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27 gennaio 2020

Teologi in Iraq e Brasile Liberazione ed Ecocene

By Corriere della Sera
Lorenzo Cremonesi e Annachiara Sacchi

La Chiesa cattolica attraversa in Vaticano una stagione di tensioni. La Chiesa cattolica vive in periferia una stagione di rinnovata militanza.
Ne sono protagonisti il cardinale di Bagdad, Louis Raphaël I Sako, schierato con i «ribelli» di piazza Tahrir, e Leonardo Boff, padre della teologia della Liberazione e, ora, di una nuova teologia dell’ambiente
«No, non ho paura di dirlo ad alta voce. Sostengo apertamente , pubblicamente i giovani di piazza Tahrir, come del resto quelli che scendono a manifestare nelle piazze del sud dell’Iraq: a Bassora, a Nassiriya, a Najaf, a Qarbala, ad Al Kut. Sono la speranza per un Iraq diverso, più umano, più giusto. Tollerante». Occorre sentirlo di persona per capire che al patriarcato caldeo di Bagdad si respira un’aria diversa, aperta, coraggiosa, decisa a cambiare le cose. Non una Chiesa timorosa, piegata su sé stessa, preoccupata soprattutto di non esporsi. Bensì pronta a rischiare, a combattere, a fare sentire la propria voce. La incarna un settantenne dal volto mite, sorridente, piccolo di statura, apparentemente fragile. Apparentemente. Perché appena gli parli le sue parole sono chiare, nette, quasi militanti. «Io credo che qui in Iraq si debbano applicare i parametri della Teologia della Liberazione, della Chiesa che sta con i poveri contro i potenti, contro le ingiustizie, contro i settarismi, che si schiera con coloro che lottano per i diritti contro la corruzione, contro le divisioni, contro i partiti confessionali», dice Louis Raphaël Sako.
Nulla a che vedere con i lunghi silenzi e le reticenze degli anni scorsi. Ai tempi di Saddam Hussein, oltre a lamentarsi della fuga dei cristiani dell e Chiese orientali e del fatto che erano stati abbandonati dal mondo occidentale, gli alti prelati iracheni in genere preferivano restare nell’ombra. Non il cardinale Sako.
Si vede che non è ancora abituato al titolo. «Lo ha voluto Papa Francesco nel maggio 2018. Spero di essere all’altezza. Ma per me qui non cambia niente. Sto con la mia gente», dice mostrando un suo scritto — dopo la visita ai giovani manifestanti di piazza Tahrir ai primi di novembre — in cui traccia «un parallelo diretto tra la Teologia della Liberazione, nata e cresciuta tra le Chiese in America Latina negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, e la situazione irachena».
La sua immagine di fronte al «Ristorante Turco», il grande palazzo in costruzione che è diventato il quartier generale delle rivolte, ha fatto capolino anche sui social media. Lui è stato applaudito , ma ha anche subito pesanti minacce. Ora la sua abitazione è presidiata dalla polizia notte e giorno. Non è strano che tra i circoli diplomatici occidentali a Bagdad non siano pochi a temere per la sua sorte. «Il cardinale Sako rischia grosso. Sta sfidando apertamente l’Iran e le milizie sciite che lo sostengono. Questo resta un Paese violento, gli omicidi politici sono all’ordine del giorno. Teheran controlla i gangli vitali dello Stato iracheno», ha detto una fonte diplomatica anonima a «la Lettura».
Sako tira dritto. «Io seguo il Vangelo. Qui ci sono ragazzi che vengono rapiti e uccisi ogni giorno. Ma rappresentano anche la prima vera possibilità di rinascita del Paese dopo la catastrofe in cui è piombato dal tempo funesto dell’invasione americana del 2003», spiega.
Cardinale, la stampa locale e internazionale l’ha ripresa mentre andava a piazza Tahrir su un modesto tuktuk, una motoretta. Pare che lei sia stato l’unico esponente religioso a farlo. Quale è stato il suo messaggio?
«Molto semplice: per la prima volta dopo oltre quarant’anni ho compreso chiaramente che quei giovani manifestanti rappresentano un Iraq assolutamente nuovo, un Iraq inedito, mai visto. Anche in Libano accade con le manifestazioni di piazza a Beirut, ma la polizia là non spara. Qui invece sfidano i cecchini e le provocazioni violente dei loro nemici. Noi abbiamo il dovere di ascoltarli. Hanno già perso centinaia dei loro, forse più di 600 uccisi dall’inizio di ottobre; oltre a 22.500 feriti. Sono cifre spaventose. Ma loro continuano. Sono coraggiosi, generosi».
In che senso il loro messaggio è nuovo?
«Questo è un Paese arretrato, spesso primitivo, violento. Trionfano le identità tribali, settarie, beduine. L’idea di nazione e di cittadinanza non esiste; è sconosciuta. Nelle scuole i programmi di studio sono arretrati, premoderni. I giovani manifestanti esaltano prima di tutto l’identità nazionale irachena. Non fanno differenze tra sciiti, sunniti, curdi o altro ancora. Dicono che prima di tutto siamo iracheni, eguali di fronte alla legge e allo Stato, tutti con gli stessi diritti. So che per voi in Europa sono principi scontati. Non qui».
Anche Saddam Hussein, ucciso il 30 dicembre 2006, esaltava il nazionalismo iracheno. Vuole tornare indietro a quegli anni?
«Assolutamente no. Saddam esaltava unicamente il culto della sua personalità. Il suo era uno Stato totalitario, dove gli individui non contavano nulla».
Lei è stato l’unico leader religioso a portare la sua solidarietà in piazza Tahrir...
«È vero. Ho portato con me cibo e medicinali e donazioni in denaro, oltre cinquemila dollari per le loro cliniche che curano i feriti in piazza. Sono stato accolto come un amico, come un fratello. Perché hanno capito che li legittimavo, ascoltavo le loro sofferenze, le loro solitudini. E ho aggiunto che tra i loro slogan uno dei più belli era quello dell’esaltazione della cittadinanza irachena, che significa eguaglianza, libertà, giustizia. Sventolano la nostra bandiera nazionale, non vessilli religiosi».
Però i cristiani continuano a lasciare l’Iraq e l’intero Medio Oriente...
«Vero. Ma il rischio riguarda tutti, non solo i cristiani. Ho notato che in piazza Tahrir ci sono anche tantissimi cristiani. Non temono di piantare le tende sovrastate dalle croci, sfilano assieme e nessuno li tocca».
A che punto siamo con questo esodo?
«Male. Molto male. Ai tempi di Saddam Hussein eravamo 1,8 milioni. Di questi almeno il 75 per cento erano caldei cattolici. Ora siamo scesi a circa 400 mila, di cui metà a Bagdad. Le chiese sono vuote. È evidente che qualcosa non ha funzionato dopo l’invasione americana del 2003».
Dopo il blitz ordinato da Donald Trump per uccidere Qassem Soleimani e i massimi leader delle milizie sciite il 3 gennaio, crede che gli americani debbano andarsene e con loro l’intero contingente internazionale?
«No, non lo credo. Il contingente internazionale, che conta anche un folto numero di soldati italiani, contribuisce a mantenere la stabilità del Paese intero. I deputati curdi e sunniti hanno fatto bene ad astenersi durante il voto parlamentare per l’espulsione».
Ma se gli americani dovessero partire dall’Iraq sarebbe il caos?
«Ovvio. L’Iraq ha bisogno dei soldati del contingente a comando Usa per stare in piedi. E il nostro governo ne è ben consapevole».
Vuole dire che il premier sciita Adel Abdul Mahdi ha solo fatto una sceneggiata di facciata per soddisfare il risentimento dell’Iran, ma in realtà opera per conservare lo status quo?
«Sì, è stato un voto di facciata. Tutto cambi affinché nulla cambi. Gran parte del Paese teme le milizie sciite. Anche tanti cittadini sciiti sono ben contenti che ci siano gli americani. Qui sta prevalendo un grave vuoto di potere e la presenza internazionale ci aiuta. Oltretutto resta vivo il pericolo dell’Isis, che si deve continuare a sorvegliare».
Come mai non ha portato la sua solidarietà all’ambasciata iraniana per l’assassinio di Soleimani? Tanti capi religiosi lo hanno fatto...
«No. Ho fatto appello al dialogo. Ho ripetuto che le grida di vendetta non servono a nulla, se non a riaccendere tensioni. Ho aggiunto che adesso tocca all’Onu tentare di riaprire il dialogo ed evitare il nuovo avvitarsi violento tra botte e risposte».
Perché l’Iraq dopo tutti questi anni non è ancora capace di camminare con le proprie gambe?
«Dopo la guerra del 2003 non si è mai davvero lavorato per la riconciliazione nazionale. Caduto Saddam Hussein, le comunità hanno subito cominciato la competizione violenta per prevalere le une sulle altre. È mancato il dialogo, il confronto. Siamo diventati un puzzle caotico di comunità nemiche in lotta. Capisce ora le mie simpatie per i giovani di piazza Tahrir? Rappresentano un raggio di luce per uscire da questo caos. Vanno aiutati, non osteggiati. Vanno ascoltati e capiti. Per la prima volta dalla fine della dittatura di Saddam abbiamo forze in campo che possono far sperare in un futuro migliore».