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14 marzo 2018

“L’Isis ci ha dato tre scelte: convertirci, fuggire o morire”

By Gli Occhi della Guerra
Lorenzo Vita

La tradizione racconta che nella piana di Ninive, fu san Tommaso a portare per primo il Vangelo. E i cristiani che vivono in Iraq si sentono ancora oggi figli di quella testimonianza. Per circa duemila anni, i seguaci di Cristo hanno potuto vivere in quelle terre. Una storia non facile, fatta di discriminazioni, di persecuzioni, di senso di alienazione rispetto a tutti i governi che si sono succeduti. Ma sono riusciti a sopravvivere, come uomini e come appartenenti a una delle comunità cristiane più antiche del mondo.
Ma negli ultimi anni, la certezza di poter vivere in pace sulla terra dei loro padri, quei cristiani non ce l’hanno più. Non ce l’avevano già prima che l’Isis innalzasse le sue bandiere e non ce l’hanno avuta, ovviamente, con l’arrivo del Califfato. Lo Stato islamico, dalla sua ascesa alla sua caduta, ha prodotto un trauma probabilmente inguaribile. E tornare alla vita di tutti  i giorni, anche oggi che esiste di nuovo uno Stato, sembra più un sogno che una realtà tangibile.
Padre Karam Shamasha era lì, nella parrocchia di Telskuf, pochi chilometri a nord di Mosul, quando le bandiere nere dell’Isis hanno iniziato la loro avanzata. In poche ore, le milizie islamiste hanno preso possesso di tutta la città iniziando la loro inesorabile avanzata. E per i cristiani fu subito chiaro che la tragedia stava per iniziare.
“I cristiani di Mosul furono costretti a scegliere: convertirsi, pagare la tassa per sopravvivere o andarsene per sempre. Chi non sceglieva una di queste opzioni, veniva ucciso. Dal giorno alla notte, i vicini di casa sono diventati quelli che ci dicevano di andare via e molti hanno occupato le nostre case minacciandoci di chiamare i terroristi e farci uccidere”. La città cadde senza colpo ferire. “L’esercito ha subito abbandonato i suoi arsenali nelle mani degli islamisti e i cristiani sono stati costretti a lasciare qualsiasi cosa, anche i propri documenti ai check-point, perché non avevamo diritto neanche alla nostra identità. Non dovevamo esistere.”
Da lì la fuga. Prima negli altri villaggi cristiani, più a nord, poi, con l’avanzata dell’onda nera del Califfato, nelle città curde. “I curdi hanno atteso alcune ore, perché eravamo 120mila e temevano che l’Isis potesse raggiungerli. Ma grazie a Dio ci hanno protetto e dato spazi dove poterci accampare”, racconta padre Karam. “Molti giovani cristiani si sono arruolati nelle milizie curde perché sono gli unici ad aver fatto qualcosa per noi. L’esercito iracheno ci ha subito abbandonati, il Kurdistan ci ha difeso”.
Questa resa incondizionata dell’esercito nazionale è quello che colpisce di più. Come ha fatto un esercito regolare a svanire davanti a quelle che, all’inizio, erano semplici bande di criminali? Gli Stati Uniti erano lì vicino, le truppe irachene ben equipaggiate, eppure nessuno ha mosso un dito. “La verità è che i politici iracheni venderebbero tutto per avere più potere e soldi”, ci dice il sacerdote caldeo. “E a Mosul è anche vero che molti sunniti vedevano di buon occhio l’arrivo dello Stato islamico. Alcuni perché volevano ribellarsi contro il governo di Baghdad, che ritenevano sciita. Molti altri perché convinti che fosse giusto avere uno Stato realmente islamico, con la sharia come legge fondamentale”.
E del resto, come ricorda padre Shamasha, “già prima del 2014 i cristiani dovevano pagare la tassa agli islamisti. Non era Isis, erano al-Qaeda e altre sigle. L’esercito c’era ma nessuno faceva niente”. “Prima dell’Isis e ancora oggi, molti imam gridano di uccidere i cristiani nelle moschee e il governo non fa niente”.

Nessuno faceva niente. Anche l’Occidente. “Noi ci siamo sentiti abbandonati da tutti, solo la Chiesa ci ha aiutato. Quasi tutte le famiglie cristiane fuggite, non sono accolte. Si accolgono i rifugiati musulmani, ma nessuno prende i cristiani perché noi non interessiamo a nessuna potenza”.
Altro capitolo, le organizzazioni internazionali. “L’ho visto con i miei occhi, a Telskuf, come si comportano. L’Unicef ha detto di aver ricostruito una scuola nella piana di Ninive. Ma sai cosa hanno fatto? Hanno dipinto i muri di blu, hanno scritto ‘Unicef’, hanno fatto le foto e sono andati via. La scuola non è mai stata ricostruita e aperta”.
“In Europa ci ha aiutato l’Ungheria. Il governo ungherese ha dato soldi per la ricostruzione della piana di Ninive per chi rimane lì” ricorda padre Karam. “Anche la Francia ci ha aiutato, molti cristiani feriti negli attentati sono stati ricoverati in ospedali francesi e Parigi ha fatto molto per dare loro il diritto d’asilo”. Per il resto, ha fatto qualcosa solo la Santa Sede, che può dare soldi, ma non garantire molto altro.
Molti cristiani vivono ancora nei campi profughi. Alcuni sono riusciti ad andare via dall’Iraq ma non è una situazione molto migliore. “I rifugiati cristiani sono perseguitati anche tra i profughi. In Germania, una famiglia cristiana in un campo non può esporre una croce perché hanno paura di ritorsioni da parte degli islamisti che arrivano in Europa con loro!”, dice il sacerdote. “Inoltre, le nostre famiglie non riescono a fuggire. Ci sono donne, bambini, anziani. E non abbiamo i documenti, perché l’Isis ci ha tolto tutto”.
Oggi, dopo i bombardamenti della coalizione internazionale, ma soprattutto dopo la riconquista da parte delle milizie curde e sciite, la piana è liberata. Ma la situazione non sembra essere destinata a tornare alla normalità. L’Isis c’è ancora, anche se fa meno notizia. Pochi giorni fa, una famiglia cristiana a Baghdad è stata uccisa a coltellate nella propria casa. Dieci giorni fa, vicino a Badush, a ovest di Mosul, le milizie popolari hanno rinvenuto una fossa comune con resti di più di 40 cristiani. “La maggior parte dei resti umani sono stati seppelliti collettivamente. Alcuni di questi erano donne e bambini. Avevano piccole croci cristiane con loro”, ha dichiarato la Chiesa ortodossa siriaca ad Alghad Press.
Come si può tornare allora alla vita i prima? Domandiamo a padre Karam.
“Tornare indietro è impossibile. Ma siamo cristiani e dobbiamo perdonare” ci dice il sacerdote, “non cerchiamo la vendetta, ma dobbiamo far capire che noi vogliamo esistere con la nostra fede
”. Quella fede che per i cristiani iracheni è stato l’unico verso sostegno in questi anni di persecuzioni. “La prima cosa che hanno fatto i nostri giovani quando sono tornati nel paese non è stata vedere la loro casa, ma rimettere la croce sul tetto della chiesa. Perché la croce rimane, il cristianesimo rimane e ci sarà sempre nella piana di Ninive”. L’emozione nella voce di padre Karam è palpabile, come la nostra quando lo ascoltiamo: “Noi abbiamo perso le case, gli oggetti, tutto, ma non la fede, che è la nostra forza e che è più forte di prima”.