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3 ottobre 2019

Card Sako, Mese missionario: una occasione per riflettere sulla vocazione

By Asia News

Ai cristiani irakeni dico di sfruttare questo tempo per “approfondire la vocazione, pregare, riflettere sulla chiamata al sacerdozio, alla vita consacrata anche per i laici”. Perché la forza della Chiesa “dipende in gran parte da questo”. È quanto afferma ad AsiaNews il patriarca caldeo, card Louis Raphael Sako, commentando l’apertura del Mese missionario straordinario, in cui papa Francesco invita a “uscire da se stessi, farsi dono”“È necessario - esorta il porporato - pensare e nutrire questa vocazione, cominciando a discuterne all’interno delle famiglie: parlare del sacerdozio, della vita in monastero, perché senza preti, suore, missionari com’è possibile andare avanti?”. 
A 100 anni dalla promulgazione della Lettera apostolica Maximum Illud di Benedetto XV, all’indomani della Prima guerra mondiale per dare un “nuovo impulso alla missione”, papa Francesco ha voluto rilanciare il compito missionario della Chiesa e di ogni cristiano. Per il pontefice argentino questo periodo vuole essere anche “una scossa per provocarci a diventare attivi nel bene. Non notai della fede e guardiani della grazia, ma missionari”.
Il primo ottobre “in comunione con il papa abbiamo inaugurato il mese alla presenza di 200 fedeli”. Molti, sottolinea il card Sako, “non hanno potuto partecipare per la chiusura delle strade, a causa delle manifestazioni” contro corruzione e disoccupazione che hanno provocato in due giorni almeno sette morti e 400 feriti; in queste ore il premier Adel Abdul Mahdi ha imposto il coprifuoco fino a nuovo ordine. Il messaggio che vogliamo lanciare, aggiunge, è che “ciascuno di noi è discepolo di Cristo e anche apostolo, inviato per dare l’annuncio della Buona Novella”. 
Nella particolare realtà irakena è importante evidenziare l’elemento della “gioia” che è presente nel Vangelo, applicarne dettami e valori “nella condotta, nei rapporti con gli altri” anche e soprattutto “con i nostri fratelli musulmani che aspettano una testimonianza diversa” per loro. Fare questo, riflette, “tocca a noi e non dobbiamo essere timidi nell’affermare la nostra fede cristiana, anche nelle liturgie che sono segno del nostro amore per Cristo. Non solo parole, ma vera testimonianza”. 
I cristiani caldei vivono ogni giorno in un contesto di “sfide”, partendo dal fondamentalismo islamico che non lesina l’utilizzo della violenza. “Tutta la nostra storia - sottolinea - è così, i nostri padri hanno resistito senza perdere la fede o la speranza. Anche noi dobbiamo farlo”. Un’altra sfida è la “secolarizzazione” che guarda solo all’economia, al denaro e che “vuole svuotare la società dai valori cristiani”. Per questo anche noi, qui, abbiamo “una missione” che è “testimoniare con i gesti, con le opere: quello che colpisce dei cristiani, anche e soprattutto dove sono minoranza, è la loro carità, il loro essere onesti, non solo a parole ma nella vita quotidiana, nella famiglia”. 
I musulmani, sottolinea il primate caldeo, sono colpiti da questo amore, da questa apertura, dal fatto che “il Vangelo non è un dogma chiuso. La Chiesa cambia, è in cammino e deve uscire come ha fatto la barca di Pietro; non deve essere rigida, ma saper leggere i segni del tempo”. E in questo contesto i laici ricoprono un ruolo fondamentale in quanto “membri attivi” e la Chiesa caldea ha voluto sottolinearlo “accogliendoli nel Sinodo” e rendendoli partecipi del lavoro, delle decisioni. “Quando il papa dice che noi battezzati siamo missionari - afferma il porporato - non parla del clero, ma di ogni cristiano, ciascuno di noi è chiamato a essere missionario”. 
Al patriarca caldeo chiediamo infine se l’Iraq ha bisogno di missionari stranieri: “Già noi, qui, siamo missionari - risponde - perché abbiamo bisogno di tutti, anche di preti dall’estero. Abbiamo nuove suore indiane malabaresi, due preti anch’essi dall’India che lavorano nelle parrocchie a Baghdad, ma serve il sostegno di tutta la Chiesa universale. Questo cammino - conclude - è uno scambio che arricchisce. Abbiamo bisogno anche istituti, scuole, ospedali, centri giovanili... le risorse sono limitate e tanti ne abbiamo dovuti inviare all’estero per le comunità della diaspora”.