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27 giugno 2019

Christians Fear Catastrophe in US-Iran Conflict

By National Catholic Register
Peter Jesserer Smith

The rainfall on Iraq’s Nineveh Plain promises a bountiful harvest of wheat and barley — and hopefully that bounty, in turn, will provide a bumper crop of economic benefits by drawing more people to the produce markets of Iraq’s Christian towns.
Five years after the Islamic State terrorist group marked them for genocide, many of Iraq’s Christians, like Yohanna Towaya, a resident of Qaraquosh, have been making plans to rebuild the Christian presence where it was first planted by St. Thomas the Apostle and his disciples nearly 2,000 years ago.
But the fate of these rebuilding plans was 10 minutes away from being decided for them. On June 21, President Donald Trump revealed that, following Iran’s downing of a U.S. surveillance drone, Tomahawk missiles were “cocked and loaded to retaliate.” An attack would have most certainly meant a setback for Christian progress in neighboring Iraq.
In the drone incident, the U.S. claimed that the unmanned aircraft (with an estimated cost between $110 and $220 million) shot down June 20 in the Strait of Hormuz was flying over international airspace, while the Iranians claimed it invaded its airspace. The U.S. military has not released records of the drone’s flight path to the media.
The incident is the latest to reflect the change in course of U.S. policy toward Iran, beginning in 2018 with the breakdown of talks between the two countries, after the Trump administration withdrew the U.S. from the 2015 Iran nuclear deal and imposed trade sanctions on Iran. In response, Iran vowed to increase its production of uranium, used for both the production of nuclear weapons and the development of its nuclear-power program.
Trump, who campaigned in 2016 on the promise to stop U.S. engagement in what he called “endless wars,” said during an interview with Fox Business Network that should war come, it would be brief and to the point:
“I’m not talking boots on the ground. I’m not talking we’re going to send a million soldiers. I’m just saying if something would happen, wouldn’t last very long.”

Fear of Instability
Although the U.S. airstrikes were called off because the estimated loss of life was considered disproportionate, Trump’s tweet following the canceled order sounded more like a stand-down than an overture for peace.
“I am in no hurry, our military is rebuilt, new, and ready to go, by far the best in the world,” Trump tweeted.
Such indications reveal that tensions remain unresolved between Iran — which makes no secret of its animosity against Israel and the West — and the United States. The tension keeps Christians throughout the Middle East on high alert, as the prospect of the U.S. and Iran going to war presents a kind of catastrophe whose size and scope is difficult to predict.
While the Trump administration estimated 150 people might have been killed by U.S. strikes, Christians in the region fear a military conflict between the U.S. and Iran could be the match that explodes what remains of their presence in much of the Middle East.
“The people are fearful for the future,” Towaya said. “They’re not sure what will happen to them.”
Towaya explained that Shiite militias roam across northern Iraq, making trouble for all who live there. Christians in their own towns are protected by Christian militias, such as the Nineveh Protection Units, allowing them to worship and live in relative freedom. But their Sunni neighbors chafe under militias backed by Shiite Iran.
“The Sunni want the war to happen because it will finish off the influence of Iran on Iraq,” Towaya said.
As for the impact on Christians, he said, “We don’t know what the Shia militia will do in that region.”
The worst-case scenario for them would be an Iranian-backed repeat of what happened to Christians following the 2003 invasion of Iraq, when their communities were attacked in retaliation for U.S. military action in the country.
While Iraq’s Christians have experienced persecutions throughout their nearly 2,000-year history in the region, the past 100 years have seen the ancient community experience waves of genocide unequaled since Tamerlane’s Mongol Horde nearly exterminated the Church in Iraq in the 14th century.
“Our fathers and grandfathers suffered more than us, and they stayed with the earth,” Towaya said, referring to their agricultural-based communities in the region.
Following ISIS’ campaign of genocide in 2014, though, only 30%-40% of Christians have returned to their ancestral villages, and many are waiting to see whether they can live in peace and security. He predicted that if something goes wrong, “all the people will leave.”
“If conflicts start between Iran and the U.S.,” he said, “it’ll be catastrophic for Christians.”

25 giugno 2019

Turchia, una luce di speranza tra i profughi

Luciano Zanardini

Nei loro occhi il terrore, nelle loro parole la drammaticità di chi ha vissuto e sta vivendo una tragedia. I profughi iracheni, scappati dall’inferno della guerra e della persecuzione, non hanno ancora trovato la pace. Si sentono ostaggio di una nazione. Le ferite del loro calvario, che dura da anni, sono curate dalla presenza di tre religiose che si fanno semplicemente compagne di strada di un popolo in fuga. Nel 2016 suor Diba Kupeli delle Missionarie Francescane del Verbo Incarnato, insieme a due Piccole Sorelle di Charles de Foucauld, ha iniziato un lavoro intercongregazionale a Uchisar, con «l’obiettivo di garantire una presenza e sostenere i profughi cristiani. Siamo venute in Cappadocia per farci vicine ai nostri fratelli costretti all’esilio e, contemporaneamente, costruire un nuovo percorso»: pur rimanendo legate alla propria Famiglia spirituale, hanno abitato sotto lo stesso tetto per tre mesi. In questo periodo hanno incontrato molte nuclei familiari (sono 40mila i cristiani iracheni in Turchia). L’esperienza, riuscita, è stata riproposta anche l’anno successivo. La scelta è ricaduta sulla città di Kirsehir dove le religiose accompagnano 170 famiglie che appartengono a diverse confessioni cristiane (caldei, cattolici, siriaci, ortodossi…). 
I rifugiati si «sentono abbandonati. Hanno lasciato il loro Paese, il lavoro e la casa per salvarsi la vita. La Turchia li ha accolti, ma loro si sentono in prigione, assegnati a una residenza, perché non possono muoversi senza un’autorizzazione della Polizia». Hanno, però, le idee chiare sul loro futuro. «Vivono nell’attesa di ricevere un visto per i Paesi dell’Occidente, non pensano di ritornare nelle loro abitazioni distrutte e non pensano di rimanere qui: sono senza lavoro o malpagati e non mandano i loro figli a scuola per evitare ogni assimilazione o umiliazione religiosa».
È difficile «raccontare il dramma di tante persone, le centinaia di storie, ascoltate più con il cuore che con le orecchie, di persecuzione, di rifiuto e di dolore. Penso ad esempio a chi era proprietario di diversi negozi in Iraq e, in una notte, ha perso tutto ed è fuggito con la sua macchina, con sua moglie e con i suoi tre figli, di cui uno disabile; qui in Turchia ha trovato lavoro come semplice operaio per uno stipendio da fame, aspettando un visto che non arriva. Penso al pianto di due genitori per il loro figlio, giovane prete, sgozzato mentre celebrava l’eucaristia». E poi ci sono le lacrime versate: «Non possiamo comprendere le sofferenze che hanno subito e ci limitiamo a rispondere baciando le mani di persone che, nonostante tutto, non hanno perso la fiducia in Dio e nell’essere umano».
Sono profughi che, sulla carta, hanno ottenuto lo status di protezione internazionale, ma attendono, a volte senza grandi illusioni, di essere sistemati in un’altra nazione.
«Alcune famiglie sono in Turchia da sei anni. Aspettano di andare in Australia, in Canada, negli Stati Uniti o in Europa dove si trovano i loro parenti». Il Paese natale non offre ancora adeguate garanzie. «Non vogliono tornare nella terra dalla quale sono stati brutalmente sradicati, anche perché oggi hanno ancora troppa paura». Fino a dicembre 2018 suor Diba, di origine turca, ha collaborato con le Piccole Sorelle, ora con due Missionarie Comboniane. «Siamo qui per loro, per i profughi esiliati, per essere presenza di Chiesa vicina». Nella quotidianità visitano le famiglie, le sostengono «nella speranza» e le aiutano «in un inserimento non facile visto che sono prive di ogni sostegno pratico e spirituale». E nel loro servizio li hanno coinvolti nelle lezioni di turco, arabo e inglese e nelle attività con i giovani, compresi i campi estivi. «Non abbiamo un luogo dove poterci incontrare, così ci riuniamo nelle case, mentre i giochi e i laboratori per i bambini si fanno in una palestra che dobbiamo affittare». Non hanno una chiesa dove pregare insieme e non possono celebrare la Messa. «Ogni tanto passa un prete o il Vescovo. I momenti di preghiera sono preziosi. Abbiamo tentato di “leggere” il loro vissuto alla luce del Popolo di Dio in esilio: la Parola di Dio illumina la vita e la vita vissuta aiuta a capire la Parola».

Arcivescovo di Kirkuk: orfani dell’Isis, emergenza che grava sul futuro dell’Iraq

By Asia News

Gli orfani di Daesh “sono una grande emergenza” che chiede una risposta “globale, non solo locale” del governo di Baghdad che rischia di apparire “insufficiente”. È quanto racconta ad AsiaNews l’arcivescovo di Kirkuk mons. Yousif Thoma Mirkis che ha partecipato di recente a un seminario Unicef su bambini e giovani nati o cresciuti sotto il “Califfato” dello Stato islamico (SI, ex Isis) in Siria e Iraq. Si tratta di una questione di primaria importanza che va affrontata “a livello economico” dalla comunità internazionale e richiede “altre risposte, come l’educazione e la scolarizzazione”.
Attivisti e ong umanitarie parlano di oltre 1500 minori “intrappolati” all’interno del sistema giudiziario irakeno, perché vittime del lavaggio del cervello e oggi imbevuti di ideologia jihadista. I più piccoli sono detenuti in carcere assieme alle loro madri; in questi ultimi mesi almeno sette sarebbero deceduti a causa delle pessime condizioni di detenzione. 
Altre centinaia sono a processo per reati di varia natura, dall’immigrazione illegale all’aver combattuto accanto ai miliziani dell’Isis. Fonti ufficiali parlano di 185 bambini e giovani fra i nove e i 18 anni già condannati da pochi mesi di pena fino a un massimo di 15 anni e rinchiusi nel carcere minorile di Baghdad. I minori affiliati all’Isis sono trattati senza riguardi, torturati o perseguitati da carcerieri e detenuti, pur senza sapere il loro reale grado di coinvolgimento nel gruppo. 
Altri ancora a migliaia, pur non incarcerati, vivono in condizioni precarie mendicando per le vie di Mosul alla ricerca del denaro minimo per un pasto o vendendo oggetti di fortuna ai bordi delle strade. Con il rischio, non certo remoto, di essere sfruttati dalla malavita o finire nelle maglie delle bande locali che li sfruttano per denaro. Secondo la sociologa irakena Fatima Khalaf, questi bambini di strada “non sono immuni da […] sfruttamento” e “se vengono abbandonati, potrebbero diventare criminali”, per questo è ancora più urgente l’obbligo scolastico. 
Come sottolineato di recente dall’ausiliare di Baghdad mons. Shemon Warduni è necessario “educare [...] soprattutto i bambini” che rappresentano il futuro del Paese.
“È una questione aperta - conferma ad AsiaNews l’arcivescovo di Kirkuk - e pericolosa. In un campo vicino a Kobane vivono 35mila persone, la grande maggioranza orfane con il padre ucciso e la madre, quando c’è, che indossa ancora il niqab (il velo integrale)”. La verità, aggiunge il prelato, è che “queste persone sono ancora legate al tempo di Daesh [acronimo arabo dell’Isis] e persino il governo ha paura ad avere a che fare con loro”
Per capire la portata del problema, ricorda mons. Yousif, basti pensare che sotto il “Califfato” in Siria e Iraq vivevano fino a otto milioni di persone e in molti, come alle origini dell’islam, avevano tre, quattro, persino 10 mogli. Secondo alcune fonti, in quest’area a cavallo fra i due Paesi e sotto il giogo jihadista sono nate tre milioni di persone e “moltissimi bambini e giovani hanno subito il lavaggio del cervello” dagli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi. 
Ad oggi né il governo, né le istituzioni e ong umanitarie “seppur partendo da punti di vista diversi” sono riuscite a “fornire una risposta” all’emergenza. L’esecutivo “guarda alla questione da un punto di vista politico”, usando una legge sul terrorismo, la numero 4, “molto dura che prevede sino alla pena di morte. Questa norma ha causato molte altre vedove e orfani. Il governo non si prende cura di loro e chiede alle ong umanitarie di farsene carico”. 
In questo rimpallo di responsabilità, dal quale non si può considerare esente la comunità internazionale, la questione resta irrisolta. “Molti di questi minori - spiega il prelato - sono nati da combattenti provenienti da Francia, Germania, Belgio o Gran Bretagna e appartengono a questi Paesi. I loro governi devono farsene carico, aiutare l’Iraq e la Siria. Questo è un problema globale, da qui la necessità che tutti collaborino a livello economico, ma soprattutto culturale”. 
La Chiesa irakena, su impulso del patriarca caldeo e dei vescovi, ha cercato di aiutare questi minori dando loro “pane, acqua, latte e altri generi di prima necessità. Io stesso - prosegue l’arcivescovo - ho chiesto ai fedeli di aiutare alcune famiglie di Daesh rinchiuse in un campo profughi vicino Kirkuk. Tuttavia, le nostre risorse sono limitate ed è molto difficile entrare in contatto con questi bambini. Resta il fatto che non possiamo abbandonarli, perché potrebbero diventare i jihadisti di domani ed è responsabilità del governo e della comunità internazionale occuparsene”.
Sul piano militare, conclude il prelato, forse Daesh “è sconfitto, ma la mentalità resta. Questa è la punta dell’iceberg, cui si aggiungono problemi economici, politici, sociali”.

Cardinale Sandri, i suoi dieci giorni in visita alle Chiese cattoliche orientali degli USA

Andrea Gagliarducci

Dieci giorni negli Stati Uniti, da Chicago a Cleveland, per andare a incontrare e incoraggiare le comunità delle Chiese orientali di là dell’oceano: il viaggio del Cardinale Sandri negli Stati Uniti ha abbracciato la porzione di oriente cattolico che si trova dall’Illinois all’Ohio, la ha incoraggiata ha guardato alle sfide future.
Non un viaggio casuale, quello in un territorio dove alcuni addirittura arrivano a convertirsi all’ortodossia, in un percorso che li porta dal cristianesimo evangelical al cattolicesimo fino alla ricerca delle origini. Le comunità di rito orientale sono, allora, un ponte naturale, possono essere un approdo per quanti sono confusi nella fede, perché raccontano la storia di una Chiesa che mantiene tradizioni di oriente e legame con Roma.
A Chicago, il Cardinale Sandri ha visitato l’Ukrainian Village, è stato nella cattedrale e poi nella chiesa dedicata ai Santi Volodymir ed Olga, dove ancora i fedeli sono divisi tra quanti sono fedeli di antica generazione, fedeli alla propria identità tradizionale ma inseriti nel contesto locale e quelli di più recente arrivo, e ci sono quindi due “ritmi celebrativi”. Parlando con sacerdoti e laici dell’eparchia, il Cardinale Sandri ha ricordato il suo viaggio in Ucraina di due anni fa.
Il 16 giugno, il Cardinale Sandri ha invece visitato l’Eparchia Siro-Malabarese degli Stati Uniti, divisa in 79 parrocchie e missioni su tutto il territorio nazionale, che ha proprio sede a Chicago. Tra gli incontri, quello con il vicario e alcuni esponenti laici della comunità kananayauna realtà presente in seno alla Chiesa Siro-Malabarese che ha il suo punto di riferimento dell'Arcieparchia di Kottayam e sulla quale continua da tempo uno studio attento da parte della Santa Sede circa le possibili soluzioni per garantire il principio della comunione insieme all'adeguata assistenza pastorale dei diversi gruppi tradizionali.
Il 17 giugno, il Cardinale Sandri è stato nel Mundelein Semianry, che ospita anche studenti provenienti dalle Chiese Orientali Cattoliche, e in particolare della Chiesa siro-malabarese, e poi nel centro dei Carmelitani, dove c’è stata un’altra sessione di domande e risposte. La mattina del 18 giugno, il Cardinale ha avuto un incontro e un pranzo di lavoro con alcuni esponenti della società civile locale, impegnati a livello internazionale nel sostegno alle comunità cristiane del Medio Oriente, interessati ad avere il punto di vista del Dicastero sulle diverse realtà presenti in Libano, Egitto, Iraq, Iran, Giordania, Turchia, Palestina ed Israele.

Quindi, il Cardinale si è spostato a Detroit, dove è stato accolto dal vescovo Francis Kalabat dell’Eparchia di San Tommaso apostolo dei Caldei. Da lì, è cominciata una serie di incontri con i presuli caldei degli Stati Uniti del Canada, parlando di moltissimi temi, in particolare degli aiuti ai rifugiati caldei arrivati negli Stati Uniti, ma anche delle “migrazione” di fedeli caldei in altre comunità, a volte anche nelle comunità di rito latino.
Negli incontri con il clero, si è invece parlato in particolare della riforma della liturgia in atto nella Chiesa caldea, nonché il rapporto con l’Iraq.

Syriac Catholic bishops optimistic amid dispersion of their faithful

By Catholic News Service
Doreen Abi Raad

Photo by Syriac Catholic Patriarchate
Faced with the migration of Christians from Syria and Iraq, Syriac Catholic bishops meeting in Lebanon for their annual synod called upon church members "scattered everywhere in the East and West" to cling to their faith with hope so they "can be witnesses to the joy of the Gospel wherever they are."
In a statement at the conclusion of the June 17-22 gathering led by Syriac Catholic Patriarch Ignace Joseph III Younan, the bishops acknowledged the suffering of the faithful in the face of "endless wars, persecutions, acts of violence, terrorism, displacement, murder and destruction, and the uprooting of a large number of nationals from the land of fathers and grandparents -- Syria and Iraq -- and their dispersion throughout the world."
Yet the bishops stressed that they also are optimistic, "thanking God for the return of many displaced people to their villages" in Iraq and Syria.
The prelates noted that Christians "are an authentic component and founder in these two countries." They called for solidarity among all citizens to build peace, hope and unity.
Synod participants came from dioceses and patriarchal and apostolic offices in Lebanon, Syria, Iraq, Israel, Jordan, Egypt, the United States, Venezuela and Australia. They were joined by the patriarchal vicar in Rome.
In studying pastoral service in the countries where Syriac Catholics relocated -- primarily Europe, the Americas and Australia -- the bishops acknowledged the plight of migration "to the country of alienation and painful assimilation" and the importance of sending "priests of good quality." They pointed to visits from the patriarch and bishops to Syriac Catholics worldwide in which the faithful were called "to preserve the deposit of faith and trust for their churches, the Syriac heritage and native lands."
The bishops reiterated their demand to stop wars and "resolve disputes through dialogue and peaceful means, and to achieve a just, comprehensive and lasting peace." They called for the return of all displaced persons, refugees and abductees to their homelands.
The synod also stressed "the right of the Palestinians to return to their homes and establish their state on their land," emphasizing that Jerusalem "is a holy city for the followers" Christianity, Judaism and Islam.
They called on Lebanon's president, prime minister "and all concerned" to find an immediate solution to the country's economic recession and crisis in the housing sector that pushes Lebanese youth, in particular, to emigrate.
In their statement, the prelates welcomed efforts made "to obtain the official recognition of our Syriac Church in Jordan."
They also praised the establishment of a Syriac Youth Meeting in Syria in early July and plans for a World Youth Meeting in 2021, which both follow the first World Youth Meeting in Lebanon in the summer of 2018. The bishops recommended such meetings be held in eparchies and other countries.

Foreign Minister Receives Cardinal Luis Sacco Patriarch of the Chaldean Community in Iraq

Photo Ministry of Foreign Affairs - Republic of Iraq
Foreign Minister Mr. Mohamed Ali Hakim received Cardinal Louis Sacco, the Chaldean Patriarch in Iraq

 The Minister expressed his pride in the distinctive national role played by Iraqi Christians, stressing that the coexistence between different religions and sects is a distinctive feature of the Iraqi people, pointing out that all contribute today to manage the democratic political experiment.

The Minister stressed that the responsibility of preserving the unity, integrity and sovereignty of the land rests with all, and requires the mobilization of all energies to confront the danger of discrimination and extremism, calling for the importance of spreading a culture of trust, love and brotherhood and eliminating the culture of hatred.

21 giugno 2019

The President Extends an Official Invitation to His Holiness the Pope to Visit Iraq

By Iraqi Presidency


 
President Barham Salih extended an official invitation to Pope Francis to visit Iraq.
His Excellency received the Chaldean Catholic Patriarch of Babylon, H.B. Cardinal Mar Louis Raphael I Sako, at the Presidential Office in Baghdad on Thursday, June 20, 2019.
In a letter addressed to His Holiness, President Salih indicated that the Pope’s visit is of great historical importance in supporting Iraq internationally for connotations and considerable meaning it holds, as well as the visit would contribute to enhancing social cohesion among the Iraqi communities.
During the meeting, the President commended the people of the Christian faith’s significant role in the history of Iraq, and highlighted their outstanding contribution to consolidation of brotherly relations as well as to the promotion of values of citizenship and tolerance among our people without discrimination.
For his part, Sako emphasized the importance of the President’s role in supporting the Christians, and His Excellency’s diligent efforts to enhance the bonds of national cohesion among all the people of this country.

Presidente irakeno: La visita del Papa, ‘immenso conforto’ per cristiani e musulmani

Photo Mons. Basel Yaldo
By Asia News

La visita di papa Francesco in Iraq sarà di “immenso conforto” per tutta la popolazione, che si sta ancora riprendendo dalle devastazioni causate dai quattro anni di dominio dello Stato islamico (SI, ex Isis). Un passato recente contraddistinto da diffuse persecuzioni ai danni delle minorane, compresa quella cristiana. È quanto scrive il presidente Barham Salih, nella lettera indirizzata al pontefice e consegnata nelle mani del primate caldeo card Louis Raphael Sako. Il porporato, accompagnato dall’ausiliare di Baghdad mons. Basilio Yaldo, ha incontrato ieri al Palazzo della pace il capo di Stato irakeno, il quale gli ha consegnato l’invito ufficiale in Iraq. 
“Sono onorato - scrive il presidente della Repubblica - di estendere in via ufficiale l’invito a Vostra Santità perché visiti l’Iraq, la culla della civiltà e il luogo di nascita di Abramo, il padre dei fedeli e messaggero delle religioni divine”. La visita del papa, aggiunge Salih, sarà “una opportunità per ricordare e sottolineare all’Iraq e al mondo che questa terra ha affidato all’umanità le prime leggi, l’agricoltura irrigua e un patrimonio di collaborazione fra persone” di religioni diverse. 
Nella missiva, il presidente della Repubblica si augura inoltre che questa “storica” visita del pontefice sia “una pietra miliare nel processo di guarigione”. L’auspicio, prosegue, è che l’Iraq possa tornare a essere “una terra di pace, dove il mosaico delle fedi e delle religioni convive in armonia” come “è avvenuto per millenni” prima dell’invasione Usa del 2003 e dell’ascesa jihadista. 
“Negli ultimi quattro anni - osserva Salih - l’Iraq è stato un luogo di guerra e di immense sofferenze”. L’assalto dei gruppi estremisti nel recente passato “ha provocato devastazioni inimmaginabili per i cristiani e per le altre comunità irakene”. “Con la liberazione della nostra terra - aggiunge - inizia un lungo processo di guarigione, riconciliazione e ricostruzione. Dato che Vostra Santità ha sempre mostrato profonda cura e attenzione verso le persone più vulnerabili e sofferenti, sono sicuro che le vostre parole di incoraggiamento e di grazia saranno di immenso conforto per molti irakeni che si stanno ancora oggi riprendendo dalle devastazioni del conflitto”. 
Ad accogliere il papa, scrive il capo di Stato, non ci saranno solo i cristiani “ma anche musulmani, Yazidi e persone di altre fedi”, che sono “legate di un impegno comune per un futuro migliore fondato sui valori di pace e dignità”. “L’Iraq - conclude Salih - è stato la casa di una comunità cristiana vivace e diversificata per quasi duemila anni. Se le guerre recenti hanno ridimensionato, anche di molto, il numero, noi ci impegniamo a garantire che i cristiani irakeni possano godere ancora una volta di sicurezza e prosperità”. 
Papa Francesco ha annunciato il proposito di visitare il Paese ai primi di giugno, durante la 92ma assemblea plenaria della Riunione delle Opere di Aiuto alle Chiese Orientali (Roaco). “Un pensiero insistente - queste le parole del papa - mi accompagna pensando all’Iraq, dove ho la volontà di andare il prossimo anno”. Un evento che sarà fonte “di grande gioia ed emozione” come ha sottolineato il card Sako ed è atteso anche dalle centinaia di migliaia di profughi di Mosul e della piana di Ninive. Ringraziando il presidente irakeno per l’invito, il primate caldeo ne ha sottolineato il ruolo a sostegno dei cristiani e il suo sforzo in un’ottica di “unità” fra le diverse anime del Paese.

20 giugno 2019

Iraqi envoy to Vatican urges international help for Christians to return home

By Crux
Inés San Martín

Speaking outside the program at an event in Rome on migration, the newly arrived ambassador from Iraq to the Vatican said Wednesday that the country’s Christian community is at risk after violence perpetrated by ISIS, but people who fled now want to go back.
To do so, she said, they need help rebuilding the regions devastated by Islamic State’s reign of terror.
“Neither the government nor the Iraqi population at large want Christians to leave, because we know they are an essential part of our society,” said Amal Mussa Hussain Al-Rubaye, Ambassador to the Holy See. “Thank you for caring for our migrants, but from this place, I want to say to the world: if you want to help our migrants, do so by helping us rebuild Iraq.”
Visibly emotional, Al-Rubaye said hundreds of thousands of Iraqis who’ve been welcomed by Turkey, Kurdistan or Jordan are ready to go back, particularly to the Nineveh Plains, where an estimated 90 percent of the local Christian population lived before the rise of ISIS in 2014. The terrorists, she said, “[tried to] kill everyone who thought differently,” leaving people “no choice but to flee.”
“Christians who’ve fled are now ready to come back, but the areas where they live are completely destroyed,” she said. “And it takes time to rebuild houses.”
Since late 2018, the region is being rebuilt, mostly with foreign aid, provided either by the government of Hungary or private charitable organizations, such as the papal charity Aid to the Church in Need (ACN) and the Knights of Columbus.
According to the statistics provided by the Nineveh Reconstruction Committee, formed by the Chaldean Catholic Church, the Syriac Catholic Church and the Syriac Orthodox Church together with ACN, an estimated 30,000 homes of Christian families were rebuilt by this privately funded initiative as of June 2019.
For centuries the Nineveh Plains were considered a Christian stronghold in the Middle East, anchored by a series of traditionally Christian villages. Yet when ISIS arrived in 2014, things changed overnight, as more than 100,000 Christians were forced to flee and their villages were gutted, with churches, monasteries, businesses and private homes torched, torn down, or badly defaced.
Al-Rubaye’s words came during a Q&A section of an event organized by the Argentine embassy to the Holy See on Wednesday, on the eve of the United Nations’ World Refugee Day, marked annually on June 20th. Even though she wasn’t on schedule, her short remarks garnered  applause from the audience.
Also speaking at the event were Archbishop Paul Gallagher, Secretary for Relations with States within the Holy See’s Secretariat of State; Andrea Tornielli, the Vatican’s media operation editorial director; Father Fabio Baggio, undersecretary of the Vatican’s Migrants and Refugees section; Paola Alvarez, representative of the International Migration Organization; and Andrea Pecoraro, representative of the United Nations High Commissioner for Refugees.
The several panels were moderated by Rogelio Pfirter, Argentine ambassador to the Holy See.

Pentecost pilgrimages in France, Middle East link Catholics in prayer


Catholics walked through Syria’s Wadi al-Nasara, or “Valley of the Christians,” this Pentecost, praying the rosary, alternating between the Arabic and French prayers for each decade.
Their two-day pilgrimage, inspired by the annual Notre Dame-Chartres walk in France, coincided with Pentecost pilgrimages in Iraq, Lebanon, and Egypt organized by the French humanitarian organization SOS Chretiens d’Orient as a gesture of prayer and solidarity.
“These few intense days of hiking and prayers will remain engraved in hearts as precious moments when Syrians and French were united by the same Spirit,” Madeleine, a French volunteer for SOS Chretiens d’Orient in Aleppo, Syria wrote on their blog.
“The pride of having traveled the kilometers with bravery, the long discussions shared, the services rendered together have been a reflection of the love that binds our two countries by the grace of God,” she said. “We were in communion with the pilgrimage of Notre Dame de Chretiente in Chartres.”
The Syrian pilgrims and volunteers came from Damascus, Homs, and Aleppo to walk the path along Mediterranean Sea toward the sanctuary of Saint Charbel in the village of Daher Safra.
Athar, a Syrian participant, reflected, “We shared with each other our life with the good times and the bad times. We prayed together. We walked together. It was great because we learned how to accept each other, how to help each other.”
In Iraq, the Pentecost pilgrimage through the Nineveh Plains led to the Rabban Hormizd Monastery in Alqosh, a Chaldean Catholic church founded in the 7th century.
Sistine, a French SOS Chretiens d’Orient volunteer in Iraq, described the experience:
“Arriving at the foot of the monastery, as night begins to fall, our songs to Mary resound magnificently in this calm and wild place. The whole group climbs the remaining few hundred steps in a final burst of energy to reach the small chapel. Finally, after so much effort, prayers, sweat and empty water bottles, we gather here to put all our intentions in Mary’s arms.”
We “gather together to express our prayer intentions, entrusting our lives, vocations, Christians of the East and Iraq to our Heavenly Mother,” she said.
The Notre Dame-Chartres walk, which inspired the pilgrimages in the Middle East, drew more than 14,000 participants this year.
Benjamin Blanchard, director of SOS Chretiens d’Orient, told CNA that each of the pilgrimages in the Middle East used the same book of prayers and hymns used in the Notre Dame-Chartres walk.
Blanchard has led a group of volunteers and staff from the Middle East in the French pilgrimage to Chartres for the past four years.
“We are here to pray and to work with all of the pilgrimage, but we especially pray for the Christians of the Middle East, for all of the volunteers and donors of the organization,” he said.
Johnny Dagaly, a Chaldean Catholic from Iraq, told CNA that walking the pilgrimage in France with 14,000 other Catholics gave him a strong sense of the “Body of Christ” that is the Church.
“It has been a very good experience to be here, and when I come back to Iraq, I will share that with all of my friends, my family, with everyone,” Dagaly said.
“I am praying for peace, for peace in all the world and in my country, in Iraq, because we have not had peace from 40 years ago until now,” he said, adding, “I also prayed for my mom.”

Rapporto annuale 2018 di Aiuto alla Chiesa che Soffre. Oltre 111 milioni di euro a sostegno della chiesa in tutto il mondo.

111.108.825 euro per la Chiesa povera, oppressa e perseguitata in tutto il mondo. È il totale delle offerte raccolte nel 2018 da Aiuto alla Chiesa che Soffre attraverso le sue 23 sedi nazionali e la sede internazionale.
Tale raccolta, ottenuta grazie a donazioni private degli oltre 330mila benefattori che ACS conta a livello internazionale, ha permesso di realizzare 5.019 progetti in 139 Paesi.
«Siamo commossi dalla generosità dei nostri benefattori di tutto il mondo – ha dichiarato Thomas Heine-Geldern, Presidente Esecutivo dell’opera, durante la presentazione del rapporto – Il loro sacrificio e la loro fede hanno ancora una volta smosso montagne!»
In rappresentanza della Chiesa sofferente sostenuta da ACS, ha preso parte alla conferenza stampa di presentazione il cardinale Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo, che ha parlato della situazione nel suo Paese, dove è grande il timore di nuovi attacchi. «Sono stati trovati cinque campi di addestramento per jihadisti – ha detto il porporato – la gente ha ancora molta paura». Il cardinale ha illustrato l’impegno della Chiesa locale in favore delle vittime degli attentati del giorno di Pasqua, dei feriti, di quanti sono rimasti traumatizzati e dei 176 bambini rimasti orfani di uno od entrambi i genitori. «ACS vi sosterrà in questa vostra opera», ha assicurato il presidente Heine-Geldern.
Il direttore di ACS-Italia Alessandro Monteduro, che ha recentemente visitato lo Sri Lanka dopo i tragici attentati del giorno di Pasqua, ha testimoniato la straordinaria forza dei cristiani srilankesi. «Vederli così saldi nella loro fede, nonostante tutto, è stato davvero toccante. ACS è da sempre accanto ai cristiani oppressi e perseguitati ed ha sempre e tempestivamente reagito a tragici attentati come quelli avvenuti in Sri Lanka permettendo alle comunità ferite di rialzarsi e di rafforzare la propria presenza. Attraverso la ricostruzione delle chiese distrutte, sostenendo le famiglie delle vittime, permettendo ai sacerdoti, alle religiose e ai religiosi di continuare la loro opera, dimostriamo ogni giorno che la fede ha il potere di sconfiggere l’odio».
Come negli ultimi anni gran parte delle offerte è stata devoluta a progetti in Africa (27%) e in Medio Oriente (25%). La regione mediorientale ha visto un importante aumento degli aiuti nel corso degli ultimi anni. Dall’inizio delle cosiddette primavere arabe nel 2011, infatti, la Fondazione pontificia ha qui realizzato interventi per un totale di 92 milioni di euro, di cui oltre 18 milioni nel solo 2018. Il sostegno emergenziale alle migliaia di cristiani sfollati e rifugiati, soprattutto nell’area mediorientale, ha rappresentato più del 12% degli aiuti elargiti lo scorso anno.
Ma è in particolar modo significativo sottolineare la grande opera di ricostruzione delle case cristiane, resa possibile dal sostegno di ACS in Siria e in Iraq. Sono state infatti 1.479 le abitazioni cristiane ricostruite in Medio Oriente grazie all’intervento della Fondazione.
In Medio Oriente si trova anche il Paese che nel 2018 ha più di tutti beneficiato del sostegno di ACS. Si tratta della Siria, dove sono stati realizzati interventi per ben 8.615.940 euro, oltre due milioni e 860mila euro in più rispetto al 2017. Nella classifica dei beneficiari, al secondo posto vi è un altro Paese mediorientale, l’Iraq, dove l’anno passato sono stati finanziati progetti per un totale di 6.513.500 euro. Seguono l’India (5.246.706 euro), l’Ucraina (3.295.987 euro), e la Repubblica Democratica del Congo (2.880.466 euro).

19 giugno 2019

Riapre la cattedrale caldea di Bassora. Il restauro finanziato dalla Banca Centrale e da banche private

By Baghdadhope*

Restaurata a Bassora la chiesa caldea della Vergine Maria, una delle più vecchie della città, sita nel quartiere centrale di Al Dakir. 
Lo riporta il sito Ankawa.com.
"La ricostruzione della chiesa è avvenuta grazie agli auspici della Banca Centrale e dell'Associazione delle banche private irachene e grazie al contributo finanziario dell'iniziativa Tamkeen" ha dichiarato Novak Aram Bedrosian, membro armeno del consiglio provinciale di Bassora, che ha sottolineato lo spirito di armonia e fratellanza che prevale nella provincia e l'importanza del ruolo del governo e di tutti coloro che hannno restaurato la chiesa, augurandosi il ripetersi di tali iniziative che contribuiscono al rafforzamento del ruolo della componente cristiana nel sud dell'Iraq ed a Bassora in particolare.   
Da parte sua la Banca Centrale ha comunicato che "La chiesa caldea della Vergine Maria è stata restaurata a Bassora per difendere l'eredità culturale irachena e promuovere le coesistenza."
I lavori di restauro sono durati due mesi e sono stati finanziati grazie all'iniziativa Tamkeen che, come annunciato dalla Banca Centrale al momento del suo lancio, all'inizio del 2018, ha lo scopo di "finanziare attività e progetti umanitari, ambientali, culturali e giovanili."


La chiesa prima del restauro

La chiesa oggi
La costruzione chiesa della chiesa della Vergine Maria  iniziò nel  1907. La chiesa era destinata a sostituire una chiesa più piccola che si trovava nella zona del Suq Al 'Attarin nella "Strada delle Chiese" e che fu chiusa nel 1930. La chiesa della Vergine Maria, sebbene incompleta, fu aperta e continuò ad accogliere i fedeli fino al 1936, ai tempi del vicario patriarcale Mons. Hanna Nissan. Consacrata cattedrale nel 1954 quando, ricavandola da quella di Baghdad fu creata l'Arcieparchia di Bassora con la bolla Christi Ecclesia di papa Pio XII, fu anche sede vescovile fino al 1971, quando vescovo di Bassora era Monsignor Joseph Gogue.  La chiesa fu chiusa nel 1981 e divenne rifugio per famiglie in difficoltà.  
Di stile gotico la chiesa fu progettata da artisti italiani su pianta a croce. 

Preghiere per la pace tra le rovine dell’antica chiesa nell’area di Karbala, “città santa” dello sciismo

By Fides

Preghiere e inni cristiani insieme alla lettura di versetti del Corano hanno riecheggiato tra le rovine della chiesa di Al Aqiser, nell’area di Karbala, città santa dell’islam sciita. E’ accaduto lunedì 17 giugno, e l’iniziativa è stata messa in atto da un gruppo di cristiani caldei giunti in pellegrinaggio a quel che rimane della chiesa risalente al V secolo d. C., considerata tra i più antichi luoghi di culto cristiani del Medio Oriente. Con le loro preghiere, i membri del gruppo hanno chiesto al Signore il dono della pace, la fine dei conflitti e la liberazione da ogni settarismo.
Situato a ovest di Karbala, il sito archeologico attesta la presenza nella regione di fiorenti comunità cristiane, risalente a epoche pre-islamiche. "L'esistenza di questa chiesa è un chiaro segno della convivenza tra i popoli di questo Paese, fino ad oggi", ha dichiarato in proposito il sacerdote caldeo Maysar Behnam.
Le rovine della chiesa sono riaffiorate dal deserto grazie a campagne di scavi archeologici svolte negli anni settanta del secolo scorso. In passato, in quel luogo gruppi di cristiani iracheni erano soliti recarsi in pellegrinaggio durante il tempo di Natale.
A Karbala, ogni anno, decine di milioni di pellegrini musulmani sciiti accorrono per commemorare l’uccisione di Husayn ibn Ali, nipote di Mohammad e considerato dagli sciiti il terzo imam legittimo, ucciso a Karbala nel 680 d. C. insieme a 72 suoi seguaci dalle truppe del califfo omayyade Yazid I.

Imam Hussein Holy Shrine
May 27, 2019

Imam Hussain Holy Shrine hosts a delegation of Christians to visit an old church in western Karbala

Imam Hussain Holy Shrine hosts a delegation of Christians to visit an old church in western Karbala

Photo imamhussein.org
Many of landmarks remain evidences of the religious and cultural depth of the city of Karbala, including the Church of al-Qaseer, which - according to studies – dates back to the fifth century AD.
Located in the western part of the holy city, this church is one of the oldest churches in the Middle East. It belongs to the Chaldean community and includes a collection of monuments and tombs, some of which are attributed to the monks of the church.
The Department of Public Activities and the Religious Schools Division at the Holy Shrine hosted a special program for a Christian group in Iraq to visit this church.
"The existence of this church is a clear sign that there has been coexistence among the people of this country to this day,” said the director of a research institution on Christians in Iraq Father Maysar Behnam from the Chaldean Church.
The delegation thanked the Imam Hussain Holy Shrine for the great opportunity and warm hospitality.

18 giugno 2019

Iraq: Five years after IS occupied Mosul, returnees live in fear

By World Watch Monitor

The Islamic State’s three-year occupation of the northern Iraqi city of Mosul and its surrounding villages ended nearly two years ago, yet the city and its diminished number of Christian residents remain vulnerable.  
Last month the Iraqi government announced it would arm residents of 50 villages around Mosul, Iraq’s second-largest city, so they could protect themselves against pockets of IS fighters that continue to be active in the country.  
They appear to have adopted a ‘hit-and-run’ approach, attacking local targets like a market in Kirkuk, 184km southeast of Mosul, with the aim to undermine the government in Baghdad. IS has also claimed responsibility for some of the fires that in recent weeks torched hundreds of acres of land in northern Iraq, destroying crops on land that the attackers say is “owned by infidels”. 
In addition, sectarian tensions that predate the IS occupation have raised their heads again. Iranian-backed militias, known as Popular Mobilization Forces, patrol the streets and sometimes control whole towns, as reported by the National Catholic Register. 

Constant fear 

It is this lack of security and stability makes Christians hesitate to return to their homes and communities. Since the toppling of Saddam Hussein in 2003, the number of Christians in Iraq, — between 1.4 million and 2 million — has decreased. Precise numbers are hard to come by, but estimates of the Christians left in Iraq range from 200,000 to 250,000.   
“Christianity in Iraq, one of the oldest Churches, if not the oldest Church in the world, is perilously close to extinction,” the Rt. Rev. Bashar Warda, Archbishop of Erbil, told Christian leaders during a visit to the United Kingdom last month.  After 1,400 years of persecution, Iraq’s Christians may have come to the end of the road, he said. 
Christians who decide to return face many challenges. Houses and infrastructure have been destroyed and there is the constant fear of possible attacks from the IS cells or sectarian militias.  
Salim Harihosan, a Christian resident, told AP he regretted coming back to his hometown, Bartella, 23km east of Mosul. Although his house has been rebuilt with the help of an NGO, he feels unsafe. “It is a psychological situation… I go to the market and I hear things, that maybe this or that happened”, he said. “These things play with the mind of the person living here”. 
Once a predominantly Syriac Christian town before the IS occupation, Bartella now is majority Shiite Muslim and is controlled by a militia dominated by the ethnic Shabak. Citizens have reported incidents of harassment and intimidation. 
The Shabak representative in parliament in Baghdad, Qusay Abbas, told AP that these were “individual incidents” and did not represent the position of the group towards the Christians.  

Ensuring equal rights
 

Iqbal Shino, a Christian woman who returned to Bartella in 2017, told the news agency she was sexually harassed by a Shabak member. She initially filed a complaint with the police but later withdrew it for fear of retribution.   
Christian charities Open Doors, Served and Middle East Concern have advocated for an “accountability mechanism” to deal with incidents of religious and ethnic persecution and discrimination in Iraq and Syria, to ensure the future safety and security of Christians in the region. The countries are 13th and 11th , respectively, on the Open Doors’ 2019 World Watch List of nations where it is most difficult to live as a Christian.
A new legal center is trying to educate the Christian minority in the Nineveh region about their rights. A four-person legal team, including a judge and a lawyer, work on registering and advocating for cases in which land and homes of Christians are repossessed, where they are denied access to public services like education, and in which women are denied rights.
“We see this initiative in Iraq as one of the most important projects to ensure the equal rights of Christians in Iraq”, an Open Doors spokesperson said. “We invest in it because we believe in the importance of raising the local capacity of local Christians to defend their rights. It is also crucial that we don’t only help in rebuilding Christian towns and villages, but more importantly help secure a legal framework in which their rights and future are protected”. 
Other efforts to restore a sense of normalcy are less formal. In Mosul, youth from the Christian, Yazidi and Shabak communities in the Nineveh Plain region handed out white roses and sweets to Muslims on 5 June during Eid-al Fitr, the celebration that closes the fasting season of Ramadan. The Catholic news agency Fides reported that the gesture, organized by Italian association “Un Ponte per …”,  was meant as a small taste of a future where “every person can follow their own religious beliefs and express it freely, with respect and friendship, sharing traditions and happy moments”

Protesters again target Detroit ICE office as U.S. quietly moves to deport Iraqis

By Michigan Radio
Sarah Cwiek 

Protesters are back at U.S. Immigration and Customs Enforcement Offices in Detroit, trying to stop the potential deportation of more Iraqi nationals.
The U.S. has deported a small number of people back to Iraq after winning a court case on appeal late last year.
Some Iraqis with standing orders of removal had sued the government, saying it was too dangerous for them to return to Iraq. Many were Chaldean Christians from Metro Detroit, picked up in ICE raids during the spring of 2017.
But after a long, complicated court battle, the U.S. Sixth Circuit Court of Appeals overturned a lower court decision that stopped all removals until Iraqis could re-open their immigration cases. That means that Iraqis who haven’t moved to re-open their individual immigration cases, or who have exhausted that process, are now at risk of deportation.
Protesters who came to the Detroit ICE office Monday morning hoped to shut the facility down temporarily. They briefly succeeded in doing so last summer during a similar protest, though didn’t appear to succeed on Monday.
Kate Stenvig is with the group By Any Means Necessary. She says the protesters plan to camp out at the ICE office for at least a couple of days, to remind people of what’s going on and to reinforce the idea that direct action is now the only possible fight left.
“We think that if Trump gets away with deporting this group of people, it will open the door for many more deportations,” Stenvig said.
Stenvig cited a recent U.S. State Department decision to evacuate most diplomatic personnel from Iraq (citing an unspecified threat from Iran) as proof the country is too dangerous to return to, especially for Chaldeans and other Americanized Iraqis.
“Even more than before, to deport people from the U.S. to Iraq is truly a death sentence,” Stenvig said.
That claim of the imminent threat of persecution, torture or death if returned to Iraq was at the heart of the court case Hamama v. Adducci that challenged the planned Iraqi deportations. However, the Sixth Circuit ruled narrowly that a Detroit federal district court didn’t have jurisdiction to intervene in immigration matters.
Miriam Aukerman, a Michigan ACLU attorney who represented the plaintiffs in the case, says only a small handful of people have been removed after the appeals court decision. However, the U.S. government appears to be pressuring Iraq at the highest levels to accept the repatriations, something Iraq had initially been reluctant to do.
“It’s a small number of people, but obviously it’s really terrifying to the community,” Aukerman said.
Even though Aukerman says it “clearly remains extremely difficult” for ICE to return people to Iraq, the agency is “doubling down” on trying to do so.
“Iraq is clearly still an extremely dangerous place. At the same time, the [Trump] administration is using incredible resources and pressure at the highest levels to get Iraq to take people back it doesn’t want to take back,” Aukerman said. “We are very concerned about what’s going to happen going forward.”
An ICE spokesman did not respond to a request for comment.

By Baghdadhope
13 giugno 2017

La "stretta" voluta da Trump nei confronti degli immigrati colpisce duramente la comunità caldea negli Stati Uniti