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22 marzo 2018

Iraq, 15 anni dopo. Patriarca Sako (Baghdad): “Non bastano gli slogan per avviare una democrazia”

By AgenSIR
Daniele Rocchi

Il 20 marzo 2003 una coalizione multinazionale guidata dagli Usa iniziava l’operazione “Iraqi Freedom” per abbattere il regime di Saddam Hussein, reo di avere armi di distruzione di massa. Da quel momento cominciarono bombardamenti su Baghdad e altri target strategici del regime. Le immagini dell’abbattimento, il 9 aprile 2003, della statua di Saddam Hussein da parte dei soldati statunitensi e della popolazione fecero il giro del mondo e sembravano mettere la parola fine alla dittatura. Il 15 aprile la coalizione aveva conquistato tutte le principali città irachene e il 1° maggio il presidente statunitense George W. Bush proclamò concluse le operazioni militari su larga scala. L'”invasione”, tuttavia, innescò una guerra civile tra sciiti e sunniti e una guerriglia contro le truppe Usa, destabilizzando di fatto tutta la regione fino all’avvento dello Stato islamico. Con il patriarca caldeo di Baghdad, Mar Louis Raphael Sako, abbiamo fatto il punto sulla attuale situazione irachena.

Beatitudine, 15 anni fa l’invasione e la caduta di Saddam Hussein: come è cambiato il suo Paese da quel momento?
 
C’è più libertà di espressione e di pensiero, ma ciò che manca del tutto è la sicurezza. Mancano anche il lavoro, la ripresa economica, la stabilità politica. La popolazione ha potuto toccare con mano che la pace e la democrazia non sono frutto di magia, né tantomeno di imposizione.
Gli americani dovevano educare la popolazione alla democrazia, formarla alla libertà responsabile.
L’Iraq era un Paese che non aveva mai avuto la democrazia: il regime era dittatoriale, la cultura era tribale e settaria. Gli Usa questo non lo hanno ben compreso. Non bastano gli slogan per avviare una democrazia. C’è un fatto però che va detto: oggi la gente è consapevole dell’importanza di un cambiamento per un Iraq nuovo. Ogni venerdì ci sono manifestazioni nella piazza della Liberazione di Baghdad e tra i partecipanti ci sono anche tanti cristiani. Tutti chiedono un governo secolare, la libertà, l’uguaglianza, il rispetto dei diritti, che sono valori basilari di ogni Stato democratico.
L’”invasione” del 2003 ha destabilizzato tutta la regione e gli effetti sono tutt’ora visibili, basti pensare alla guerra in Siria. Di Iraq non si parla più. Sembra che nel Paese il conflitto sia finito. È davvero cosi?
La guerra non è finita. In alcuni punti ci sono ancora combattimenti e attacchi terroristici. Da sconfiggere è la mentalità e l’ideologia dell’Isis ma ci vuole tempo. Per uscire fuori da questa situazione occorrono pace, sicurezza, lavoro, istruzione, stabilità, educazione al rispetto e alla tolleranza. Come cristiani ci stavamo abituando ad una certa sicurezza qui a Baghdad ma, nemmeno dieci giorni fa, una famiglia di nostri fedeli è stata sterminata. Siamo rimasti tutti scioccati.
Come se ne esce da questa situazione?
Ripeto: ciò che serve adesso all’Iraq sono la pace e la stabilità ma soprattutto la piena cittadinanza per tutte le componenti della società, anche dei cristiani. Siamo tutti cittadini iracheni, figli della stessa terra. Perché mettere barriere fra le persone?
           La cultura settaria non ha futuro,
non può essere la tribù, la setta o la milizia a proteggere i cittadini ma lo Stato, con la Polizia e l’Esercito. La popolazione deve essere formata su questo punto e sulla necessità di un Governo secolare.
Sembrava che con la nuova Costituzione emanata nel 2005 qualcosa potesse cambiare, e invece?
È una trappola contro le altre religioni. L’art. 2 della carta di fatto istituisce l’Islam come religione ufficiale di Stato e una fonte primaria della legislazione e, nello stesso tempo, richiede che le leggi non contraddicano i principi democratici e le libertà basilari.
          La religione non può essere fonte di diritto per uno Stato.
Deve essere la politica. La società deve essere di tutti e per tutti.
Fra pochi giorni si voterà in Egitto, poi a maggio in Libano e in Iraq. Si tratta di un’opportunità per la componente cristiana che potrà far sentire la propria voce…
Si tratta di un passo molto importante. La gente dovrà assumersi la responsabilità, personale e nazionale, di scegliere coloro che ritengono capaci di servire il Paese e il popolo senza pensare alla propria tribù o fazione politica. Qui in Iraq la corruzione è dilagante, non ci sono progetti e i soldi vanno nelle tasche dei politici corrotti. Siamo in un momento cruciale di cambiamento.

Purtroppo i cristiani iracheni vanno a queste elezioni divisi tra loro…
Non solo i cristiani, ma anche i sunniti, gli sciiti, i curdi, gli arabi. Tutto l’Iraq è diviso e questa divisione ha un impatto sui cristiani. La loro agenda non è indipendente: ci sono cristiani che militano con i curdi, altri con gli arabi. Questa frammentazione per noi è una grande perdita: abbiamo ben otto liste invece che una.
Una frammentazione provocata anche dalla persecuzione che impedisce ai cristiani di essere presenti e incisivi nella vita sociale e politica irachena?
            I cristiani sono un obiettivo e ciò deve essere chiaro.

Ma la persecuzione dei cristiani non esiste solo in Iraq, è diffusa in tutto il mondo. I cristiani non sono accettati. Anche in Occidente, dove c’è una forte indifferenza, spesso hanno vergogna di professare pubblicamente la propria fede. Non ci sono attacchi contro i cristiani solo da noi. Durante l’ultima visita ad limina abbiamo chiesto a Papa Francesco di continuare a sostenere i cristiani di Oriente perché soffrono tanto e fanno parte della Chiesa.
Quanto pesano sul futuro dell’Iraq le tensioni ai suoi confini e soprattutto le pressioni di attori regionali come Iran, Turchia, Arabia, Israele, e internazionali, come Usa e Russia?
Sono guerre assurde. Otto anni di conflitto in Siria, in Iraq, nello Yemen, in Libia. Oltre 50 anni di guerra tra israeliani e palestinesi. Questo perché i leader invece di ricercare la pace e il rispetto dei diritti dell’uomo perseguono interessi particolari che fomentano tensioni e guerre. I politici devono avere la consapevolezza di portare avanti una missione: rispettare la libertà e le proprietà degli altri e non sfruttarle per il bene particolare.
Dopo la liberazione da parte dell’esercito iracheno della Piana di Ninive dall’Isis, come procede il rientro dei cristiani nei loro villaggi?
Su 20mila famiglie ne sono rientrate 7mila. Tuttavia permangono diversi problemi: non tutte le case sono state restaurate o riedificate. Tantissime sono state quelle bruciate o totalmente distrutte dallo Stato islamico (Isis). Ci vogliono moltissimi soldi.
Un altro ostacolo è la divisione della Piana che prima era unita. Una parte adesso è in mano al governo regionale curdo e un’altra a quello centrale di Baghdad.

Le popolazioni che la abitano hanno paura di un confronto armato tra i due e, per questo, sono dubbiose se fare rientro o meno. Il ritorno è lento ma abbiamo speranza che tornino nelle loro case per continuare lì la loro vita.

         Il patrimonio cristiano iracheno è ricchissimo e senza la comunità rischia di      diventare un albero tagliato.
Sul numero dei cristiani iracheni rimasti nel Paese ci sono dei numeri affidabili?
Non abbiamo statistiche precise. Circolano in compenso molte bugie sul numero: qualcuno dice che siano solo 80mila, ma non è assolutamente vero. Stimiamo che possano essere tra i 400 e i 500mila.

Cosa si attende per questa Pasqua per i cristiani della regione?
           Ogni cristiano sia artigiano di pace

e apra gli occhi sul Cristo della fede e non solo sul Cristo della storia. Se crediamo in Lui tutto cambia. Dobbiamo avere questa fede profonda.