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15 novembre 2018

«L'Isis è morto, ma la mentalità estremista sopravvive»

By Famiglia Cristiana
Lorenzo Montanaro

«Alla mia gente dico: “Andante avanti con coraggio”. Il futuro è nelle nostre mani».
Una voce di speranza per la Chiesa irachena, martoriata da anni di conflitti e persecuzioni. Parla Louis Raphaël I Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei, nominato cardinale da papa Francesco meno di sei mesi fa. Nella sua terra ci sono tante ferite ancora aperte, più e meno recenti. Impossibile dimenticare l’estate del 2014, quando, dopo anni già difficilissimi, si è scatenata la barbarie dell’Isis, che ha procurato un numero incalcolabile di vittime e costretto migliaia di famiglie alla fuga. Stime recenti, riportate dallo stesso cardinal Sako, parlano di 1.224 cristiani uccisi, 23mila case sequestrate, 61 chiese bombardate negli ultimi 15 anni. Durante il regime di Saddam Hussein nel Paese vivevano circa un milione e mezzo di cristiani. Dopo il 2003 ne erano rimasti circa 500.000, numero poi ulteriormente sceso negli anni successivi. I tempi più recenti sono stati i più atroci (e non solo per i cristiani). Eppure il patriarca della Chiesa cattolica caldea (una comunità di origine antichissime, tanto che tuttora alcune liturgie vengono celebrate in aramaico, la lingua di Gesù) guarda al futuro con fiducia: «Siamo un piccolo gregge, ma il nostro ruolo è fondamentale». Lo incontriamo a Torino, prima di un convegno internazionale sul futuro del Medio Oriente, organizzato dal Centro Studi Federico Peirone.

Eminenza, qual è oggi la situazione dei cristiani in Iraq?
«Negli ultimi tempi la situazione è migliorata. Non solo per i cristiani, ma, in generale, per tutti gli Iracheni. Gli attacchi contro i cristiani sono molto diminuiti e ci sono stati grandi progressi sul fronte della sicurezza».
Qual è, in particolare, la situazione dei cristiani a Mosul e nella piana di Ninive?
«A Mosul quasi cento famiglie cristiane hanno fatto ritorno a casa. Abbiamo ricostruito la chiesa, che aveva subito danni, e abbiamo nominato un vescovo, che mancava da oltre cinque anni. Per quanto riguarda la piana di Ninive, stiamo lavorando per aiutare i cristiani a far ritorno nei loro villaggi e a riparare le loro abitazioni. Di 20.000 famiglie che erano state costrette alla fuga, circa 9.000 hanno fatto ritorno a casa. Il solo villaggio ancora completamente inagibile è quello di Batnaya, ma al nostro ritorno inizieremo a lavorare anche lì e incoraggiare la gente a rientrare. Oggi abbiamo bisogno di una teologia dei rifugiati, persone che tutto hanno dovuto lasciare per la loro appartenenza a Cristo e che esprimono una spiritualità formidabile. Nello stesso tempo dobbiamo pensare a una teologia del ritorno, della ricostruzione, della gioia.  La nostra Chiesa è chiamata a leggere quei segni di speranza che germogliano, pur nelle fatiche, e incoraggiare la gente, come facevano gli antichi profeti ai tempi dell’esodo».
A Baghdad, dove lei vive, quali sono i timori e le speranza della gente delle sue parrocchie?
«Oggi la città sta ricostruendo una vita normale: le persone sono tornate al lavoro, c’è maggior fiducia. La sola cosa che tutti chiedono è la pace. Basta guerra, basta scontri. Oggi i Cristiani godono anche di notevole libertà».
Da qualche settimana l’Iraq ha un nuovo governo, al quale in tanti guardano con speranza. Qual è l’atteggiamento della Chiesa cattolica?
«Conosco molto bene il presidente Barham Saleh e penso sia un uomo aperto ed equilibrato. Il primo ministro, Adil Abdul-Mahdi è un ex allievo dei Gesuiti a Baghdad. Inoltre dei 329 deputati, 290 sono volti nuovi. Anche questo è un segno di speranza. E abbiamo chiesto al governo che venga istituito un ministero per le minoranze».
A proposito di minoranze, numericamente i cristiani in Iraq sono un piccolo gruppo (ora più che mai, dopo gli ultimi anni di esodo forzato). Qual è il loro ruolo nella società?
«Siamo un piccolo gregge, ma siamo un punto di riferimento, per ragioni culturali e sociali. Ed è fondamentale che la presenza cristiana non venga meno nel Paese: è un elemento di stabilità, moderazione, dialogo».
L’Isis fa ancora paura?
«Da noi in Iraq l’Isis come forza militare non esiste più. Tuttavia abbiamo paura che alcuni membri dell’Isis cacciati dalla Siria (dalle regione di Idlib, ma non solo) trovino rifugio nel Paese. Ma soprattutto siamo preoccupati perché permane la mentalità estremista che sta alla base dello stato islamico. Le ragioni sono tante. Certamente l’islam ha bisogno di fare un lungo cammino. Ci vuole un aggiornamento, ci vuole una nuova lettura dei testi, un’esegesi che sappia andare al di là dell’interpretazione letterale per cercare il messaggio. Serve un percorso analogo a quello che il cristianesimo ha fatto nel corso dei secoli. A livello politico, questo significa anche separazione tra Stato e religione. Abbiamo bisogno di costruire un sistema fondato sulla cittadinanza e non sulle differenze religiose».
Quindi, ancora una volta, la presenza dei cristiani si rivela preziosa…
«Certamente. I cristiani possono aiutare questo processo di riforme. Noi siamo chiamati a essere, sale, luce e lievito. Oggi in tanti vengono a chiederci consiglio, ci chiedono di poter dialogare. Abbiamo un ruolo capitale e possiamo avere una grande influenza. Per questo alla mia gente dico di non avere paura. Il futuro è nelle nostre mani, giorno dopo giorno».