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10 febbraio 2020

Incontro Cei su Mediterraneo. Card. Sako (Baghdad): “La vera sfida è il nostro futuro”

By AgenSIR
Daniele Rocchi

“Al momento le condizioni di sicurezza non sono buone. La speranza è che il Papa possa venire in Iraq magari in autunno. Il popolo iracheno lo aspetta con ansia ed emozione. La sua presenza tra noi sarebbe un segnale concreto di forte vicinanza a tutti i Paesi del Medio Oriente, in particolare quelli segnati dalle guerre e dalle tensioni, come per esempio la confinante Siria e lo stesso Iran”.
Incontriamo il patriarca caldeo di Baghdad, card. Louis Raphael Sako, dopo l’incontro avuto in Vaticano con Papa Francesco, venerdì 7 febbraio, insieme ad altri patriarchi cattolici di Libano, Iraq, Siria ed Egitto. “È stato un incontro necessario – racconta al Sir il cardinale –L’atmosfera è stata molto fraterna e schietta. Abbiamo esposto al Papa le sfide delle nostre Chiese e dei nostri Paesi. Gli abbiamo raccontato la vita dei cristiani. Noi abbiamo bisogno del sostegno del Pontefice per fare fronte a tutte le sofferenze che stiamo patendo. Siamo diventati una esigua minoranza e il nostro avvenire è minacciato. Abbiamo sentito tutta la sua vicinanza e più volte ha ripetuto che anche lui è patriarca, patriarca di Roma, ed è con noi, con le Chiese orientali che sono isolate vivendo in Paesi a maggioranza islamica. È stato un incontro che ci ha confermato nella fede e ci ha donato nuova forza e speranza”. Il card. Sako sarà a Bari per l’incontro dei vescovi promosso dalla Cei, “Mediterraneo, frontiera di pace” (19-23 febbraio). Anche in quell’occasione, spiega, “racconterò le sfide delle nostre Chiese”.
Eminenza, c’è una sfida, su tutte, che accomuna le Chiese del Medio Oriente?
È quella del nostro futuro. La vera sfida è come tenere i nostri fedeli nei loro Paesi, nonostante le gravi difficoltà legate all’instabilità, all’insicurezza sociale e economica, alle guerre. In Iraq ogni giorno contiamo i morti, i feriti. Anche in Siria. Come si può vivere in questo contesto di paura? I cristiani, come tutti, cercano stabilità, certezze per il futuro dei propri figli e famiglie. Vogliono andarsene. La sfida è aiutarli a restare.
A questo proposito: c’è una critica rivolta ai patriarchi delle Chiese orientali di essere conniventi con i regimi dittatoriali dei rispettivi paesi, Siria, Iraq, Libano, Egitto, tanto per fare dei nomi. Come risponde?
Per quanto riguarda l’Iraq le cose sono molto cambiate. Abbiamo un canale di comunicazione aperto con le istituzioni, esprimiamo apertamente le nostre idee. Ma va detto anche che è opportuno conoscere bene la mentalità e la situazione dei vari Paesi. I cristiani cercano la sicurezza e la stabilità che adesso non esistono. La paura è di cambiare un regime per cadere in mano ad uno peggiore. Noi in Iraq ne sappiamo qualcosa: il regime è caduto nel 2003 e da 17 anni non c’è niente. Viviamo sulla nostra pelle l’anarchia. Se oggi esco da casa non sono sicuro di rientrare. Avere qualcuno, anche se dittatore, che mantiene la sicurezza diventa una sorta di male minore. In Siria prima della guerra i cristiani erano circa il 20% oggi si e no il 6%, una grande perdita. Cambiare per cambiare fa male. Bisogna prima formare la gente alla democrazia, alla libertà, ma non con gli slogan. Davanti agli occhi ho gli esempi anche del Libano, della Libia, dello Yemen, della Siria.
In Iraq, e anche in Libano, stanno germogliando semi di risveglio democratico, con piazze piene di gente, di ogni credo, etnia e fede politica, che rivendicano diritti, servizi, la fine della corruzione e giustizia. Lei è stato a piazza Tahrir, a Baghdad, centro nevralgico della protesta, dove è stato accolto con grande entusiasmo. 

Ricordo il sabato che siamo andati con i miei vescovi ausiliari nella Piazza. Abbiamo ricevuto una grande accoglienza, festosa. Centinaia di persone sono venute a salutarci. Prima di noi nessun chierico, anche musulmano, era andato a trovarle. Mi dicevano che ero il patriarca di tutti. Le rivendicazioni dei manifestanti sono giuste e condivisibili. Come non condividere le istanze di verità, di giustizia, di bene comune, di cittadinanza, di patria? Oggi è tutto settario, non esiste un concetto di patria, tutto è diviso, frammentato, anche la fedeltà. Nei manifestanti ho percepito la presenza di Cristo nella loro voglia di fratellanza, di giustizia, di bene.
Lei più volte ha parlato di teologia della liberazione…

È dovere della Chiesa leggere i segni dei tempi, come in America Latina. I nostri giovani, uomini e donne, stanno sacrificando il loro sangue per la causa della pace, della giustizia, della dignità umana e della libertà. Fino ad oggi abbiamo contato 600 morti e 25mila feriti. C’è una realtà nella quale la Chiesa deve essere presente per donare una parola di speranza. Non dobbiamo restare fuori da questo tempo. Ho chiesto ripetutamente alle autorità irachene di ascoltare le richieste delle piazze perché a farle sono i loro stessi figli. Essi sono il futuro dell’Iraq.
Da sempre è fautore della nascita di uno Stato laico: crede sia maturo il tempo?
Lo Stato laico è la soluzione alle crisi dei Paesi del Medio Oriente. Uno Stato laico significa la fine del settarismo. Devo dire che spesso vengo criticato dai cristiani (ride, ndr) perché parlo di politica. Ma per me è un’occasione per formare le coscienze. Gli stessi musulmani vogliono ascoltare qualcosa di diverso da ciò che sentono abitualmente. L’Islam politico punta a fondare uno Stato teocratico ma non può funzionare. Non siamo nel Medioevo. La Religione e lo Stato sono due campi distinti. La religione ha princìpi, la politica ha interessi, purtroppo spesso personali e particolari. Io parlo invece di uno Stato civile, basato sulla cittadinanza, che abbia come obiettivo l’integrazione e il servizio di tutte le sue componenti senza distinzione alcuna. Oggi anche le autorità sciite cominciano a parlare di Stato civile, anche se non so ancora in che termini. Ma per me il concetto è chiaro: separazione tra Stato e Religione e rispetto dei valori spirituali e morali del popolo che ha bisogno di vivere nella libertà senza paura. Non parlo solo dei cristiani ma di tutti gli iracheni. Un vescovo, un sacerdote, non è solo per il gregge ma è per tutti. L’aiuto, l’assistenza, il sostegno vanno dati a tutti senza differenze. Questa è una grande testimonianza.

In questo processo di rinnovamento, da lei auspicato, verso uno Stato laico il Documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi che importanza riveste?
Lo definirei il manifesto di questo processo. Il documento ha cambiato un po’ il mondo musulmano che oggi appare più aperto ai cristiani. Mai avremmo pensato di vedere celebrare una messa del Papa nella penisola arabica. Per la prima volta i musulmani hanno potuto vedere cristiani pregare con rispetto e ascoltare i testi della liturgia. Vedere l’altro, conoscerlo, suscita domande di incontro e di scambio.
Di cittadinanza e di laicità si parla molto anche nell’Esortazione post sinodale “Ecclesia in Medio Oriente” di Benedetto XVI. Che cosa resta di questo documento, 10 anni dopo il Sinodo per il Medio Oriente?
Mi ricordo che, durante una visita ad limina, presentai io stesso a Papa Benedetto la richiesta di un sinodo. Questa nasceva dalla consapevolezza che essendo noi chiese piccole avevamo – e abbiamo – bisogno di lavorare insieme per continuare ad avere un futuro. Il Sinodo fu celebrato nel 2010, in ottobre. Poi sono venuti problemi legati ad Al Qaeda, alla nascita dell’Isis, con le bombe nelle Chiese. Basti citare quella del 31 ottobre, solo pochi giorni dopo la fine del Sinodo, a Baghdad dove per mano dei terroristi morirono oltre 50 fedeli. Il Sinodo per il Medio Oriente non è stato tradotto nella pratica della vita delle nostre Chiese. Sono convinto, oggi come ieri, che le nostre chiese di rito orientale debbano lavorare insieme. Tra di noi ci sono chiese piccole e grandi, con più e meno possibilità. Penso alle scuole, agli ospedali, alle case per i più bisognosi gestite da queste Chiese. Se vogliamo avere futuro dobbiamo unire forze e competenze.
Prima andrebbero risolte delle rivalità interne tra Chiese…
Dentro le Chiese c’è un forte tema legato all’identità etnica e quindi al nazionalismo che non combacia con quanto la Chiesa indica. Si parla per esempio di ‘maronitismo’, di ‘caldeismo’. Dobbiamo piuttosto essere attenti a preservare la nostra appartenenza alla Chiesa universale e alla sua missione. Come Chiese orientali abbiamo perso la dimensione missionaria con l’avvento dell’Islam. I caldei, in quell’epoca, andarono a predicare il Vangelo in India e in Cina. Il risorgente nazionalismo è una sfida che non deve trovarci impreparati.
Lei sarà a Bari per il meeting organizzato dalla Cei “Mediterraneo, frontiera di pace”. Un momento di incontro tra Chiese che si conoscono forse poco e si parlano ancora di meno. Cosa si attende da questo evento cui parteciperanno 58 tra vescovi e Patriarchi cattolici dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo?
Mi aspetto che si possa parlare con chiarezza delle sfide non solo per i cristiani ma anche per i popoli di questi Paesi. Vanno rimosse tutte le barriere che ci sono tra noi. Una grande sfida sono le migrazioni che impoveriscono anche culturalmente questi Paesi che perdono cervelli brillanti. Le migrazioni pongono poi altre sfide, quella dell’accoglienza prima e dell’integrazione poi. Chi arriva non può essere lasciato solo al suo destino, ghettizzato. Come Chiese orientali cerchiamo di assistere i nostri fedeli in diaspora, cercando di assicurare loro anche una cura spirituale. Ma occorre soprattutto studiare una pastorale adatta che mantenga viva la loro tradizione e identità ecclesiale e che tenga conto, nel contempo, del paese in cui vivono. Sono Paesi che hanno mentalità, culture, tradizione e lingue diverse. Il nostro patrimonio di fede orientale può essere anche un modello per l’Occidente secolarizzato. I rifugiati possono aiutare in questo. Con la nostra sofferenza, con i nostri martiri, con la nostra fedeltà siamo un dono alla Chiesa universale. I cristiani dell’Occidente sono esortati da quelli orientali, che hanno pagato a caro prezzo la loro fede in Cristo, a far rivivere la loro fede. C’è necessità di parlarsi.
Magari con un linguaggio nuovo, diverso?
Cerchiamo un nuovo vocabolario comune per parlare di fede. Ripartiamo dalla Bibbia, dalla teologia biblica ma con un linguaggio più comprensibile, incarnato nella vita quotidiana. Parlare della fede cristiana ai musulmani è anche la nostra missione e farlo con un linguaggio adatto è un dovere. Con questo linguaggio classico, filosofico metafisico non si può. Unione ipostatica, physis, prosopon, sono degli enigmi per moltissimi. Dobbiamo, inoltre, rivolgerci ai giovani e i social media sono un ottimo strumento per farlo. Dobbiamo parlare loro di vita, di fratellanza, di rispetto, di progresso umano e spirituale, di cura del Creato. Tutte le guerre sono divampate nel mondo per motivi economici. Ma Gesù ci insegna che non di solo pane vive l’uomo ma di ogni Sua parola. Facciamola sentire, allora, questa Parola. Il Papa ci offre un grande esempio. Egli comprende l’uomo e sa parlare al suo cuore.
Non si può negare che attorno alla figura del Papa si agitano polemiche che creano divisioni e polarizzazioni tra gli stessi fedeli. Perché secondo lei?
Papa Francesco è per i musulmani una figura straordinaria, è molto stimato, tutti ne parlano. Per noi cristiani è una grazia. Ma, si sa, nessuno è perfetto e la gente non è mai contenta di tutti e così critica. Hanno criticato anche Gesù. Sento dire che non parla mai delle discriminazioni e delle persecuzioni contro i cristiani. Non è così, ne parla sempre. Chiede rispetto per loro e per questo dialoga con i musulmani. Sono certo che il bene resta e verrà fuori e così anche le chiacchiere finiranno.