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12 febbraio 2018

Parla il vescovo caldeo di Aleppo: «I cristiani hanno dato prova del loro attaccamento alla Siria»

By Aleteia
Paul de Dinechin



Vescovo caldeo di Aleppo, una delle roccheforti cristiane più antiche di Siria, mons. Antoine Audo s’è messo al servizio dei Siriani durante i sei anni della guerra, come presidente della Caritas. Oggi vuole continuare a servire il suo Paese.


La Chiesa caldea fa parte delle chiese cattoliche orientali, duramente perseguitata, in Siria e in Iraq. I suoi rappresentanti sono stati ricevuti in udienza dal Papa il 5 febbraio 2018 in occasione della loro visita ad limina. Durante il vostro incontro con il Santo Padre, di cosa si è parlato?
Abbiamo toccato numerosi argomenti, abbiamo esposto le sofferenze e le difficoltà. Va da sé che s’è parlato molto anche del mondo arabo-musulmano: le sue gestazioni e le risposte che dobbiamo apportare. E, certamente, dell’Isis. Siamo rimasti molto colpiti al toccare con mano fino a che punto il Santo Padre fosse al corrente di tutte le questioni. Segue le cose molto da vicino.
Come è andato l’incontro?
Sono stato molto colpito dalla sua prossimità. A un certo punto, il nostro Patriarca ha trovato che avessimo già passato un congruo tempo con lui, e ha preso quindi a ringraziare il Santo Padre per accomiatarci. Di solito, è il Papa che si alza e che congeda i convenuti. Ma Papa Francesco ha risposto: «Se avete ancora domande da pormi, prendiamoci il tempo necessario, non ho fretta». Colpisce molto, una simile disponibilità, un tale ascolto. Ciò che mi ha più toccato è il suo linguaggio di verità: non ha peli sulla lingua e non si lascia condizionare da protocolli o da divieti. Si esprime così come pensa, senza mezzi termini e senza paura di affrontare i problemi. È veramente una grande novità per un Vescovo di Roma.
Vi ha parlato del suo desiderio di venire, intendo proprio in Siria e in Iraq?
Gli iracheni gli hanno dichiarato che vorrebbero tanto vederlo in Iraq. Un Vescovo ha pure affermato che tutti i Paesi del Medio-Oriente sono stati visitati da un Papa, eccezion fatta per l’Iraq. Si pensi a cosa fece Giovanni Paolo II quando venne da noi, in Siria, a Damasco. Io non l’ho invitato in Siria [Francesco, N.d.T.], perché credo che per il momento l’Iraq resti prioritario, e che sia troppo difficile per lui venire, anche se ne ha il desiderio. Ma è una questione di sicurezza, in un contesto bellico.
Se la situazione migliorasse, in quali città potrebbe venire?
A Damasco in primo luogo, come fece Giovanni Paolo II nel 2001. È la capitale, è san Paolo. È poi lì che attualmente ci sono più cristiani. Quando il Papa polacco venne, nutrivamo pure la speranza che venisse ad Aleppo, perché è una città che vanta una presenza cristiana molto antica. Ma la cosa non si potè fare per via delle troppo ingenti minacce per la sua sicurezza. Tradizionalmente, è ad Aleppo che si trovava la più forte concentrazione di cristiani. Con le sue comunità e la sua storia, la presenza di chiese e di Vescovi. Ma dall’indipendenza della Siria in qua, dal 1946 a oggi, c’è stato un ritorno di fiamma verso Damasco, come è capitato del resto per Baghdad, con i caldei venuti dal nord. Le università della capitale attirano, così come pure il lavoro.
Al termine della guerra, si può affermare che lo Stato Islamico è stato definitivamente battuto?
Il 15 marzo 2018 saranno sette anni. In questi ultimi tempi, abbiamo avuto diversi incontri in distinti dicasteri della Curia romana. Durante uno di questi incontri mi ha colpito sentire un diplomatico affermare che da una parte l’Isis era stato vinto, ma dall’altra questo non voleva dire che il fondamentalismo islamista era stato battuto. Forse rispunterà in un altro modo, poiché esistono altre tendenze estremiste, nell’Islam.
È ancora possibile, in Siria, testimoniare la propria fede cristiana?
Sì, penso di sì. L’abbiamo fatto molto, durante la guerra. Sono stato presidente di Caritas Siria per sei anni. Credo che uno dei benefici addotti da questa guerra sia che molti musulmani hanno scoperto l’antica carità dei cristiani. E la riconoscono.
Sono dunque state possibili relazioni pacifiche tra cristiani e musulmani, in questo Paese. Succede ancora oggi?
Da una parte, i musulmani hanno una visione migliore di noi. Più profonda. I musulmani hanno scoperto tra i cristiani dei cittadini di qualità: persone che non vendono il loro Paese, che sono disinteressate. I cristiani non hanno sfruttato questa guerra come hanno fatto altri – Isis, Al-Nosra e tutti gli estremisti. Sfortunatamente, va pure detto che alcuni cristiani sono stati scandalizzati e hanno capitolato – spaventati a morte da questi estremisti. Tutto ci si aspettava tranne che un simile livello di violenza: tanta distruzione per vili interessi. I cristiani sono stati scandalizzati, ma i musulmani ammirano i cristiani oggi più di ieri. È paradossale, ma questa è la realtà. Bisogna ricostruire questa fiducia.
Il dialogo interreligioso esiste ancora, in Siria?
Il dialogo interreligioso non esiste nella sua forma occidentale. Noi distinguiamo diversi livelli di dialogo. In primo luogo, il dialogo di vita: si vive insieme, a scuola, all’università. Si tratta di buon vicinato, di commistione. Si è amici: ci si rende visita, ci si aiuta a vicenda. Ma la cosa più difficile è il dialogo teologico, dogmatico. E quello lì, a mio parere… non che bisogni proprio evitarlo, ma è meglio lasciarlo agli specialisti. Sennò non serve a niente e si ricade nella superficialità, nel sarcasmo o nell’aggressività. Noi incoraggiamo anzitutto il dialogo di vita, lo sviluppo della buona intesa amicale, il rispetto reciproco… pur restando veri e veraci, e quindi dicendo la verità, essendo sinceri con l’interlocutore.
Alcuni giorni fa è stata celebrata una messa in una chiesa depredata a Dei Ezzor. È la speranza che torna?
Ha una forte carica simbolica, celebrare la messa in simili posti. A Deir-Ezzor avevamo una piccola presenza caldea, una cinquantina di famiglie. Prima dei tristi fatti di cui parliamo andavo lì ogni anno per una visita pastorale. Oggi non c’è più niente, sono tutti partiti. Ad Aleppo, altro esempio, c’è una chiesa – la cattedrale dei maroniti – interamente saccheggiata. Sono stato invitato dai maroniti a pregare con loro. Il nostro Patriarca torna di tanto in tanto nella piana di Ninive per delle celebrazioni nelle chiese distrutte. Sono gesti di speranza per dire che vogliamo restare, malgrado le difficoltà. Quanto alla nostra cattedrale di Aleppo, che si trova accanto a una grande moschea, è stata risparmiata proprio in ragione della sua collocazione. Ma molte famiglie e molti giovani sono partiti. Anche questa è una distruzione, è una sofferenza.
I cristiani sono più desiderosi di prima di impegnarsi in politica? Sono i benvenuti?
I cristiani continuano a impegnarsi, sono sempre onorati di poter servire e mettere le loro competenze al servizio del Paese. Bashar al Assad ha nominato cinque cristiani in posti-chiave, in particolare ai ministeri dell’Insegnamento superiore, della Salute e dell’Economia. Tradizionalmente, ce n’erano sempre stati tre o quattro, in quei posti. Dopo i noti eventi, sono diventati cinque. Anche il nuovo presidente del Parlamento è un cristiano. È un vero messaggio politico.
Le sue convinzioni per l’avvenire?
Anzitutto, la presenza cristiana in Siria e in Medio Oriente è molto preziosa. Tanto per i cristiani d’Oriente quanto per la Chiesa universale. Questa è la culla del cristianesimo. Inoltre, per me i cristiani del Medio Oriente – i cristiani arabofoni – testimoniano una grande capacità di dialogo, di riflessione. Come sottolinea Papa Francesco, non possiamo immaginare il Medio Oriente senza la presenza dei cristiani d’Oriente. E continuerò a servire la Chiesa per loro.

(traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio)