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7 novembre 2018

Onu, scoperte 200 fosse comuni dell’Isis. Sacerdote caldeo: ferita ancora aperta

By Asia News

Al loro interno vi sono “yazidi, musulmani, stranieri catturati e poi giustiziati; non sappiamo se vi sono anche cristiani della piana di Ninive” di cui “non si hanno da tempo notizie”, ma su questo non vi sono ad oggi “notizie certe”. È il commento di don Paolo Thabit Mekko ad AsiaNews dopo la notizia emersa in queste ore del ritrovamento di oltre 200 fosse comuni contenenti migliaia di cadaveri massacrati dallo Stato islamico (SI, ex Isis). Rinvenute grazie a un’indagine delle Nazioni Unite, esse si trovano nei governatorati di Ninive, Kirkuk, Salahuddin e Anbar, nel nord e nell’ovest, territori un tempo controllati dalle milizie jihadiste. 
“Le fosse comuni - afferma il sacerdote caldeo - sono un segno della memoria, sono tracce che resteranno a lungo nel tempo, un promemoria di quanto è successo”. Una tragedia, aggiunge, che ha colpito un intero popolo e che “oggi è impresso nei volti delle persone, anche dei bambini che portano i segni dei traumi” non solo fisici, ma pure psicologici.
Secondo stime Onu, all’interno vi sarebbero i resti di almeno 12mila vittime. Essi rappresentano una conferma ulteriore della brutalità, delle violenze, delle uccisioni di quanti rifiutavano o criticavano l’ideologia jihadista e la folle violenza omicida dei miliziani.  “Esse rappresentano un promemoria della straziante perdita di vite umane e di una crudeltà scioccante” sottolinea Ján Kubiš, rappresentante speciale Onu per l’Iraq. 
L’indagine ha permesso di rivenire resti dai quali si può risalire all’identità delle vittime. Inoltre, le scoperte possono costituire una prova fondamentale nei (futuri) processi per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, senza escludere l’ipotesi di genocidio, contro alti funzionari o membri di primo piano dell’Isis. Delle 202 fosse comuni rivenute sinora, 95 si trovano nella piana di Ninive, 37 a Kirkuk, 36 a Salah al-Din e 24 ad Anbar. Al loro interno vi sono fra le 6mila e le 12mila vittime, fra le quali vi sono anche donne, bambini, anziani e persone disabili, lavoratori stranieri e membri delle forze di sicurezza irakene.
Dopo una rapida ascesa fra la seconda metà del 2014 e il 2105 in Siria e Iraq, arrivando a conquistare metà del territorio e macchiandosi di crimini gravissimi contro l’umanità, in seguito i jihadisti hanno perso progressivamente terreno sotto la spinta militare di Damasco (con l’alleato russo) e dell’esercito irakeno, sostenuto da curdi e da una coalizione internazionale a guida Usa. Oggi controllano solo alcune aree limitate a cavallo fra i due Paesi; tuttavia, la loro ideologia resta ancora viva e la sconfitta militare non cancella la minaccia.
“I traumi del dominio jihadista sono ancora vivi e sono entrati nel gergo comune e nella vita di ogni giorno” racconta don Paolo. “Spesso quelli che portano la barba - racconta - vengono associati all’Isis. La parola stessa, Daesh [acronimo arabo per lo SI] viene utilizzata per terrorizzare la gente, per parlare male, per indicare una condotta disdicevole. Quando qualcuno fa del male, gli si dice che è dell’Isis. Tutto ciò dimostra quanto sia ancora viva la tragedia”.
Vi sono “ferite aperte” di chi “ha perso i propri cari”, racconta il sacerdote caldeo, che si aggiungono “alle distruzioni delle case, delle chiese, degli edifici pubblici. Per dire che l’Isis non è dimenticato, non è cancellato, non può essere archiviato ad evento del passato”. In tema di ricostruzione “i lavori proseguono”, conclude don Paolo, ma ciò che serve davvero “è un’occupazione stabile e un profondo processo di recupero psicologico dei traumi delle vittime”.