravely affected by COVID-19, with most cases of the virus consisting of mild symptoms only, he said, explaining that the parish has more activities planned once the situation improves. In the meantime, the sacramental life of St. George’s continues: Shamasha noted that 15 couples married at the church last month and baptisms take place every Friday. On Nov. 13, 65 children received their First Holy Communion. Shamasha said it is the mission of his church to heal families spiritually, so he and the pastor visited the family of each first communicant individually, congratulating them and praying with them in their homes.
And “to say that the church is close to them.”
The Church is where people turn in their need, the priest said, noting that his parish did its best to support people in many different ways, including financially, medically, and with rebuilding.
“We are happy to be able to offer this possibility to our families. With all the difficulties, however, at least we are saying to everyone that the Church will not abandon … its mission as Mother,” he commented. With the help of outside donors, St. George’s built a medical clinic in the town, which does not have a hospital nearby, and bought 30 oxygen tanks for people in the area to use for emergencies. “Help on the part of the government almost doesn’t exist,” Shamasha lamented. “So we must, as the Church, knock at all the doors to try to find some help for our families.”
In nearby Mosul, the priest said that only around 50 to 60 Christian families have returned since its liberation from ISIS. According to Shamasha’s seminary classmate, who is now a priest in Mosul, these families are mostly made up of older adults or the elderly. Families with children have mostly settled abroad in countries like Australia or France, or are in another place waiting to move to a more stable country in the West. As there are so few Christians, the community has just one Sunday Mass: Chaldean, Armenian, and Syriac Catholics all worship together in the Syriac Rite at a Syriac Catholic church.
The priest told Shamasha that “the beautiful thing is that there are not only Christians, but also every once in a while, you see some Muslims who come to pray in the church in front of the statue of Our Lady.”
Shamasha emphasized the importance of valuing life and said that Christians were trying to show to their Muslim brothers and sisters that “life is not something you can take from another. That God has given us life…” He pointed to a mentality he saw demonstrated after the Oct. 29 attack in the Basilica of Notre-Dame de Nice, France, in which three people died after being stabbed by a Tunisian man who had illegally entered the country. The event was characterized as a terrorist attack.
But in some Arabic-language news commentary, Shamasha said, the attacker was called a “martyr.” He explained that terrorist attacks in Europe were alarming for Christians in the Middle East, who ask themselves, “if things like this can happen in a country like France,” what will happen here? In France, Muslims “do not have power. We think: if they had a power like they have here, in Islamic countries, what will they do to Christians?” “We have a mission in fact ... I think both in the East and the West we have this mission, to show other religions not to be weak,” the priest said, noting that while he was living in Europe, he “saw a lot of weakness, many people do not know anything of Christ.”
He continued: “But we, as Christians, have an incredible strength, we have courage ... we have a huge strength which comes from God, from God’s grace. Why must we be weak? We must show others that our faith is also right. To others, we are ‘infidels,’ but we must show by our life that we are not ‘infidels;’ we are more faithful than anyone else: in that God who is love, our God who does not kill, our God who wants man to live a good life, a life of peace.” “So, we are not afraid,” he said. “We are strong; we defend our faith, whatever the result will be.”
He encouraged Christians in Europe not to be afraid to defend their faith and not to abandon the deep roots of Christianity in their history. “You cannot rip up all of your history and say ‘we don’t believe in anything.’ You believe or you don’t believe, but Christianity is in your history,” he said. “Dialogue, we must have dialogue,” he urged, “but without losing our identity, without losing that in which we believe.”

Mosul, volontari cristiani offrono aiuti a profughi musulmani

Foto akhbaralaan.net
In vista di un Natale che “bussa ormai alle porte”, un gruppo di giovani cristiani di Baghdeda (Qaraqosh), nel governatorato di Ninive (nel nord dell’Iraq), ha promosso l’iniziativa “Costruiamo ponti di pace e demoliamo i muri di odio”.
Per l’occasione, i volontari hanno raccolto abiti e beni di prima necessità per gli adulti, giocattoli per i bambini, da distribuire agli ospiti del campo profughi di Khazir, nei pressi di Mosul, che accoglie ancora oggi le famiglie sfollate in seguito all’ascesa dello Stato islamico. 
Questo progetto, insieme da altri portati avanti da giovani musulmani come la pulizia delle chiese da parte dei volontari di Sawaed al-Museliya, sono una conferma del rinnovato clima di collaborazione e fiducia fra giovani appartenenti a religioni diverse. Uno spirito nuovo in quella che è stata a lungo la roccaforte dell’Isis e la “capitale” del Califfato, e proprio da qui può partire “la rinascita” non solo della metropoli, ma di tutto l’Iraq dove, anche in questi giorni, si levano voci secondo le quali i cristiani vorrebbero partire.
“L’iniziativa di Natale”, come l’hanno ribattezzata i cristiani, intende portare conforto in occasione della festività agli ospiti del campo di Khazir, nel distretto di Hamdaniya, istituito in concomitanza con l’avvio delle operazioni per la liberazione del governatorato di Ninive. Esso ospita oltre 6mila famiglie provenienti dai distretti di Ba’aj e Rabia, e dal sotto-distretto di Zammar a Mosul, in maggioranza musulmane. 
Un passo importante nella direzione della convivenza fra le diverse realtà che abitano il nord dell’Iraq e che è stato rilanciato in rete e sui social network, con ripetuti appelli alla donazione cui hanno risposto in molti, anche con piccoli e semplici contributi. Un gesto che è anche espressione di solidarietà verso gli sfollati, dopo la recente decisione del ministro irakeno per l’Immigrazione di chiudere diversi campi profughi, mettendo in pericolo la sopravvivenza stessa di decine di migliaia di nuclei familiari che vivono in condizioni di estrema necessità e bisogno. 
Foto akhbaralaan.net
L’iniziativa è partita 10 giorni fa e ha ricevuto ampio sostegno da diverse comunità della piana di Ninive e di Ankawa, il distretto cristiano di Erbil, nel Kurdistan irakeno, che hanno fornito il loro contributo volontario.
Interpellato da AsiaNews don Paolo Thabit Mekko, responsabile della comunità cristiana di Karamles, spiega che “questa è una delle molte iniziative messe in campo dai cristiani, soprattutto i giovani, in un’ottica di convivenza”. Esempi come questo, aggiunge, “sono di grande aiuto e mostrano che vi è una luce in fondo al tunnel”, dopo anni di violenze estremiste e di attacchi confessionali che hanno segnato nel profondo la società irakena.
“Ora bisogna dare forza e trasformare questa luce in fuoco, che viene diffuso in sempre più strati della società per garantire un futuro ai cristiani nella regione” davanti al pericolo ancora attuale di un esodo massiccio. 
“Conosco personalmente Jameel al-Jameel, uno dei promotori dell’iniziativa di solidarietà al campo profughi, abitato solo da musulmani” prosegue il sacerdote caldeo. “Egli è un giovane molto attivo, scrive poesie, lavora con impegno per costruire ponti, per rafforzare la convivenza e ha saputo costruire nel tempo molti buoni rapporti, anche con gli stessi musulmani. Anche da queste persone impegnate nel sociale, che vogliono far sentire forte la voce del popolo, a maggior ragione se si tratta di giovani e di fede diversa - conclude - si può e si deve partire per il futuro del Paese”.

24 novembre 2020

Archbishop of Mosul: Europe has been weakened by its denial of its spiritual and cultural roots

Solène Tadié 

 A prominent figure of Eastern Christians was among the five nominees for the European Parliament’s Sakharov Prize 2020: Archbishop Najeeb Michaeel, who has served as archbishop of Mosul, Iraq, since 2018, is one of the most famous faces associated with the tragedy of the exodus of Iraqi Christians in August 2014, when the Islamic State seized control of the Nineveh Plains. 
On the night of Aug. 6-7, as the jihadists were pursuing their march towards this bastion of Christianity, destroying everything in their path, the Dominican clergyman ensured the last-minute exfiltration of countless precious Christian manuscripts from the Dominican Convent of Mosul — all of them dating from the 13th to the 19th century — as well as the convent’s archives and a valuable photographic equipment, placing them on the back of a big truck. After being safely stored in Erbil, the capital of Iraqi Kurdistan, the documents were all digitalized and later exhibited in France and Italy. 
Through his actions, Archbishop Michaeel managed by himself to safeguard tens of thousands of prominent elements of Eastern Christians’ memory, notably through the Digital Center of Eastern Manuscripts he previously founded in the 1990’s.
Back in his hometown of Mosul in 2017 after four years of a bloody war between Iraqi forces and ISIS, he is now striving to make his region rise from the ashes. But as he is counting on his Western Christian brothers’ support to carry out this effort, the Iraqi archbishop does not hide his concern about the advance of radical Islam in Europe and the simultaneous deletion of all elements that forged that continent’s Western civilization. 
In the aftermath of the recent terror attacks that hit France and Austria, while discussing his crucial mission for the survival of Eastern Christians with the Register, Archbishop Michaeel called the European authorities to take stock of the growing threats facing their countries and to defend their historic spiritual identity before it disappears for good. 
You visited the European Parliament at the beginning of October, within the framework of your nomination for the Sakharov Prize 2020. Do you feel that you could raise awareness among the members of the Parliament about the cause of Eastern Christians?
The experience I have had at the European Parliament was one of a kind. It is the first time I have met so many politicians. I have had this kind of official meeting before through UNESCO, but this time, with the Sakharov Prize, it was different. I found a really exceptional level of listening because we shared the same principles. The European Parliament also has the function of promoting peace in Europe, justice and human rights. 
As a religious man and Archbishop of Mosul, I had a very hard experience with ISIS, which all Christians and Yezidis also lived. I was able to share my experience with the European Parliament. This opportunity also allowed me to talk about what we lived. I was able to celebrate Mass at the European Parliament, which was very touching.
Nevertheless, I perceived a certain religiosity among these parliamentarians from secularized countries. Whether one believes in God or not, the important thing is that man is the goal. We know that man is God’s chosen one. I managed to share all these principles and I felt that there was an extraordinary level of listening and sharing.
In an interview with French newspaper Valeurs actuelles on the occasion of your visit to the European Parliament, you expressed your concern for France and Europe. This was on the eve of the wave of terror attacks that hit France and then Austria. What motivated such a warning on your part?
We lost everything in Iraq and the Middle East. And I don’t want France and Europe to lose everything in turn. What I mean is that there is a force of darkness embodied in people who are far from God, far from humanity and far from everything that constitutes the essence of religion. I’ve been saying this for a decade, but I repeated it forcefully in the European Parliament, and a week after the wave of attacks happened in Europe. I felt it. And I have also heard it in Iraq, where we know that in the wave of immigrants from Syria, there are still several thousand jihadists infiltrated into the hearts of families seeking to reach Europe, through Turkey. I have been to Turkey several times, I have seen with my own eyes hundreds of camps of Syrians, but also Africans, Iraqis even, or Lebanese. They had asked to go to Europe but were stuck in Turkey. Turkey is keeping all these people knowing that it will open the doors when it wants to. The problem of migrants is not only humanitarian but also political. It is used for political purposes.
What is happening at the moment in France or elsewhere, violence and terrorism, is not only a question of Islam. It also stems from the fact that countries want to invade and destabilize the political and human rights system in Europe in general. And religion is being used for this purpose because it is the easiest way to wrap political actions. 
Religious motivation does exist, but it is a part of the problem. There is also a political, geopolitical and commercial stake. Once we destabilize these Western countries on the security level, Islam will indeed spread more easily. 
How do you explain the fact that coexistence is so difficult between some Muslim communities and European populations, especially in France?
Radical Islam cannot adapt to a country like France, whose three fundamental principles are “Liberty, Equality, Fraternity.” If we take the texts of the Quran known as Medinan, it cannot work. These texts call for the creation of a single humanity, united by a single religion. 
On the other hand, the texts relating to the life of the Prophet Mohammed in Mecca — that is Meccan surahs — are much more peaceful because it is for example written that “Whoever kills one human being has killed all humanity” (Quran 5/32), or that one must respect the religion of others. The problem is that these texts, which predate those of Medina, are outdated and have been abrogated by the more violent surahs of Medina. 
Most Muslims in Europe rely on these texts that predate Medina as a basis for integration, but in themselves, they are no longer valid, as they could not live according to these precepts in most of their countries of origin, from Saudi Arabia to Egypt. The Muslim Brotherhood, for example, completely rejects these precepts. 
Organizations such as ISIS use these texts from Medina as a basis for terror and to encourage mass conversions. In my youth, in Mosul, sharia[Islamic law] was not really applied and 90% of women did not wear a veil. 
However, these harmful ideologies are now coming back and spreading in a lot in schools, as far as Europe. And we let them. These fanatical networks could not flourish if the different European countries enforced the laws. They are therefore enormously wrong. I deplore this Western laxity, and I have said so in the European Parliament. 
What must the West, Europe more specifically, do to guard against this danger?
Welcoming is a matter of charity, which is fundamentally Christian. But we must not allow ourselves to be impressed by violence. Terrorists must be terrorized by law and justice. We must keep our eyes open and be realistic. We have to fight these ideologies through education and justice, to help Muslims free themselves from it because it disfigures the name of God. Terrorists have their own God who is not ours. 
In my opinion, certain laws in Europe must be changed so that those who do not manage to adapt to the mores of the host country can be sent back to their country of origin. If their countries don’t want them back, it proves that they are terrorists. In this case they must be cut off from their families or from everything that has fostered their radicalization and reverse the brainwashing they have undergone in rehabilitation programs. This is the only solution to protect European populations.
It was not Europe that asked these radicals to come. They could have gone to live in countries close to their religious and ideological convictions. Why would they have come to Europe to seek other values? If these values bother them, they don’t have to settle in Europe. 
But these people come to destabilize and hurt Muslims who have come to Europe to free themselves from a certain Islamist culture that deprives human beings of their freedom. Even here in Iraq, many people tell me that they no longer have the power of these fanatics who impose their views on the whole country. I have many Muslim friends who do not share these extremist views at all and have a free spirit, but in view of the current reality of their country, they are not true Muslims. According to these fanatics, a Muslim would not even have the right to greet a Christian, or if a Christian greets a Muslim, the Muslim shouldn’t answer him. 
If a Muslim leaves Islam, he risks assassination at any time for apostasy. And equality between men and women cannot ipso facto exist since Quranic verses stipulate that, in terms of property, a woman is entitled to only half of what a man is entitled to receive. In a court of law, the testimony of a woman will never be worth the testimony of a man. 
People who recognize themselves in this model will never be able to integrate into Western societies. Fortunately, not all Muslims and immigrants are radicals.
Does the rejection by most European societies of their Christian roots, and the subsequent lack of a sound spiritual landmark, accentuate this problem in your opinion? 
I think so, yes. Europe has made a mistake in cutting itself off from its spiritual and cultural roots because it has weakened it. A tree without roots to nourish it will necessarily dry up. Europe is not only Christian but also Greco-Latin, a time when concepts like justice, laws, citizenship already existed... 
People of very diverse cultural and religious backgrounds have immigrated to Europe in recent decades. And only the proponents of political Islam are trying to impose their lifestyle on the native population. Europe should seize the opportunity to have so many Muslims on its soil to help them free themselves and respect the religion of the countries that welcome them. 
What do you think of French magazine Charlie Hebdo’s choice to republish its cartoons of the Prophet of Islam?
I am not particularly in favor of caricatures that devalue and mock others. Freedom of expression is a fundamental right, but the practice of trying to offend people’s sensibilities may not be morally encouraged. All the more reason that innocent people will pay the consequences, like the three Christians in Nice who were cruelly murdered while they were just praying. And we Christians are already starting to foot the bill here in the East. Anti-France hatred, and then anti-Western hatred by ricochet, is beginning to rise.
Mosul was liberated from the presence of the Islamic State in 2017. What can you tell us about the situation of Christians today in your region? 
There are two levels for Christians in our region. In the Nineveh Plain, located in my archbishopric, 50% of the Christians who have taken refuge in Kurdistan or elsewhere have returned home. In Mosul, on the other hand, the return is very slow. About 60 families have returned but this is nothing compared to the 55,000 families who lived there at the time of Saddam Hussein. There is still so much fear, there is a strong trauma in the minds of these Christian families who do not dare to return to Mosul. 
To this day, I still have no place to live in the city, everything has been destroyed, I live at my episcopal see in Karemlash, a few miles away from Mosul. It is a desolate land. Billions have been donated by international organizations through the government of Mosul, but on the ground, you don’t see the fruits of this. The mayors, like most politicians, are corrupt. This corruption is a real obstacle to renewal. This is why I have reiterated to the European Parliament that any aid sent to the Christians of Iraq; any project must be done by the NGOs that are directly on the spot without going through the government. 
For Christians to return today, it is imperative that the geopolitical context be more peaceful. Today, we are torn between Iran and Turkey who both covet our territories, especially the Nineveh Plain because it is a strategic place that links Iran to Syria and Lebanon which borders the Mediterranean. And at the same time, Turkey’s president Erdogan, with his utopian dream of recreating the Ottoman Empire, aims to take Mosul, Kirkuk, northern Syria, which is pure madness. This would send our region back to the worst wars of conquest of 500 years ago, and it frightens the Christians very much. 
In my Chaldean bishopric of Mosul, 14 churches have been completely destroyed. And four monasteries, some of which date back to the 4th and 5th centuries, have been completely razed to the ground. We no longer have a place to live and practice our faith. Without the help of our brothers in the West, we will not be able to do anything. We are already receiving help from Christian organizations, especially L’Œuvre d’Orient, thanks to which we are rebuilding the bishopric of Mosul, with the church of St. Paul, where we already celebrated the first Mass. Other associations are working to rebuild the city, and beautiful projects are being formed to guarantee a better future for Christians and to heal the wounds of the past, which include the collaboration of several Muslims. Recently a group of young Muslims volunteered to help us clean our churches and rebuild them. We must therefore keep hope and remain united in prayer.

23 novembre 2020

Chez les chrétiens encore en Irak, la tentation du départ

By L'Express

En la cathédrale Saint Joseph de Bagdad, la cloche sonne, le son de l'orgue s'élève et la messe débute, comme partout ailleurs dans le monde.
Mais dans les travées, les rangs sont clairsemés, signe clair des départs qui n'en finissent pas. Mariam est là chaque dimanche, "quelle que soit la situation dans le pays" qui connaît depuis quarante ans conflits et violences.
A l'église encerclée par d'énormes blocs de béton, cette Irakienne de 17 ans préférant taire son nom de famille se dit "en lieu sûr".
Naël, le diacre de 53 ans dont 35 à servir à Saint Joseph, a regardé sa famille partir. "Mon père, ma mère et mes frères sont tous partis en 2003", lors de l'invasion américaine qui a renversé Saddam Hussein. "Je suis le seul à être resté parce que j'espérais des jours meilleurs", glisse-t-il.
Mais il se sent bien seul aujourd'hui.
Car après 2003, il y a eu de nouveaux départs lors des pires années de guerre civile de 2006 à 2008 dans ce pays à majorité musulmane chiite.
Puis après l'attaque en l'église Notre-Dame du Perpétuel Secours en 2010 à Bagdad, qui a fait une cinquantaine de morts. Sans oublier la percée fulgurante des jihadistes du groupe Etat islamique en 2014. Et toujours, il y a "les menaces, les enlèvements, le racket et les meurtres", accuse le député Yonadam Kanna, du Mouvement démocratique assyrien.

 - Pour les enfants -
Pour le cardinal Louis Raphaël Sako, patriarche de l'Eglise catholique chaldéenne d'Irak, "les chrétiens sont partis contre leur gré car ce pays, c'est leur terre et leur histoire. Mais ils sont partis pour garantir un avenir meilleur à leurs enfants".
Difficile d'obtenir des chiffres officiels précis et récents sur les chrétiens en Irak mais si l'on se fie à la fréquentation des églises et à la fermeture de nombreux lieux de culte, il est clair que la communauté s'est réduite comme peau de chagrin.
 L'église de la Sainte-Trinité dans le quartier d'al-Baladiate à Bagdad a fermé ses portes il y a quatre ans. Elle les rouvre seulement pour des fêtes. Le diacre Naël fait aussi ce constat. Aujourd'hui, il officie devant une cinquantaine de fidèles.
"Il y a encore trois ou quatre ans, l'église était pleine, même hors période de fêtes, pour les offices habituels".
 Jusqu'en 2003, l'Irak comptait un million et demi de chrétiens. Aujourd'hui, ils ne sont plus que 300.000 à 400.000, selon William Warda, de l'ONG Hammourabi, qui milite pour la défense des droits de la minorité chrétienne en Irak. Rien qu'à Bagdad, dit-il, "ils étaient 750.000 il y a 17 ans et seulement 75.000 aujourd'hui".
Dans le quartier d'al-Doura, "les commerçants, les médecins et les cafetiers chrétiens sont partis, il ne reste plus qu'un millier de membres de la communauté", contre 150.000 avant l'exode massif.

 - "Pas ma place" -
Mais les guerres et les attaques jihadistes ne sont pas les seules raisons qui poussent au départ d'Irak. L'EI a été défait il y a trois ans. Aujourd'hui, le chômage et la pauvreté galopante constituent la première préoccupation des Irakiens. Et avec un Etat qui traverse la pire crise économique de son histoire, rejoindre la fonction publique devient de moins en moins atteignable.
Dans un pays où règne le clientélisme politique et où les postes de fonctionnaires sont souvent distribués en fonction des appartenances aux partis influents, tous chiites ou sunnites, "les chrétiens n'ont pas de travail dans les administrations", accuse le cardinal Sako.
Il existe bien des lois garantissant les droits des minorités mais "la corruption mène à l'émigration", martèle-t-il.
Ninos, 25 ans, a déjà tenté sa chance à l'étranger. Mais faute d'emploi, il est revenu à son travail dans un centre de beauté de Bagdad. "Je suis ici mais je n'ai pas l'impression d'avoir ma place, de pouvoir m'épanouir", lâche le jeune homme.
Pour M. Warda, "les chrétiens ont le sentiment que les autorités sont de plus en plus religieuses et même les musulmans laïcs ne trouvent plus leur place".
 Mariam n'attend que de pouvoir partir. "En même temps, j'aimerais tellement que mon pays m'offre ce qu'offrent les autres pays et comme ça je n'aurais pas besoin de m'exiler".

20 novembre 2020

Ministra cristiana per immigrazione e rifugiati guida il piano di chiusura dei campi profughi


La cristiana caldea Evan Faeq Yakoub Jabro, attuale Ministra irachena per l’immigrazione e i rifugiati, ha iniziato a mettere in atto il piano disposto a ottobre dal governo di Baghdad, che prevede la chiusura entro il prossimo marzo di tutti i campi profughi disseminati sul territorio nazionale. 
La realizzazione del piano si rivela tutt’altro che agevole, e le prime indicazioni espresse dalla Ministra sui criteri guida che dovrebbero ispirarlo sono state già accolte da critiche e polemiche. Molti dei campi accolgono sfollati interni fuggiti dalle regioni nord-irachene che nel 2014 erano cadute sotto il dominio jihadista dell’auto-proclamato Stato Islamico (Daesh). La volontà governativa di chiudere i campi risponde a esigenze economiche e di ordine pubblico, e le difficoltà nella realizzazione del piano sono dovute principalmente alle resistenze di molti profughi che non intendono fare ritorno alle rispettive aree di provenienza, dove la perdurante insicurezza e la mancanza di lavoro rendono difficile immaginare un futuro sereno per le proprie famiglie. 
Nei giorni scorsi la Ministra Evan Jabro ha incontrato funzionari della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, dove hanno trovato rifugio anche decine di migliaia di cristiani fuggiti nel 2014 da Mosul e dai villaggi della Piana di Ninive. In quella occasione, la Ministra ha proposto di offrire agli sfollati accolti nel Kurdistan iracheno la possibilità di integrarsi stabilmente nel tessuto socio-economico in cui attualmente vivono, accantonando la prospettiva del ritorno volontario alle proprie terre d’origine. 
Nel corso dell’incontro, la Ministra ha portato ad esempio anche la vicenda del Campo Profughi “Vergine Maria”, che ospita a Baghdad famiglie cristiane fuggite dal Nord Iraq davanti all’avanzare delle milizie jihadiste: i rifugiati di quel campo profughi – ha riferito Evan Jabro – hanno chiesto di stabilizzare la loro presenza a Baghdad, declinando la proposta di sussidi volti a favorire il loro ritorno nelle aree d’origine. 
Il piano di chiusura dei campi profughi disposti dal governo iracheno riferisce il portale ankawa.com - è stato criticato da Ali al Bayati, membro dell’Alto Comitato per i diritti umani in Iraq, secondo il quale, se davvero si vogliono risparmiare le risorse destinate ai rifugiati, invece di chiudere i campi conviene eliminare lo stesso ministero per l’immigrazione e i rifugiati, accorpando i suoi uffici e dipendenti ad altri dicasteri governativi. 
Evan Jabro, chiamata lo scorso giugno a gestire le politiche del governo iracheno riguardo alla emergenza migratoria e del ricollocamento degli sfollati interni, insegna biologia e si è distinta in passato per l’attenzione alle emergenze sociali riguardanti le giovani generazioni, solitamente trascurate dai blocchi che dominano la politica irachena. In passato, Evan Jabro ha lavorato con la ONG Al-Firdaws, fondata da Fatima Al-Bahadly nel 2003, e impegnata a elaborare progetti sociali e di lavoro indirizzati soprattutto a donne e giovani. La Ministra ha ricoperto anche il ruolo di consigliere del Governatore di Mosul per le questioni relative alle minoranze, e alle elezioni politiche irachene del maggio 2018 aveva concorso come candidata all’assegnazione di uno dei 5 seggi riservati alle minoranze cristiane, secondo il “sistema delle quote”.

16 novembre 2020

IRAQ: ACN funds COVID-19 oxygen machine

John Pontifex

An oxygen machine is to be despatched to COVID-hit northern Iraq after a leading Catholic charity agreed to fund the project. Aid to the Church in Need (ACN) approved the €55,000 (£49,360) oxygen generator system, which will be installed in Maryamana Catholic Hospital, in Erbil, the capital of semi-autonomous Kurdistan. 
 Iraq is witnessing a surge in COVID, with confirmed cases passing 500,000 this week. In his letter asking the charity to fund the oxygen machine, Chaldean Catholic Archbishop Bashar Warda of Erbil said: “I ask ACN to cover the cost [of the project] as we are very badly affected by COVID.” He added: “The community and IDPs [internally displaced people] of all faiths look to the Archdiocese to help them. We need a constant supply as oxygen is the most vital tool against the virus.”
The archbishop stressed that free COVID care was essential in Erbil, which is home to many refugees and displaced people, and the Nineveh Plains, where unemployment was up to 70 percent. Local reports describe an upsurge in cases in Erbil and Qaraqosh, and Archbishop Warda highlighted concerns especially about the virus spreading within Christian communities.
 Archbishop Warda emphasised that private hospital COVID care is prohibitively expensive and that state hospital beds are full. He added that, rather than coming to Maryamana to receive the oxygen, nurses and doctors would use refillable bottles to treat people at home. The diocese expects to treat 70 COVID patients a week. The oxygen generator will be sent to Erbil from Turkey and will take a week to install. The objective is to have it up and running before Christmas.
 ACN has already provided medical equipment for the Maryamana hospital, which was opened in 2016. Iraq is a priority country for ACN which increased its help, providing emergency and pastoral aid, after the 2014 Daesh (ISIS) invasion of Nineveh and Mosul, which sparked a humanitarian crisis. The situation remains delicate with security challenges continuing four years on from the military defeat of the militants.

Corte d’Appello accoglie il ricorso contro gli espropri illegali di terre di cristiani nel Kurdistan iracheno


La Corte d’Appello di Dohuk, nel Kurdistan iracheno, ha riaperto il caso giudiziario relativo alle appropriazioni illegali di terreni e immobili appartenenti a proprietari cristiani, concentrati in particolare nella valle di Nahla.
Con un pronunciamento emesso nei giorni scorsi, la Corte d'Appello ha bocciato la gestione del caso giudiziario finora condotta da un tribunale penale inferiore. Secondo la Corte d'appello, il tribunale inferiore ha affrontato il caso in maniera negligente e inappropriata, senza compiere adeguate verifiche sui i titoli legali di proprietà dei beni immobili contesi. Da tali documenti emerge chiaramente che i terreni e gli immobili al centro del caso giudiziario appartengono alle famiglie di 117 agricoltori cristiani caldei, siri e assiri, espropriati illegalmente dei loro beni da possidenti curdi, nel corso degli ultimi anni. Secondo fonti locali, la sentenza definitiva sul destino dei beni espropriati illegalmente sarà presto emessa dalla stessa Corte d’Appello di Dohuk.
Le appropriazioni abusive su larga scala di terreni e beni immobiliari appartenenti a famiglie cristiane sire, assire e caldee della regione del Kurdistan iracheno, come riferito dalla Agenzia Fides furono denunciate con particolare veemenza a partire dal 2016. Secondo le denunce presentate, gli espropri illegali venivano messi in atto da concittadini curdi, che operavano singolarmente o in maniera coordinata con altri membri del proprio clan familiare. 
Già a quel tempo, nel solo governatorato di Dohuk, esisteva una lista di 56 villaggi in cui l'area di terreno sottratto illegalmente a famiglie cristiane era pari a 47.000 acri. Negli ultimi anni, gli espropri illegali hanno preso di mira in maggior parte terre e case appartenenti a cristiani che hanno lasciato l'area soprattutto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, per sfuggire ai conflitti regionali e alle violenze settarie e tribali esplose con maggior virulenza dopo gli interventi militari delle coalizioni internazionali in territorio iracheno. All’inizio di ottobre anche l’Ufficio di Presidenza della Regione autonoma del Kurdistan iracheno aveva disposto la creazione di una Commissione ad hoc incaricata di verificare, documentare e perseguire i sistematici espropri illegali di terreni e beni immobiliari denunciati da proprietari cristiani registrati negli ultimi anni, soprattutto nel Governatorato di Dohuk.

12 novembre 2020

Altre 200 famiglie di sfollati cristiani fanno ritorno a Mosul e nella Piana di Ninive


Sono circa duecento le famiglie di sfollati cristiani che nelle ultime settimane e nel prossimo futuro sono già tornate o si apprestano a fare ritorno alle proprie aree di provenienza, nei quartieri di Mosul e in città e villaggi della Piana di Ninive.
La notizia relativa al ritorno in atto di un nuovo consistente gruppo di rifugiati appartenenti alle comunità cristiane locali è arrivata mercoledì 11 novembre da Zuhair Muhsin al Araji, ed è stata confermata da Najim al Jubouri, Governatore della Provincia di Ninive.
Nel dettaglio, sarebbero una novantina le famiglie cristiane che stanno rientrando a Mosul e stanno riprendendo possesso delle proprie case nella Città Vecchia e sul lato orientale della città, dopo il ripristino si condizioni adeguate di sicurezza e di servizi urbani sufficienti. Le famiglie cristiane erano fuggite dalla proprie case tra il giugno e l’agosto del 2014, quando Mosul e buona parte della provincia di Ninive erano cadute sotto il controllo delle milizie jihadiste dell’autoproclamato Stato Islamico (Daesh).
Gli sfollati cristiani di Mosul e della Piana di Ninive avevano trovato rifugio in gran parte nella Regione autonoma del Kurdistan iracheno e in particolare nei sobborghi di Erbil, il suo capoluogo.
Nel settembre 2017, poche settimane dopo la definitiva liberazione di Mosul dal regime jihadista imposto dallo Stato islamico, le autorità locali avevano già annunciato il ritorno di 1400 famiglie di rifugiati cristiani nelle proprie aree di provenienza, concentrate nella Piana di Ninive.
Adesso l’annunciato ulteriore rientro di decine di nuclei familiari cristiani a Mosul e nei villaggi della Piana di Ninive rappresenta un segnale confortante, anche se in termini percentuali i dati numerici relativi al contro-esodo di rifugiati cristiani nelle aree nord-irachene del loro radicamento storico rimangono esigui.
Buona parte dei nuclei familiari costretti a fuggire negli anni del dominio jihadista non sembrano propensi a far ritorno alle proprie abitazioni abbandonate, dopo che hanno trovato una nuova sistemazione a Erbil o nella regione di Dohuk, o dopo essere riusciti in qualche modo a emigrare all’estero.

9 novembre 2020

Iraqi priest doubles down on Christianity’s survival in the Middle East

By Crux
Inés San Martín

Ever since the rise of the Islamic State (ISIS), there’s been rising alarm regarding the future for Christians in the Middle East. A Catholic priest who recently returned to his village in northern Iraq after six years in Rome described what he found as “shocking,” but doubled down on the need for Christians to survive.
Father Karam Shamasha left the town of Telskuf in the Nineveh Plains headed to Rome back in 2014, only weeks after ISIS conquered northern Iraq, historically the cradle of Christianity in the country.
“Our presence is a salt in this region,” he said. “Our presence in this country is not only religious, it’s also educational. We have the mission of creating a peaceful atmosphere in this country, demonstrating with the testimony of our faith, love and serenity, that there are ways of living that go beyond violence and war.”
Speaking with Crux earlier this week, he discussed the many challenges Christians face still today, two years after the alleged defeat of ISIS: “ISIS has not disappeared,” he said. “We have many problems, including religious ones, because the mentality was not eliminated.”
Shamasha also urged Christians in the West not to take freedom of religion for granted, noting that when the faithful in Iraq hear of terrorist attacks in countries such as France or Austria they “panic” because if these happen in countries with strong governments and law and order, then what’s left for nations facing political instability?
The priest spoke with Crux from Erbil, the capital of the Kurdistan region, via Zoom. What follows are excerpts of that conversation, held in Italian.
You returned to Iraq a few months ago, after studying in Rome for several years. What did you find on your return?
I finished my studies two or three months ago. I was in Rome, and I went straight back to northern Iraq, where my people are and where I’m incardinated as a priest. Slowly, I’m resuming my pastoral activities, while also my educational responsibilities.
What I found on my return was shocking, because most of the people have left, gone abroad, and most of those who remain have many difficulties, including related to COVID-19, as much of the world, added to great economic challenges and political instability. Upon my arrival, I ran into problems that I had never encountered when I was the parish priest of my town before heading to Rome.
It must be said, however, that despite the many challenges we face, there’s much work to be done: from a religious point of view, there’s a lot to do to help the faithful, as they have the psychological scars caused by the violence, horrors and challenges posed by ISIS. Trust that was broken needs to be rebuilt, along with many material things.
When did you leave for Rome, before, during or after ISIS took over your village?
I went to Rome about 20 days after ISIS conquered the Nineveh Plain. I was the priest of Tuluskof. The town was taken by ISIS on August 6, 2014, and I left for Rome around the 20th. I did a doctorate in moral theology, and now I’m back.
Is your family still in Iraq?
Most of them are living abroad, as are most of my friends. Emigration began before 2014, because the discrimination against Christians is something that we’ve had in Iraq since before ISIS: it did not begin overnight.
I would say that today, there’s not a single Christian family in Iraq that doesn’t have relatives living abroad. Those who remained are mostly people who had strong jobs, perhaps teaching or in government.
But of those who left, many had stable jobs, but were victims of discrimination, and the rise of ISIS was a final straw in terms of trust.
For example, in my village, ISIS was defeated a few weeks after the occupation. Yet people were not allowed to go back home for over two years: Teleskuf was still a “red zone,” with ISIS causing havoc seven miles from our homes. In this situation, when people saw that they had lost everything and were not going to be able to return, many others decided to flee.
It must be noted, however, that for the faithful of our parishes who had to flee, things were not easy either.
In what sense?
Christians who decided to emigrate abroad did not find any European country ready to welcome them, nor refuge in the United States or Australia. They chose instead to welcome people of other religions. Nobody wanted to welcome Christians, and I wouldn’t be able to explain why. Hence, many Christian families who fled Iraq are still today in Lebanon, Turkey or Jordan, and have been for more than five years.
In these countries, they cannot find jobs because they don’t have access to documents as refugees, and they also face the challenge of not speaking the language.
Why this refusal of countries to receive Christians? Is it due to the fact that they don’t go to United Nations-sponsored refugee camps for fear of Muslims?
Many Christian families encountered problems in refugee camps, it is true: they could not, for example, wear the cross around their neck because the neighbors inside the camp were also extremists. We fled ISIS with all these difficulties, and we went abroad to refugee camps to find the same problems.
Iraqi Christians, before ISIS, lived very, very well. It is not easy for families to live in such a bad situation overnight, because before they were fine.
For years the Catholic Church has been trying to dialogue with Islam, with Pope Francis even signing a major declaration on Human Fraternity with the gran Imam of Al Azar University. Is it possible to achieve peace between Muslims and Christians in countries like Iraq or Syria?
We are called to be in dialogue. Christianity is a religion of peace, not one that seeks to create enemies. We always seek to create friends; this is our vocation. Dialogue is a vocation present in our religion and it is something we have to seek, always.
But … with whom can we have this dialogue? Because it is beautiful to see this brotherhood, these meetings, taking place. But in the end, these people who participate in the dialogue, when they return to their countries, can they speak well of Christianity in their mosques, universities, schools? Some may, but for many it is difficult to speak of Christianity in a beautiful way.
Today if we talk about Iraq, when we talk about respect for Christianity, be it from the government or from many of the other citizens, it exists in principle. But when we talk about laws, periodically we see ones that foster discrimination. For example, a few years ago a law came out stating that when a father joins Islam, all his children automatically convert.
So, if we speak of dialogue, we have to clarify that this dialogue must also take place in the countries of the people who participate in this dialogue.
We have to conduct this dialogue in a respectful way. Everyone can have their own particular religious worship, but the freedom that Muslims in Iraq have, Christians should also have.
How do you react to news of terrorist attacks in the West, for instance, what we saw in France or Austria these past days?
They generate panic for us. Because if these attacks against the human person can occur in countries that have strong governments, law and order, how can we defend ourselves, when we don’t have any of these guarantees? It’s very difficult for us to live in peace, continue with our faith, go to church.
We are trying to resume all our pastoral activities after the COVID outbreak, but we always have this fear (of an attack). The daily masses have already returned, with the prayers in Aramaic.
With so much against the odds, why do Christians want to stay in Iraq?
Because, in the end, our presence is a salt in this region. We are not called only to seek a beautiful or peaceful life. Even though we might face challenges, Christianity in our land is so important because we’ve has been here since the first century, with the Apostle Saint Thomas bringing the Good News to this land.
But our presence on this country is not only religious, it’s also educational. We have the mission of creating a peaceful atmosphere in this country, demonstrating with the testimony of our faith, love and serenity, that there are ways of living that go beyond violence and war.
It’s also important to make the West understand that our presence in this region is historical, and very relevant: Christianity is not present only in the West. For us to let others know that we are defending our faith, despite our difficulty, it is the mission that we have facing our siblings who live in the West.
Why?
Because many times, Christians in the West, accustomed to a relative religious freedom and peace, they don’t see the importance of praying, of going to church, taking it for granted.
Us who live here here, but also in many countries where Christians are persecuted in Africa or in Afghanistan and Pakistan, we have to show that despite the difficulties, despite knowing that one can be killed for going to Mass, we remain strong in our faith witnessing it daily.
Anything you want to share with our readers?
We need your prayers. Because we are still living very difficult times. It is not that ISIS disappeared, we still have many problems, also religious, because the mentality was not eliminated. We pray that this country will find a more lasting peace, and we also pray for you.
I would also like to share that what helped us overcome so many psychological problems and from the loss of important material things in that period in which we were away from our homes, was the divine presence. We touched the hands of God who protected us, helped us remain strong. Without his help, we would not have the strength we have, and we couldn’t be faithful to the end.
God’s grace helped us, guided us, and protected us until we reached safety. This safety might not be a material place, but one where we can rest our head in God’s hands and find solace in being close to him.

Come Gesù Cristo, costretti a fuggire. L’esperienza di padre Yako




30 ottobre 2020

Oggi la Chiesa celebra la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Saluto i rifugiati e i migranti presenti in Piazza intorno al monumento intitolato “Angeli senza saperlo” (cfr Eb 13,2), che ho benedetto un anno fa. Quest’anno ho voluto dedicare il mio messaggio agli sfollati interni, i quali sono costretti a fuggire, come capitò anche a Gesù e alla sua famiglia. «Come Gesù costretti a fuggire», così gli sfollati, i migranti. A loro, in modo particolare, e a chi li assiste va il nostro ricordo e la nostra preghiera.
Era il 27 settembre quando Papa Francesco, all'Angelus, ricordò la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato sul tema: “Come Gesù Cristo, costretti a fuggire. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare gli sfollati interni”. 
Nell’ottavo video realizzato dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che da giugno ha promosso una campagna di comunicazione, si ripercorre quell’importante momento che ha toccato il cuore di tante persone e di chi le assiste come padre Jalal Yako, missionario rogazionista iracheno, che lavora a stretto contatto con gli sfollati interni.
Raccontando la sua esperienza nel campo di Erbil, ricorda le 250 famiglie costrette a vivere in un container in condizioni difficili soprattutto per il freddo. “Gente – afferma – che aveva bisogno della presenza della Chiesa per riacquistare speranza”
Padre Jalal definisce la sua esperienza come un momento di crescita, di amicizia, di umanità e di essersi sentito investito della presenza di Gesù in questa missione. Infine il ringraziamento ai tanti buoni samaritani che continuano ad aiutare le persone nel campo profughi.

5 novembre 2020

Sacerdote caldeo: dai giovani cristiani e musulmani la rinascita di Mosul


Mosul e la piana di Ninive hanno avviato un lento cammino di rinascita dopo anni di violenze confessionali e di dominio jihadista, con iniziative che vedono uniti cristiani e musulmani, soprattutto fra i giovani.
L’iniziativa raccontata ieri dei volontari di Sawaed al-Museliya “è una delle tante” conferma ad AsiaNews don Paolo Thabit Mekko, responsabile della comunità cristiana di Karamles, ma è segno “dello spirito che regna in buona parte della popolazione”. Sono gli stessi musulmani, aggiunge il sacerdote, “che collaborano per recuperare, pulire e allestire le chiese, perché pensano siano funzionali al ritorno dei cristiani nella regione”.
“Si tratta di piccoli gruppi, in larga parte formati da giovani - spiega don Paolo - pieni di buona volontà e che cercano di mettere in campo iniziative positive. Fra qualche giorno, alcuni giovani musulmani prenderanno parte alle operazioni di ripristino della cattedrale dei caldei di Mosul”. Questi gesti, avverte, “testimoniano che vi è un cambiamento nella mentalità e aiutano anche altri ad impegnarsi sulla strada del dialogo e del confronto”.
A conferma di un rinnovato clima di fiducia, anche la controversia esplosa di recente fra la Francia e il mondo islamico non ha avuto pesanti riflessi. Qualche scontro sui social, ma all’atto pratico non vi sono state proteste, scontri e manifestazioni in una piazza in passato assai calda.
Per il sacerdote caldeo, da anni impegnato nella cura delle migliaia di famiglie fuggite nell’estate del 2014 in seguito all’ascesa dello Stato islamico (SI, ex Isis), questo processo “avviene partendo proprio dai giovani, che dalla liberazione di Mosul hanno promosso un numero crescente di progetti e iniziative”. Forse manca una regia da dietro le quinte, avverte, che sia funzionale a un migliore uso delle risorse. Tuttavia, “resta l’impegno comune e la partecipazione anche in questo tempo di pandemia di nuovo coronavirus”, con gruppi cristiani e musulmani che “si prodigano per allestire spazi per isolamento e quarantena e aiutano portando cibo, medicine, generi essenziali”. 
Alcuni musulmani, in caso di bisogno, “vengono anche qui da noi, nella piana di Ninive, per dare una mano” conferma don Paolo. “Adesso è prioritario l’intervento di reparti specializzati per rimuovere le mine che hanno piantato nel terreno i membri dello Stato islamico, ve ne sono anche attorno alle nostre chiese”. Compiuta questa operazione “possiamo ripartire a costruire, anche perché la situazione oggi appare più tranquilla”.
Fra le iniziative completate nell’ultimo periodo il centro culturale a Karamles, ma vi sono “altri progetti allo studio, sebbene manchino ancora i fondi, con l’obiettivo di salvaguardare la nostra identità”. “Nel centro culturale - racconta il sacerdote - vi è al primo piano una grande sala per i matrimoni, poi un’aula per il teatro e altre iniziative comunitarie, un bar. Infine una parte adibita a museo del villaggio in cui sono conservate anfore, attrezzi da cucina, altri utensili che abbiamo recuperato da uno spazio già allestito in precedenza, oggi in disuso. Abbiamo dato vita a una mostra che ripercorre, in modo ideale, la storia del territorio preservando pure l’elemento architettonico”. 
La ricostruzione completa di Mosul e della piana è ancora lontana, ma “sono stati compiuti diversi passi” in questo tempo, nonostante le difficoltà. Un altro esempio è la rinascita di un quartiere storico di Mosul, nei pressi della città vecchia, devastato dai jihadisti e in cui oggi vi sono diversi ristoranti tradizionali e un grande mercato del pesce. “La pandemia di Covid-19 - afferma il sacerdote - è una delle tante e un po’ ci ha rallentato, ma non possiamo certo fermarci per il virus”.

4 novembre 2020

Volunteers want Christian to return to Mosul where Daesh once ruled

November 3, 2020

 Young volunteers have been clearing dust and debris from St. Thomas church in Mosul, as the Iraqi city occupied by Daesh militants seeks to sweep away the horrors of a brutal three-year rule and welcome back members of minority faiths.
The Syriac Catholic church, dating from the mid-1800s, was looted by the hard-line extremist movement after it invaded Mosul in 2014 and has been abandoned ever since. The militants were finally driven out of Iraq’s second largest city in 2017.
 “This is a message to say ‘Come back, Mosul is not complete without you’,” said Mohammed Essam, co-founder of a local volunteer group, after a day of cleaning rubble and dirt from the floors of the church and the courtyard outside. There are still reminders of Daesh’s occupation.
The words “Land of the Caliphate” are painted in Arabic script on one wall, a reference to the group’s ambition of carving out its own territory across the Middle East. Until the fall of Saddam Hussein in 2003, about 45,000 Christians lived in Mosul, Father Raed Adel, in charge of the city’s Syriac Catholic churches, told Reuters.
Their numbers kept dwindling, and the Christians who were left fled the area when Daesh fighters took over in June, 2014.
Essam remained and witnessed atrocities committed against religious minorities by the militants. “We want to change the perception people in the region and beyond have about Mosul,” he explained. “We want to say that Christians belong here. That they have a rich history here.”
Since the liberation, the “Sawaed Al-Museliya” (Arms of Mosul) volunteer group has provided community services including emergency food support and raising funds for rebuilding homes belonging to the city’s poorest residents. By clearing up the church, they want to support the local Christian community’s efforts to restore damaged properties and also reassure Christians who fled. “Even though they left, we are committed to take care of them and of their places of worship,” Essam said.
On the other side of the city, Father Adel holds a Sunday service in Mosul’s main operating church of Bishara. “Since the city was liberated from Daesh, there is a new mentality among people originally from Mosul, including Muslims. This encourages the return of Christians, even though it is a modest return. But it is a first step along a long path.”
Only about 50 Christian families have returned to live in the city so far, although more come to work or study each day, crossing from Iraq’s northern Kurdistan region where they found refuge in 2014, Father Adel said. “Our youth are the hope of this city after it suffered so many difficulties and problems,” Father Adel said. “It was in a tunnel of darkness.”

Mosul, giovani musulmani ripuliscono chiese e collaborano al ritorno dei cristiani


“Questo è un messaggio che lanciamo [ai cristiani], diciamo loro: tornate, Mosul non è completa senza di voi!”. È quanto racconta Mohammed Essam, cofondatore di un gruppo di volontari della metropoli del nord dell’Iraq, impegnati a ripristinare l’uso di edifici storici della città, anche cristiani, nel tentativo di superare le drammatiche ferite inferte da anni di dominio dello Stato islamico (SI, ex Isis). Assieme ad altri ragazzi, musulmani, egli in questi giorni sta ripulendo da polvere, detriti e calcinacci la chiesa siro-cattolica di san Tommaso. 
Lo storico luogo di culto risale alla metà del 1800 ed è stato oggetto di depredazione e distruzione dei miliziani del “califfato”, che nell’estate del 2014 avevano conquistato il controllo di Mosul e di gran parte della piana di Ninive, costringendo i cristiani (come gli yazidi, altri musulmani, sabei) alla fuga verso un riparo nel Kurdistan irakeno.
Un dominio durato fino all’estate del 2017 e perpetrato con la violenza e il terrore, oltre alla devastazione di luoghi simbolo come la moschea di al-Nouri e la chiesa di Al-Saa (Nostra Signora dell’Ora).
Dopo il saccheggio, avvenuto durante l’estate del 2014, la chiesa di san Tommaso ha versato in stato di abbandono, rischiando il crollo completo della struttura. Il gruppo di giovani volontari ha voluto considerarla un simbolo di rinascita, nel tentativo di “spazzare via” le brutalità e gli orrori del dominio jihadista, come la scritta “Terra del Califfato” in arabo che campeggiava su uno dei muri dell’edificio.
Un riferimento alle ambizioni del gruppo sull’intero Medio oriente. 
Lo stesso Essam ricorda, avendole vissute in prima persone, le atrocità commesse dagli uomini di al-Baghdadi. “Vogliamo cambiare - afferma - la percezione della gente nella regione, e in tutto il mondo, sulla città di Mosul. Vogliamo dire che i cristiani appartengono a questa terra. Essi hanno una ricca e preziosa storia alle spalle qui”. 
Fin dalla liberazione il gruppo chiamato “Braccia di Mosul” (Sawaed al-Museliya, in arabo) ha fornito assistenza e aiuti, distribuendo cibo e beni di prima necessità ai più bisognosi, ricostruendo case, soprattutto quelle appartenenti ai più poveri. Pulendo la chiesa, essi intendono sostenere gli sforzi della locale comunità cristiana a ricostruire edifici, strutture, beni e proprietà storiche e preparare il terreno per il ritorno di quanti sono fuggiti in passato a causa delle violenze etniche e confessionali.
 “Vogliamo prenderci cura di loro - sottolinea - e dei loro luoghi di culto”
Finora solo una cinquantina di famiglie cristiane sono tornate a Mosul, sebbene ogni giorno a centinaia dalla piana di Ninive e dai villaggi cristiani si dirigono nella metropoli per motivi di studio e di lavoro. I giovani, conclude una fonte cristiana del nord dell’Iraq, sono “la speranza di questa città, che molto ha sofferto in passato avendo attraversato un tunnel oscuro”.

Arab News
November 3, 2020
Volunteers want Christian to return to Mosul where Daesh once ruled

3 novembre 2020

Continua la campagna di intimidazione nei confronti dei cristiani in Iraq

By Baghdadhope*

La campagna di intimidazione nei confronti dei cristiani in Iraq non è mai finita. 
Nelle passate settimane si sono verificati 4 esplosioni dolose nei confronti di altrettanti negozi che vendono alcolici gestiti da cristiani ed attribuibili, secondo l'Iraq Security and Humanitarian Monitor, ad un gruppo che si fa chiamare “Ahbab Allah” (Amanti di Dio) e che sarebbe legato alle potentissime milizie sciite che controllano la maggior parte del territorio nazionale. 
A queste notizie si aggiunge quella pubblicata oggi da Ankawa.com secondo la quale uomini armati hanno sparato, ferendo un uomo e danneggiando molte auto parcheggiate, verso uno studio legale che si occupa di difendere i diritti delle famiglie cristiane. 
A compiere l'attacco secondo uno dei legali uscito poco prima dallo studio ed il cui fratello è l'uomo ferito sarebbe stato un gruppo criminale che opera nel campo immobiliare. 
Dal 2003 a centinaia, ma più probabilmente a migliaia di famiglie cristiane in Iraq, soprattutto a Baghdad prima ed a Mosul dopo, sono state espropriate le case e le attività lavorative con la forza o con l'inganno.
Un problema, quello delle proprietà sottratte ai cristiani, che lo stesso patriarca Louis Raphael I Sako, aveva sottolineato nel messaggio indirizzato ai fedeli in occasione del sesto anniversario della sua nomina a patriarca avvenuta nel 2013. 

Commemorazione dei defunti nella chiesa caldea della Sacra Famiglia al Cairo

By Baghdadhope*

Il sito del patriarcato caldeo da notizia della celebrazione di una messa per la commemorazione dei defunti nella chiesa della Sacra Famiglia al Cairo.
La chiesa è stata restaurata  dopo 45 anni di abbandono e si trova al
l'interno del "Complesso delle Religioni" il luogo che accoglie nella Cairo Vecchia luoghi di culto delle tre religioni monoteistiche: la moschea di Amr Ibn Al-As, la sinagoga Ben Ezra e diverse chiese cristiane. 
La cerimonia è stata officiata dal'amministratore patriarcale caldeo della diocesi del Cairo, Padre Paulus Sati, che ha anche benedetto le tombe vicine e che ha in programma di celebrare messe su base regolare nel luogo di culto. 






Si legge: Patriarcato cattolico caldeo
Diocesi del Cairo
Chiesa della Sacra Famiglia
Cimitero della confessione caldea

Chaldean worshippers gather for All Saints' mass, nearly ten years after Baghdad massacre


November 2, 2020 

Worshippers, wearing protective masks due to the COVID-19 pandemic, attended a mass on All Saints' Day at the Chaldean Cathedral of Saint Joseph in Baghdad on Sunday. 
This comes a day after the ten year anniversary of a devastating massacre against the Iraqi capital's Christian community, which saw the deaths of 58 people at the hands of al-Qaeda. 
 "For Assyrians, October 31 will always be a day of remembrance, reflection, and mourning as we struggle to comprehend the incomprehensible—the senseless act of evil that caused such a tragic loss of life ten years ago at Our Lady of Salvation Syriac Catholic Church in Baghdad," reads a Saturday statement from the Assyrian Policy Institute. "We remain heartbroken by this heinous crime, and we continue to express our solidarity with the survivors, families, and friends who still bear the pain of this tragedy every day," it adds.

“Fiaccole della fede che illuminano il nostro cammino”. Commemorati a Baghdad i martiri della chiesa di Nostra Signora del Soccorso, a 10 anni dalla strage



“I nostri martiri sono le fiaccole della fede che illuminano il cammino dele nostre vite, e accendono in noi il fuoco della carità verso tutti”. Così Ignace Yussif III Younan, Patriarca di Antiochia dei siro cattolici, ha celebrato alla vigilia di Ognissanti i martiri cristiani vittime della strage perpetrata 10 anni fa a Baghdad, nell’assalto compiuto da un commando di terroristi jihadisti contro la chiesa siro cattolica di Nostra Signora del Soccorso.
Nell’attacco terroristico, avvenuto il 31 ottobre 2010, furono massacrati 48 cristiani, e 80 persone rimasero ferite. Il commando fece irruzione nella chiesa durante la messa, alla quale stavano partecipando 150 persone tra sacerdoti, diaconi, coro e fedeli. I cinque terroristi presero in ostaggio tutti i presenti, chiedendo la liberazione di esponenti della rete jihadista di al Qaeda. Le forze di sicurezza irachene insieme a soldati statunitensi tentarono un blitz per liberare gli ostaggi, e i terroristi a quel punto fecero esplodere ordigni tra le persone che erano state prima costrette a sdraiarsi per terra, provocando la strage.
I primi ad essere uccisi erano stati i due giovani preti, padre Thaer Abdal e padre Wassim Kas Boutros, colpiti mentre cercavano di fermare gli stragisti. Padre Thaer, che stava celebrando la liturgia eucaristica, era sceso dall’altare per provare a parlare con i terroristi, ed era stato freddato da uno di loro. La stessa sorte era toccata a Wassim, che era uscito dal confessionale per provare a fermare i terroristi.
"Il sangue dei nostri martiri” ha ricordato durante l’omelia il Patriarca Ignace Youssif III - si è mescolato al sacrificio dell'agnello sull'altare, e le loro anime salite al cielo ci guardano dall’alto con tenerezza, intercedendo per noi”. Nel corso dell’omelia, il Primate della Chiesa siro cattolica ha auspicato che la causa di canonizzazione per tutti i 48 martiri sia "completata dalle autorità competenti della Santa Sede, in modo che possiamo celebrare il loro rito di beatificazione il prima possibile".
La strage della chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso rappresenta il più grave attentato compiuto contro cristiani nell’Iraq degli ultimi decenni. Dopo quel massacro, tanti cristiani sono stati spinti a lasciare Baghdad. “Ma i nostri martiri” ha rimarcato il Patriarca Younan “ci assicurano che la loro vittoria finale è per sempre, e che la nostra vera dimora è in Paradiso, dove non c'è né pianto, né tristezza, né dolore, ma vera felicità con il Signore e la Vergine, Nostra Signora del perpetuo Soccorso, insieme a tutti i Santi”. Nel corso della sua visita a Baghdad, il Patriarca Ignace Youssif III Younan è stato ricevuto anche dal Presidente iracheno, il curdo Barham Salih, che nel corso dell’incontro ha ribadito il suo impegno a frenare l’esodo dei cristiani dall’Iraq, ribadendo che la comunità cristiana rappresenta una componente fondamentale del tessuto sociale iracheno.
Alla fine di ottobre del 2019 si è conclusa a Baghdad la fase diocesana della Causa di Beatificazione e Dichiarazione di Martirio dei 48 servi di Dio trucidati nella chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso. Tra di loro figurano anche il piccolo Adam, di 3 anni, e un neonato di soli 3 mesi.

Syriac patriarch: 'Our martyrs are torches of faith'


Doreen Abi Raad

Commemorating the 10th anniversary of the massacre by Islamic militants at Our Lady of Deliverance Church in Baghdad, Syriac Catholic Patriarch Ignace Joseph III Younan reminded the faithful that "our martyrs are the torches of faith that illuminate our paths of life and ignite in us the fire of love toward everyone."
 Two priests were among the 48 people who were killed during the attack Oct. 31, 2010. The youngest victim was 3. More than 80 people were wounded. "Many of you knew the martyrs closely: the two young priests, Father Thaer Abdal and Father Wasim Al kass Petrous, the children, the young men and women, the fathers and mothers" as they prayed and participated in the sacrifice of the Mass on the eve of All Saints' Day "when the cowardly criminals" went on a rampage, "killing relentlessly," the patriarch said in his homily. The interior of the church, its bloodstained walls pock-marked with bullet holes, has since been renovated. "The blood of our martyrs was mixed with the sacrifice of the lamb on the altar, and their souls ascended to the sky looking at us from its perch with tenderness, interceding with us," Patriarch Younan said.
The patriarch, who visited Baghdad from the patriarchate in Beirut, prayed that the cause for canonization for all 48 martyrs would be "completed by the competent authorities in the Holy See, so that we can return and celebrate their rite of beatification as soon as possible."
The massacre was considered "a wake-up call for Christians" that led to the displacement of the largest number of Christians in modern times, not only from Baghdad, but from all parts of Mesopotamia, Patriarch Younan said. "No matter what injustice and calamities befall us, we will not become advocates of violence or revenge, but messengers of peace, brotherhood, and tolerance," the patriarch said. "Our martyrs assure us, as well as their cowardly killers, that the true final victory is for good, and that our true dwelling is in heaven where there is neither crying, sadness, nor pain, but true happiness with the Lord and the Virgin 'Our Lady of Deliverance' and all the saints," Patriarch Younan assured the faithful.