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23 aprile 2019

Iraq, finché non risorgeremo

Alessio Antonielli e Enzo Fortunato
21 aprile 2019

"Non eravamo pronti", sono le parole del vescovo caldeo di Erbil, in Iraq, Mons. Bashar Warda, quando gli chiedo se non hanno sottovalutato il problema davanti a quello che può esser definito il nuovo esodo biblico. Erano un milione e mezzo nel 2003, oggi le stime della chiesa parlano di non più di 300 mila cristiani (addirittura 146 mila, secondo fonti diplomatiche). "Abbiamo dovuto imparare a prenderci cura di loro, a ricostruire, a ricucire il tessuto sociale, a ridare lavoro e dignità".

Da qui parte il nostro viaggio. Ci portiamo ad Alqosh, dove nei caveau delle sagrestie troviamo i registri dei battesimi di Baghdad e Mosul. Il loro inchiostro ci fa capire la cruda verità: in queste zone i cristiani stanno scomparendo. Con il giovane superiore generale dei monaci di sant'Antonio Abate, riusciamo a raggiungere clandestinamente Mosul, nascondendo le telecamere sotto le giacche. Attraversiamo cinque check point, non senza paura. Qui, oltre al monastero di San Giorgio, completamente distrutto, che era diventato la prigione dell'Isis, incontriamo una delle dieci famiglie cristiane in questa città. Sono ritornati.
È la terra dei loro padri, "non ci daremo pace - ci raccontano - finché non sarà ricostruita la nostra gloriosa chiesa".
Vivono lì pur sapendo che i loro vicini li hanno già traditi una volta. Sopravvivono grazie all'aiuto di alcuni sacerdoti che cercano di alleviare le loro pene. Ci dirigiamo poi nei pressi dell'antica cittadella di Erbil, in un palazzo costruito da un imprenditore cristiano che sta ospitando gratuitamente da anni centinaia di famiglie. Molti sono profughi che arrivano dalla Siria, la maggioranza iracheni.
Quando gli consegniamo la croce di san Damiano, che ricorda le parole rivolte a san Francesco: "Va e ricostruisci la mia casa, che come vedi è in rovina", le lacrime bagnano i loro volti.
Ci ricordano le minacce ricevute dai soldati di Daesh: "o vi convertite o andate via, altrimenti vi ammazziamo". Oggi ancora smarriti si sentono dimenticati e abbandonati, ma non vogliono tornare nelle loro case perché il trauma è troppo forte e l'Isis, anche se confitto, psicologicamente ancora non è scomparso.
La minaccia è dietro l'angolo. "Come pensate di affrontare il futuro?", gli chiedo. Attendono un lavoro, sono in cerca di un'opportunità. I sacerdoti vanno avanti con la stola e il grembiule donando i sacramenti e cercando di creare ospedali, scuole e centri sociali. Uno dei più grandi e all'avanguardia in tutto l'Iraq è quello che tra poco sarà inaugurato proprio ad Erbil dai Vescovi.
"Come hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" ci dice Hala, una delle cristiane scappate da Mosul, mentre guarda l'immagine di Gesù appesa alla parete. Come tanti altri non vuole più tornare a casa. Ha paura che quello che è successo possa succedere nuovamente. Ci racconta dei cadaveri che vedeva per strada anche prima dell'arrivo Isis. È stata un'avanzata lunga e lenta quella della persecuzione prima di arrivare a bombardare, incendiare e cancellare i simboli cristiani. Cancellare è il motto della violenza.
È padre Majeed Attalla a ricordarci che nella loro zona hanno potuto contare 116 case bombardate e 2448 quelle bruciate. I pezzi di legno carbonizzati che troviamo a terra, tra vetri e pietre, nella Chiesa fantasma della Resurrezione a Qaraqosh, non sono altro che le panche incendiate dalla furia ideologica. Mi lascia con una speranza: "noi siamo, grazie a Dio, ancora vivi e siamo potuti tornare nella nostra terra. Ora non ci resta che costruire prima le case e poi le chiese. Risorgeremo". Nel ritorno ad Erbil per vivere la madre di tutte le veglie, passiamo per Karamlesh e Bartella.
Ci aspetta il vescovo siro cattolico, Mons. Yohanna Mouche, che ci mostra il cortile della Chiesa più grande di tutto il Medio Oriente usata dall'Isis come scuola di addestramento. Nelle pareti trivellate dai kalashnikov si vedono ancora i proiettili conficcati. L'antico fonte battesimale dell'VIII secolo semi distrutto. Mentre usciamo, nello stesso cortile, i giovani stanno preparando le uova colorate per la Pasqua. Il loro sorriso rappresenta la speranza di questa comunità. Davanti a tutte le chiese i soldati dell'NPU, Ninewa Protection Units, le milizie cristiane. Le chiese, le cappelle, le cattedrali, in questi giorni di festa sono piene. Mi tornano in mente le parole che il profeta Naum scrisse proprio in queste terre per i perseguitati nel VI secolo avanti Cristo: "Buono è il Signore, un asilo sicuro nel giorno dell'angoscia. Si prende cura di chi si rifugia in lui anche quando l'inondazione avanza".
Un giornalista di lungo corso, prima a Bloomberg e poi al Washington Post, con noi in questi giorni, mi domanda: "come fanno a sopportare tanta sofferenza? Come fanno a sopravvivere?". La risposta è in questa terra, patria di Abramo che la chiesa celebra padre della fede.
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