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28 marzo 2019

Piangono per le “povere” spose dell’Isis e se ne fregano delle loro vittime cristiane e yazide

By Tempi
Fr. Benedict Kiely

Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di padre Benedict Kiely, fondatore della charity per l’aiuto dei cristiani perseguitati del Medio Oriente Nasarean.org, apparso nel numero del 22 marzo del magazine cattolico londinese. Il testo originale in inglese è disponibile anche online in questa pagina.

Meno di un anno fa mi trovavo fra le rovine della città vecchia di Mosul, accanto alla moschea in cui il capo dell’Isis Abu Bakr Al-Baghdadi aveva proclamato il Califfato. C’era un grande buco nel tetto, e l’intera area intorno ad essa era stata bombardata e ridotta in macerie. A parte i cadaveri dei combattenti dell’Isis, che dovevano essere ancora rimossi dalla zona, il solo altro segno fisico della loro recente presenza, esclusi i loro graffiti sui muri, erano i mucchietti di peli sul pavimento di molti degli edifici; si erano rasati le barbe nel vano tentativo di non farsi identificare.
Il Califfato – lo “Stato islamico” che a un certo punto controllava una vasta porzione del territorio dell’Iraq e della Siria – è quasi sconfitto. Tuttavia, pur avendo perso la battaglia per la terra, l’ideologia estremista e le migliaia di uomini e donne che hanno giurato fedeltà al Califfo sono tutt’altro che sgominati. Gruppi che sposano la causa dell’Isis sono in crescita – specialmente in Africa e nelle Filippine – e i video delle “spose dell’Isis” catturate in Siria nelle ultime settimane mostrano quanto siano fanaticamente attaccate alla causa. Sono le donne le più accanite nella loro costante devozione all’Isis; gli uomini incredibilmente dichiarano di aver servito al massimo come cuochi o domestici.
Le spose dell’Isis – contrariamente alla narrazione ampiamente diffusa presso la stampa occidentale – non erano le vittime passive, sottomesse e indottrinate dai loro mariti. In realtà hanno dimostrato di essere tanto devote, e tanto crudeli, quanto i loro mariti. È questa l’esperienza raccontata dalle loro vittime, che sembrano essere state abbondantemente dimenticate nell’indignazione emotiva sollevata dai giornali e dai politici sui bambini figli dell’Isis.
Più di quattro anni fa, migliaia di donne e bambini yazidi sono stati sequestrati dall’Isis. Sono stati usati come schiavi del sesso e alcuni bambini sono stati perfino messi in vendita e pubblicizzati nel materiale informativo dell’Isis. Anche donne cristiane sono state fatte prigioniere e trattate allo stesso modo.
I media e i politici occidentali si sono compiaciuti quando l’ex schiava yazida dell’Isis Nadia Murad è stata giustamente premiata con il Nobel per la pace, eppure è stato fatto poco e niente per contribuire a liberare le donne rapite – o per aiutare quelle che sono scappate per salvarsi in Occidente.
Ho visitato per la prima volta l’Iraq poco dopo che l’Isis aveva occupato la Piana di Ninive e attaccato i villaggi yazidi intorno a Sinjar nel 2014. È stato veramente sconvolgente tornare laggiù per la sesta volta, appena due mesi fa, e scoprire che le famiglie yazide vivono ancora in edifici abbandonati a Erbil, esattamente dove stavano all’inizio del 2015.
Ho parlato con alcune donne yazide, tutte traumatizzate dalla perdita di parenti e amici per mano dell’Isis. Ho chiesto loro che cosa volessero. Tutte, senza eccezioni, vogliono lasciare l’Iraq. Quando domandavo dove volessero andare, la loro risposta era semplicissima: «Ovunque».

Mentre i media versano lacrime indignate per le condizioni in cui sono ridotti coloro che hanno schiavizzato queste donne e questi bambini, e mentre i leader strumentalizzano politicamente, vale la pena di chiedere: quanti cristiani e yazidi perseguitati si sono visti riconoscere il diritto di asilo nel Regno Unito e negli Stati Uniti?
La risposta è un numero vergognosamente piccolo. Secondo le cifre diffuse dal Barnabas Fund a norma del Freedom of Information Act britannico, dei 7.060 rifugiati siriani segnalati per il reinsediamento nel Regno Unito nel 2017, solo 25 erano cristiani e appena 7 yazidi. Gli Stati Uniti, nonostante le grandi promesse dell’amministrazione Trump (alle quali molti cristiani iracheni hanno creduto), nel 2018 hanno accolto il 50 per cento di cristiani in meno rispetto al 2017.
Per usare un’espressione di Dietrich Bonhoeffer in un contesto diverso, è una “grazia a buon mercato” parlare di misericordia e perdono mentre si ignora la giustizia. Finora ci sono state poche dimostrazioni di ravvedimento da parte di quante hanno ridotto in schiavitù, torturato e permesso ai propri mariti di stuprare le loro schiave del sesso femmine e ragazzine.
I cittadini britannici e americani che partono per combattere al fianco di un nemico sono colpevoli di tradimento. La giustizia deve essere temperata dalla misericordia, ma la mancanza di attenzioni e cure per le vittime di coloro che hanno perpetrato questi crimini è uno scandalo.
Quanti hanno sofferto così tanto, e così a lungo, non hanno voce, mentre i colpevoli vengono dipinti come vittime. Non perseguire e non punire chi ha commesso non soltanto crimini contro l’umanità, ma anche un genocidio, significherebbe brutalizzare le vere vittime una seconda volta. Dimostrare davanti al mondo che le sofferenze di queste donne e di questi bambini non importano.
È falsa compassione piangere per i criminali mentre si trascurano le vittime – per esempio, quelle che non sono state liberate quando le forze alleate hanno consentito all’Isis di ritirarsi da Raqqa portandosi dietro le schiave del sesso yazide e cristiane.
Nel dicembre 2016, diversi vescovi iracheni non hanno ottenuto il visto per entrare nel Regno Unito. Non stavano tentando di emigrare, volevano solo partecipare alla consacrazione di una nuova chiesa siro-ortodossa alla presenza del principe del Galles. 
Pochi mesi dopo, a Erbil, ho chiesto a monsignor Nicodemus Daoud, il vescovo siro-ortodosso di Mosul, per quale motivo riteneva che il Regno Unito gli avesse negato un visto. Senza esitazione, e senza l’ombra di un sorriso, ha risposto: «Perché io non sono dell’Isis».
Quando i cristiani, gli yazidi e le altre vittime di genocidio saranno trattati con la compassione e l’accoglienza generosa che meritano, allora forse sarà il momento di chiedersi in che modo i loro carnefici debbano essere puniti con misericordia.