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28 febbraio 2018

Clergy christen church relocation from Baghdad to Erbil

By Rudaw

Preferring to live and practice their faith in the Kurdistan Region, rather than elsewhere in Iraq, the country’s Christians are currently building three new churches.

One is the Adventist Church in Erbil's Ainkawa.

“We are very happy to open this church in the Kurdistan Region. Here we feel safe, stabile and we freely hold events,” Priest Jorge Shimon said. “We do have churches in other Iraqi provinces: Kirkuk, Basra, Mosul, and in Baghdad as well. 

Now, Christians have 305 churches in Iraq — 155 in the Kurdistan Region with 3 more now in construction.

“But unfortunately due to the security concerns in Mosul and Baghdad and other Iraqi provinces, we decided to keep our activities in Kurdistan Region and preserve our existence in the region,”
added Shimon.
The last census in Iraq was in 1987, when 1.5 million Christians were counted. Prior to ISIS, local groups estimate the Christian population was 400,000-600,000. About half have left Iraq since 2014, and around 130,000 sought shelter in the Kurdistan Region. 
“Because of Shiite and Sunni conflicts and blowing up churches, Christians migrate to the Kurdistan Region,” said Khalid Jamal Albert, KRG general director of Christian affairs. Christians are sure of safety in Kurdistan. 
“If they were unsure of the political situation, and the basis of co-existence, and [religious] tolerance in the Kurdistan Region, they would not migrate to it.”

In Iraq, the first Adventist Church was opened in 1924 in Baghdad. After several years the church was destroyed, pushing Christians into the Kurdish regions of Iraq. It was also later blown up again.

KRG Prime Minister Nechirvan Barzani was received by Pope Francis at the Vatican in January. 

Their meeting was a short one, but they touched on the current situation in the Kurdistan Region, relations with Baghdad, and the refugees and IDPs being hosted in the Region, Fuad Hussein, chief of staff of the Kurdistan Region Presidency, told Rudaw.

Dal Colosseo rosso al sostegno concreto. ACS stanzia 5 milioni di dollari per i cristiani iracheni ed inizia collaborazione con l'ONU


Dopo aver illuminato di rosso il Colosseo per attirare l’attenzione del mondo sulla persecuzione in odio alla fede, Aiuto alla Chiesa che Soffre stanzia un nuovo contributo di 5 milioni di dollari per i cristiani della Piana di Ninive.
Dall’inizio dell’avanzata di Isis nel 2014, ACS ha donato ai cristiani iracheni circa 31 milioni e 150mila euro, prima per l’assistenza agli oltre 125mila rifugiati e poi per la ricostruzione dei villaggi della Piana di Ninive. Ricostruzione che ha permesso finora al 35 percento delle famiglie cristiane di ritornare ai loro villaggi. Con il nuovo contributo sarà possibile riparare o ricostruire altre 2mila abitazioni delle 13mila distrutte o gravemente danneggiate dallo Stato Islamico.
Un ruolo determinante, quello della Fondazione pontificia, che è stato riconosciuto anche da numerose istituzioni. Questa settimana infatti, il segretario generale internazionale di ACS Philipp Ozores, ha incontrato a New York Mourad Wahba, rappresentante del Segretario Generale ONU per il programma di sviluppo delle Nazioni Unite, al fine di aggiornarlo sull’attuale situazione dei 95mila cristiani e degli appartenenti alle altre minoranze religiose rimasti nella Piana di Ninive. «L’Onu– ha evidenziato Wahba – riconosce la necessità di una più ampia collaborazione tesa a stabilizzare la regione e riconosce altrettanto l’esigenza di sostenere e tutelare la diversità religiosa dell’area anche come futura difesa da un’eventuale nuova avanzata dell’Isis».
Aiuto alla Chiesa che Soffre è l’organizzazione che più ha donato per i cristiani del Nord iracheno ed è lieta di poter finalmente contare sul sostegno delle Nazioni Unite. «Accogliamo con soddisfazione il necessario coinvolgimento istituzionale per porre fine al dramma dei cristiani di Ninive – ha affermato Ozores, volato a New York direttamente dopo l’evento al Colosseo – Per troppo tempo gli aiuti sono giunti dai soli donatori privati».

26 febbraio 2018

Cristiani perseguitati. Sacerdote iracheno: oggi ci è negato il diritto a vivere

By Vatican News
Fabio Colagrande e Gabriella Ceraso

La giornata di sensibilizzazione sulla persecuzione dei cristiani, voluta per il 24 febbraio dall'organizzazione Aiuto alla Chiesa che Soffre ( Acs), ha rivolto il suo pensiero soprattutto alle popolazioni del Medio Oriente.
La situazione dei cristiani in Iraq
Il pensiero va innanzitutto all'Iraq e alla Piana di Ninive, culla del cristianesimo da secoli: molti stanno tornando alle loro case, racconta padre Benham Benoka, sacerdote siro-cattolico della diocesi di Mossul, ma la sicurezza è assolutamente assente e non si riesce a ristabilire un sitema di "vita normale". Il sacerdote evidenzia la mancanza di servizi, di scuole, strade, acqua, ma la piaga più dolorosa, rivela, è la "disoccupazione". "La gente non sa dunque come andare avanti, è questa la sfida più grande per noi!"Per questo moivo, nonostante tutto, molte famiglie partono o lasciano proprio l'Iraq.
L' aiuto di Acs per tutti anche non cristiani
Il progetto e la campagna di sensibilizzazione di Acs con l'accensione dei monumenti più simbolici nel mondo, ha portato, dice padre Benham, "a ricordare i primi secoli e i primi martiri, come il nostro Patriarca Sant'Ignazio ucciso dai leoni al Colosseo, proprio come succede oggi ai cristiani che sono ancora perseguitati anche se su diversi livelli: la disoccupazione, la mancanza del diritto alla vita". Molti infatti non "vogliono vederci vivi" come cristiani qui: "non si dice, ma è la realtà a partire da molte fazioni politiche".
Chiediamo la benedizione del Papa e l'aiuto del mondo
Il sacerdote chiede la benedizione del Papa e il sostegno dei cristiani di tutto il mondo perchè siano difesi i diritti dei cristiani iracheni di esistere come tali, ma anche come cittadini. Non vogliamo "tornare indietro nella storia", in quelle che sono "le libertà fondamentali".  "Serve la buona volontà", dice, "del mondo intero, per sconfiggere il radicalismo islamico che è contrario ad ogni principio di umanità".

Ascolta l'intervista di Fabio Colagrande a p. Benham Benoka  cliccando qui

23 febbraio 2018

24 febbraio 2018: Il Colosseo Rosso. Aiuto alla Chiesa che Soffre per i cristiani perseguitati


                                                                        

Sarà il più grande evento mediatico di sempre per i perseguitati in odio alla fede, innanzitutto i cristiani.
Sabato 24 febbraio alle ore 18 Aiuto alla Chiesa che Soffre illuminerà di rosso il Colosseo Roma e in contemporanea la Cattedrale maronita di Sant’Elia ad Aleppo in Siria, e la Chiesa di San Paolo a Mosul in Iraq.
Dopo la Fontana di Trevi, il Palazzo di Westminster a Londra, la statua del Cristo Redentore a Rio de Janeiro, la Basilica del Sacro Cuore a Parigi e la Cattedrale di Manila, il rosso del sangue versato ancora oggi da tanti cristiani nel mondo torna ad accendere luoghi altamente simbolici.


In contemporanea a Mosul e Aleppo


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Saint Elijah Cathedral is an Eastern Catholic (Maronite) church in Aleppo, Syria, located in the Christian quarter of al-Jdayde. It is named after the biblical prophet Elijah. The church was built in 1873, replacing an old Maronite church. It was renovated in 1914


Ospiti d'eccezione

La serata vedrà la partecipazione di eminenti rappresentanti della Chiesa quali il cardinale Mauro Piacenza, presidente internazionale ACS, e il segretario generale della Conferenza episcopale monsignor Nunzio Galantino, accanto ad autorevoli figure istituzionali come il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, che interverrà a Roma sul palco allestito in Largo Gaetana Agnesi, di fronte al Colosseo.
L’evento sarà inoltre arricchito da momenti di testimonianza straordinari. Il primo vedrà protagonisti Ashiq Masih e Eisham Ashiq, marito e una delle figlie di Asia Bibi, la donna cattolica pachistana condannata a morte e in carcere dal 2009 perché ingiustamente accusata di aver insultato il profeta Maometto. Seguirà il drammatico racconto di Rebecca Bitrus, nigeriana per due anni ostaggio della setta islamista Boko Haram. Una terribile esperienza di fede imposta e violenze dalla quale è riuscita a fuggire portando in grembo il figlio di uno dei suoi carcerieri.

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Appuntamento dunque al 24 febbraio 2018 alle ore 18 circa in Largo Gaetana Agnesi.



22 febbraio 2018

La lotta per le elezioni politiche condiziona il ritorno dei rifugiati a Mosul e nella provincia di Ninive

By Fides

Le manovre e le pressioni delle forze politiche in vista delle prossime elezioni politiche irachene, in programma il 12 maggio, stanno condizionando pesantemente il processo di ritorno alle proprie aree di residenza degli sfollati che avevano abbandonato Mosul e ampie aree della provincia di Ninive durante gli anni del regime jihadista imposto dai miliziani del sedicente Stato Islamico (Daesh). Lo sostengono in particolare i militanti dell'Unione Patriottica del Kurdistan (UPK), che accusano i rivali del Partito Democratico del Kurdistan (PDK), di ostacolare il ritorno alle proprie case dei profughi di Mosul e della provincia di Ninive ancora ospitati nei campi presso Erbil, allo scopo di spingerli a votare per i propri candidati alle prossime elezioni politiche.
In tale operazione, i militanti del PDK – sostengono i rivali dell'UPK - avrebbero anche disseminato di check point le vie di comunicazione che uniscono il governatorato di Erbil con Mosul e diversi distretti della provincia di Ninive, compreso quello di Sinjar, abitato in larga parte dalla minoranza yazida.
Sono almeno 800mila i rifugiati iracheni interni che continuano a vivere nei campi allestiti nelle regioni di Erbil e Dohuk. Tra loro sono compresi anche molti delle decine di migliaia di cristiani che erano fuggiti dai propri villaggi della piana di Ninive nell'estate del 2014, davanti all'offensiva dei jihadisti di Daesh. Anche attivisti della componente Yazida, negli ultimi giorni hanno fatto riferimento a pressioni messe in atto dal PDK per ottenere voti e appoggi elettorali da parte di quella comunità.
I militanti dell'UPK hanno sollecitato il governo federale, la Commissione elettorale e il Parlamento iracheno a non rinunciare alle regole elettorali che dispongono il ritorno a casa degli sfollati, per consentire loro di esercitare il diritto di voto nelle proprie aree d'origine. Agli allarmi dell'UPK e di esponenti yazidi si uniscono quelli lanciati da Hanin al Qaddo, parlamentare appartenente alla componente minoritaria Shabak, che ha denunciato l'esistenza di un piano volto a dispiegare truppe statunitensi nella provincia di Ninive durante le elezioni, su richiesta e a garanzia della componente sunnita.
In questi giorni il redentorista Bashar Warda, Arcivescovo caldeo di Erbil, nel corso di conferenze e interviste realizzate negli USA ha riferito che i cristiani rimasti in Iraq dopo gli ultimi anni di conflitti e violenze sarebbero ormai meno di 200mila.

19 febbraio 2018

Chaldean archbishop: Time to be ‘honest’ in dialogue with Muslims

Mark Pattison

If Christians in the Middle East are going to be “honest” with their Muslim dialogue partners, said Chaldean Archbishop Bashar Warda of Irbil, Iraq, Muslims will have to acknowledge that the persecution of Christians in the region did not start with the Islamic State’s rise to power in 2014.
“We experienced this not for the last four years, but 1,400 years,” Archbishop Warda said during a Feb. 15 speech at Georgetown University in Washington, sponsored by the Religious Freedom Research Project of the university’s Berkley Center for Religion, Peace & World Affairs.


Christians are partly to blame, too, in the dialogue, according to Archbishop Warda. “We did not push back against the recurring periods of terrorism that inflicted cruel pain upon our ancestors,” he said. He added that Christianity also needs to return to a “pre-Constantine vision” of the church, recalling Jesus’ words shortly before his crucifixion: “My kingdom is not of this world.”
Given the scope of the Islamic State’s campaign to erase Christians and all non-Muslims from the territories it had controlled prior to a counteroffensive that decimated its ranks and holdings, “there is nothing left but to speak plainly,” he said. “When there is nothing left to lose, it is very liberating.”
Archbishop Warda added, “We object that one faith has now the right to kill another. There needs to be a change and a correction within Islam.”
He said the typical Muslim response to Islamic State’s atrocities — declared genocide by the U.S. Department of State in 2016 — falls along the line of “ISIS does not represent Islam,” but rarely goes further, with no acknowledgment of past mistreatment of Christians or an expression of remorse for them.
“Post-ISIS, when ISIS has shaken the conscience of the world, and shaken the conscience of the Muslim majority world as well,” Archbishop Warda said, much of Islam “defines you as infidels.”
“In the Middle East, we have moved from fear to terror to horror,” he said. “Where next? … Hundreds of thousands of innocent people have died.”
He noted, “We have been hearing courageous words from some Islamic leaders. It should be encouraged,” although he cautioned, “we should not be passive, or simply pray for the best.”
With about $3 million donated by Italian Catholics, Archbishop Warda started the Catholic University of Irbil in 2015. It has 82 students, including four Muslims, in undergraduate degree programs in the arts and sciences. While there are other Catholic colleges in the Middle East, he said he thought it was important that this school have the name “Catholic” in its title.
The wait for reconstruction money continues. Archbishop Warda said the money is needed now, but governments just continue to “talk” rather than distribute funds. He took note of a March 14-15 conference in the region sponsored by the U.S. Agency for International Development. “They will probably just talk more” then, he added. “Maybe by late 2020” will the region finally see the promised funds, he guessed aloud.
“Your policy assessments have life-or-death consequences,” the archbishop said, asking for material support and not charitable aid. “Help us develop sustainable ways of life and income in Iraq,” he added, with the most critical needs being education and health.
For the estimated 200,000 or so Christians remaining in Iraq — down from about 1.5 million in 2003, when the United States launched the Iraq War — “ours is a missionary role, to give a witness to the truth of Christ,” Archbishop Warda said. “I am not speaking of conversion. I am speaking of the fundamental truth … that we can show in a moment of unique clarity.”
Archbishop Warda said, “So many of our people have fled, and so few of us are left,” but he added he does not begrudge families for making the decision to live elsewhere permanently for their safety or that of their children. “While it is true that our numbers are small, the number of Apostles were also small.”

14 febbraio 2018

In Kuwait si discute della ricostruzione dell’Iraq. Mar Sako: non promesse, servono progetti

By Asia News

Per ricostruire l’Iraq, segnato da una serie di guerre sanguinose l’ultima delle quali contro il gruppo jihadista dello Stato islamico (SI, ex Isis), serviranno almeno 88 miliardi di dollari. Il denaro verrà utilizzato per riparare le infrastrutture danneggiate e costruirne di nuove, ripristinare case, scuole, edifici pubblici e favorire nuovi investimenti.
È quanto è emerso nella Conferenza internazionale per la ricostruzione dell’Iraq, che si è svolta dal 12 al 14 febbraio in Kuwait. Un appuntamento nel quale si è parlato molto di denaro e sono state fatte molte promesse, sottolinea ad AsiaNews il patriarca caldeo mar Louis Raphael Sako, “ma che non darà grandi frutti perché non si sono visti progetti precisi” e attuabili nell’immediato futuro. 
Nel terzo e ultimo giorno di incontri, il padrone di casa emiro cheikh Sabah Al-Ahmad Al-Sabah ha annunciato lo stanziamento di due miliardi di dollari “ai fratelli irakeni”. All’evento ha partecipato anche il segretario generale Onu Antonio Guterres, che ha lanciato un appello volto a “sostenere gli sforzi” di ricostruzione dell’Iraq. “Il mondo intero - ha detto - è in debito con voi per la lotta contro Daesh [acronimo arabo per lo SI], una minaccia globale”. L’obiettivo iniziale della conferenza è garantire la rinascita economica e sociale dell’Iraq dopo due sanguinose guerre del Golfo, l’invasione statunitense e l’escalation del terrorismo fino all’ascesa dell’Isis.
Secondo le stime formulate dagli esperti, il totale dei danni causati dall’ultima guerra contro Daesh ammonta a 88,2 miliardi di dollari. Baghdad auspica che l’appuntamento internazionale in Kuwait possa fungere da vetrina per attirare gli investimenti internazionali e coprire almeno parte delle spese di ricostruzione. Gli aiuti dall’estero sono, ad oggi, una componente essenziale per sopperire ai bisogni della nazione, anche se spesso la loro gestione è fonte di polemiche e controverse. 
“L’Iraq non ha bisogno solo di denaro - sottolinea il patriarca caldeo - ma di vicinanza, sostegno, progetti reali già presentati. L’Iraq ha bisogno di una ‘magna charta’ per la democrazia, per la cittadinanza e la sicurezza. Il pericolo è che il denaro possa finire, come avvenuto in passato, nelle tasche di persone corrotte o che alimenti i gruppi jihadisti ancora presenti sul territorio”. Per mar Sako la lotta alla corruzione “resta la priorità”, insieme ai piani di rilancio “del settore dell’istruzione, che è la base sulla quale ricostruire un Paese unito, solidale, pacifico”. 
Inopportuna - avverte - anche la decisione di tenere la conferenza in questa fase che precede le elezioni politiche in Iraq, perché “non è il momento giusto” per fare un incontro “tre mesi prima delle elezioni”. Il pericolo è che possa essere una forma ulteriore di “propaganda”, senza alcun risultato per la popolazione civile. “Oltretutto - accusa il patriarca caldeo - nessuno dei partecipanti ha parlato delle minoranze, dei cristiani e degli yazidi, e questo è gravissimo. Ricostruire i villaggi e le cittadine della piana di Ninive, far ripartire le attività economiche è essenziale per garantire il futuro della regione e garantire quel mosaico unico rappresentato dall’Iraq”
Istruzione, cittadinanza, pari diritti e doveri, lavoro. “L’Iraq doveva chiedere aiuto - prosegue - per la ricostruzione delle fabbriche, che sono in grado di offrire lavoro a tanta gente”. “Sono queste - conclude Mar Sako  - le basi per la rinascita del Paese e non promesse di denaro a pioggia che non danno alcuna garanzia in un’ottica di ripresa”. 
Un rapporto diffuso in questi giorni sui danni causati dai conflitto, mostra che il settore più colpito è quello della casa, con danni che toccano quota 16 miliardi di dollari pari al 35% del totale. I settori dell’energia, del petrolio e del gas hanno subito danni per 11 miliardi di dollari; il settore dell’industria e del commercio 5 miliardi; l’agricoltura oltre due miliardi di dollari; infine, pesanti anche le perdite nel settore dell’istruzione (2,4 miliardi, oltre 150 attacchi contro scuole e istituti dal 2014, 700mila studenti che hanno perso un anno scolastico) e della sanità (2,3). 
Nel breve periodo servono almeno 22,9 miliardi di dollari per promuovere i progetti più urgenti e garantire la ripresa delle attività; nel medio e lungo periodo sarà necessario aggiungere altri 65,4 miliardi per poter portare a termine tutte le iniziative necessarie. Almeno sette governatorati nel nord e nell’est dell’Iraq hanno subito danni per 46 miliardi. Il comparto della sicurezza necessita di circa 14 miliardi per gli interventi più urgenti; altri 10 per il settore bancario, che ha perso gran parte della sua liquidità. 
Pesantissimo anche il bilancio del capitale umano: la guerra contro i jihadisti ha causato la morte di 18mila persone e il ferimento di altre 36mila. Tuttavia, secondo alcuni esperti il numero sarebbe di gran lunga superiore. Per la sola riconquista di Mosul, a lungo considerata la “capitale” del Califfato, vi sarebbero stati oltre 10mila vittime. Il 90% di case e attività dei villaggi e delle cittadine della piana di Ninive è stato distrutto.

12 febbraio 2018

Pastoral Letter of H.B. Patriarch Louis Sako for Lent 2018

By Chaldean Patriarchate
Translated by Bishop Francis Kalabat

Many Christians today live in a crisis of faith and intellect because of the circumstances of war, instability, migration and the dominance of social media on the details of their daily lives. However, these challenges should not discourage their determination and dissuade them from renewing their faith and deepening it, to witness the Lord and His Church. But rather to increase within them the strength, confidence and enthusiasm, such as the power that yeast gives in dough, salt in food and light in darkness.
Lent is one of our most important times of fasting. It is a time in which the faithful focus on “the fasting of Christ” and His passion, by cutting off, food and drink, illicit relations, discontinuing of evil of all kinds, working with great confidence, enthusiasm and perseverance to purge the self of its desires and ambitions, and practicing asceticism. It is also a time to focus on reading of the Scriptures, service of love and preparation for the celebration of Christ's resurrection from the dead. It is also an opportunity to thank God for his unconditional love and generous grace.
Our choices should be built as Christians, at all levels, according to the will of God, and out of the gospel of Jesus Christ, in order to move forward.
The Bible tells us that the Christian presence is based on Jesus' three answers in response to the three temptations at the end of his fasting, declaring the full liberation that Gospel brings to the three sectors of human life, making it the subject of living in the following parts of our lives:
– Possession: Economic Life
– Emotions
– Power and Life
The temptations of Jesus are the same temptations of all Christians, and therefore making our fast a strong spiritual time, we hope that our reflections and activities will be centered during the seven weeks of lent 2018 on the following:
  1. Fasting every day except for Sundays, attending daily Mass, praying continuously for peace and stability in Iraq and the region.
  2. Daily reading and meditation on the Bible, in which we hear the voice of God to lead us in our personal and collective life, "Your word is a lamp to my feet and a light to my path”.
  3. Doing acts of mercy. This service requires a courageous and generous initiatives to use . It sick. Our service to our needy brethren is the strongest expression of love: "Whatever you did to the least of my brothers, you did it to me" (Matthew 25:40). Keep in mind that every good deed done in love and compassion is poured into the heart of God. The prophet Isaiah does well to describe the true fast: “Is not this the fast that I choose: to lose the bonds of wickedness, to undo the thongs of the yoke, to let the oppressed go free, and to break every yoke? Is it not to share your bread with the hungry, and bring the homeless poor into your house; when you see the naked, to cover him, and not to hide yourself from your own flesh? Then shall your light break forth like the dawn, and your healing shall spring up speedily; your righteousness shall go before you, the glory of the shall be your rear guard. Then you shall call, and the will answer; you shall cry, and he will say, Here I am." (Isaiah 58: 6-9)
  4. Fasting is time to live the mystery of forgiveness for ourselves and for others, which inevitably leads us to achieve reconciliation with ourselves and with our brothers. Much of the grief that afflicts our personal lives is caused by the lack of forgiveness.
  5. Stop criticizing the shortcomings of others with sarcasm and ill feeling. " Why do you see the speck that is in your brother’s eye, but do not notice the log that is in your own eye?” (Matthew 7: 3), and especially the unjust criticism of the Church? It is necessary to distinguish between truth and rumors.
  6. The pursuit of the unity of Christians with open hearts and recognize to their existence as part of the national fabric of Iraq, and to stop their decline, for Christians have had a historical presence in this country where they have a role and a message.
  7. To establish a Christian-Islamic co-existence with the true love that Christ taught us. We must assume our responsibilities through sincere dialogue, wisdom and vision, to be effective models of coexistence in achieving peace, stability, freedom and dignity for all. This peace will be achieved by political victory, administrative reform, and the economic revival that protects public money from theft.
I therefore encourage Christians to be active and influential in their serious participation in the upcoming elections and in choosing the most appropriate and the best change and reform.
May God bless and accept our fasting

Parla il vescovo caldeo di Aleppo: «I cristiani hanno dato prova del loro attaccamento alla Siria»

By Aleteia
Paul de Dinechin



Vescovo caldeo di Aleppo, una delle roccheforti cristiane più antiche di Siria, mons. Antoine Audo s’è messo al servizio dei Siriani durante i sei anni della guerra, come presidente della Caritas. Oggi vuole continuare a servire il suo Paese.


La Chiesa caldea fa parte delle chiese cattoliche orientali, duramente perseguitata, in Siria e in Iraq. I suoi rappresentanti sono stati ricevuti in udienza dal Papa il 5 febbraio 2018 in occasione della loro visita ad limina. Durante il vostro incontro con il Santo Padre, di cosa si è parlato?
Abbiamo toccato numerosi argomenti, abbiamo esposto le sofferenze e le difficoltà. Va da sé che s’è parlato molto anche del mondo arabo-musulmano: le sue gestazioni e le risposte che dobbiamo apportare. E, certamente, dell’Isis. Siamo rimasti molto colpiti al toccare con mano fino a che punto il Santo Padre fosse al corrente di tutte le questioni. Segue le cose molto da vicino.
Come è andato l’incontro?
Sono stato molto colpito dalla sua prossimità. A un certo punto, il nostro Patriarca ha trovato che avessimo già passato un congruo tempo con lui, e ha preso quindi a ringraziare il Santo Padre per accomiatarci. Di solito, è il Papa che si alza e che congeda i convenuti. Ma Papa Francesco ha risposto: «Se avete ancora domande da pormi, prendiamoci il tempo necessario, non ho fretta». Colpisce molto, una simile disponibilità, un tale ascolto. Ciò che mi ha più toccato è il suo linguaggio di verità: non ha peli sulla lingua e non si lascia condizionare da protocolli o da divieti. Si esprime così come pensa, senza mezzi termini e senza paura di affrontare i problemi. È veramente una grande novità per un Vescovo di Roma.
Vi ha parlato del suo desiderio di venire, intendo proprio in Siria e in Iraq?
Gli iracheni gli hanno dichiarato che vorrebbero tanto vederlo in Iraq. Un Vescovo ha pure affermato che tutti i Paesi del Medio-Oriente sono stati visitati da un Papa, eccezion fatta per l’Iraq. Si pensi a cosa fece Giovanni Paolo II quando venne da noi, in Siria, a Damasco. Io non l’ho invitato in Siria [Francesco, N.d.T.], perché credo che per il momento l’Iraq resti prioritario, e che sia troppo difficile per lui venire, anche se ne ha il desiderio. Ma è una questione di sicurezza, in un contesto bellico.
Se la situazione migliorasse, in quali città potrebbe venire?
A Damasco in primo luogo, come fece Giovanni Paolo II nel 2001. È la capitale, è san Paolo. È poi lì che attualmente ci sono più cristiani. Quando il Papa polacco venne, nutrivamo pure la speranza che venisse ad Aleppo, perché è una città che vanta una presenza cristiana molto antica. Ma la cosa non si potè fare per via delle troppo ingenti minacce per la sua sicurezza. Tradizionalmente, è ad Aleppo che si trovava la più forte concentrazione di cristiani. Con le sue comunità e la sua storia, la presenza di chiese e di Vescovi. Ma dall’indipendenza della Siria in qua, dal 1946 a oggi, c’è stato un ritorno di fiamma verso Damasco, come è capitato del resto per Baghdad, con i caldei venuti dal nord. Le università della capitale attirano, così come pure il lavoro.
Al termine della guerra, si può affermare che lo Stato Islamico è stato definitivamente battuto?
Il 15 marzo 2018 saranno sette anni. In questi ultimi tempi, abbiamo avuto diversi incontri in distinti dicasteri della Curia romana. Durante uno di questi incontri mi ha colpito sentire un diplomatico affermare che da una parte l’Isis era stato vinto, ma dall’altra questo non voleva dire che il fondamentalismo islamista era stato battuto. Forse rispunterà in un altro modo, poiché esistono altre tendenze estremiste, nell’Islam.
È ancora possibile, in Siria, testimoniare la propria fede cristiana?
Sì, penso di sì. L’abbiamo fatto molto, durante la guerra. Sono stato presidente di Caritas Siria per sei anni. Credo che uno dei benefici addotti da questa guerra sia che molti musulmani hanno scoperto l’antica carità dei cristiani. E la riconoscono.
Sono dunque state possibili relazioni pacifiche tra cristiani e musulmani, in questo Paese. Succede ancora oggi?
Da una parte, i musulmani hanno una visione migliore di noi. Più profonda. I musulmani hanno scoperto tra i cristiani dei cittadini di qualità: persone che non vendono il loro Paese, che sono disinteressate. I cristiani non hanno sfruttato questa guerra come hanno fatto altri – Isis, Al-Nosra e tutti gli estremisti. Sfortunatamente, va pure detto che alcuni cristiani sono stati scandalizzati e hanno capitolato – spaventati a morte da questi estremisti. Tutto ci si aspettava tranne che un simile livello di violenza: tanta distruzione per vili interessi. I cristiani sono stati scandalizzati, ma i musulmani ammirano i cristiani oggi più di ieri. È paradossale, ma questa è la realtà. Bisogna ricostruire questa fiducia.
Il dialogo interreligioso esiste ancora, in Siria?
Il dialogo interreligioso non esiste nella sua forma occidentale. Noi distinguiamo diversi livelli di dialogo. In primo luogo, il dialogo di vita: si vive insieme, a scuola, all’università. Si tratta di buon vicinato, di commistione. Si è amici: ci si rende visita, ci si aiuta a vicenda. Ma la cosa più difficile è il dialogo teologico, dogmatico. E quello lì, a mio parere… non che bisogni proprio evitarlo, ma è meglio lasciarlo agli specialisti. Sennò non serve a niente e si ricade nella superficialità, nel sarcasmo o nell’aggressività. Noi incoraggiamo anzitutto il dialogo di vita, lo sviluppo della buona intesa amicale, il rispetto reciproco… pur restando veri e veraci, e quindi dicendo la verità, essendo sinceri con l’interlocutore.
Alcuni giorni fa è stata celebrata una messa in una chiesa depredata a Dei Ezzor. È la speranza che torna?
Ha una forte carica simbolica, celebrare la messa in simili posti. A Deir-Ezzor avevamo una piccola presenza caldea, una cinquantina di famiglie. Prima dei tristi fatti di cui parliamo andavo lì ogni anno per una visita pastorale. Oggi non c’è più niente, sono tutti partiti. Ad Aleppo, altro esempio, c’è una chiesa – la cattedrale dei maroniti – interamente saccheggiata. Sono stato invitato dai maroniti a pregare con loro. Il nostro Patriarca torna di tanto in tanto nella piana di Ninive per delle celebrazioni nelle chiese distrutte. Sono gesti di speranza per dire che vogliamo restare, malgrado le difficoltà. Quanto alla nostra cattedrale di Aleppo, che si trova accanto a una grande moschea, è stata risparmiata proprio in ragione della sua collocazione. Ma molte famiglie e molti giovani sono partiti. Anche questa è una distruzione, è una sofferenza.
I cristiani sono più desiderosi di prima di impegnarsi in politica? Sono i benvenuti?
I cristiani continuano a impegnarsi, sono sempre onorati di poter servire e mettere le loro competenze al servizio del Paese. Bashar al Assad ha nominato cinque cristiani in posti-chiave, in particolare ai ministeri dell’Insegnamento superiore, della Salute e dell’Economia. Tradizionalmente, ce n’erano sempre stati tre o quattro, in quei posti. Dopo i noti eventi, sono diventati cinque. Anche il nuovo presidente del Parlamento è un cristiano. È un vero messaggio politico.
Le sue convinzioni per l’avvenire?
Anzitutto, la presenza cristiana in Siria e in Medio Oriente è molto preziosa. Tanto per i cristiani d’Oriente quanto per la Chiesa universale. Questa è la culla del cristianesimo. Inoltre, per me i cristiani del Medio Oriente – i cristiani arabofoni – testimoniano una grande capacità di dialogo, di riflessione. Come sottolinea Papa Francesco, non possiamo immaginare il Medio Oriente senza la presenza dei cristiani d’Oriente. E continuerò a servire la Chiesa per loro.

(traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio)

8 febbraio 2018

An update on Christians in Iraq

By EWTN
February 6, 2018

Chaldean Catholic Archbishop Bashar Warda gives us an update on his plan to rebuild Christian life in the Nineva Plain, including some much-needed good news and a plea for the U.S. government
.


The pope does not forget us, says bishop of the displaced Nineveh Plain Christians

By Aleteia

Pope Francis
received in audience the bishops of the Chaldean Catholic Church on February 5.
François Yakan, Patriarchal Administrator of the Chaldeans in Turkey, spoke with I.Media about the meetings, noting how Pope Francis reiterated his concern for Eastern Christians and the Christians of the Middle East.
In fact, the meeting began late because the pope was with Turkish President Recep Tayyip Erdogan, in discussions that focused on the status of Jerusalem.
The Holy Father then received the group of bishops led by Patriarch Louis Sako. Their talks lasted longer than expected, Bishop Yakan said. The pontiff took the time to speak with each bishop about the situation of his diocese.
“The pope does not forget us,” he assured. According to Bishop Yakan, the Successor of Peter was particularly attentive to the situation of the Chaldean diaspora, including “safeguarding its identity,” culture and liturgy.
“I am ready to go to Iraq,” the pope even said, adding however that “it was not the moment.” According to Patriarch Sako, the necessary security conditions are not met. It is the same with the political situation, tied up in a power struggle between the Kurdish autonomists and the central government of Baghdad, the Iraqi capital.
But the outlines of this hypothetical pontifical journey seem well defined. The Iraqi patriarch spoke of a stage in Ur, Mesopotamia—Abraham’s hometown in the Bible—as well as Baghdad and Erbil to visit the refugees.
There is indeed fear of the Chaldean Church slowly disappearing, despite it being one of the first Eastern Churches, founded in Babylon in today’s Iraq and traditionally going back to the Apostle Thomas.
This patriarchal Church is one of 11 Eastern Churches in Iraq. There are about one million faithful worldwide, with less than half still in Iraq, and 100,000 in Europe. The last great migration was sparked by the arrival of Islamic State in Mosul in 2014, when many Christians fled the Nineveh Plain and took refuge in the autonomous region of Kurdistan.

7 febbraio 2018

In Iraq "vibrazioni positive" ma ancora molte difficoltà. Intervista al patriarca della Chiesa Caldea.

By Baghdadhope*

In occasione della visita ad limina compiuta il 5 febbraio dai vescovi della chiesa caldea Baghdadhope ha parlato con il Patriarca Mar Louis Raphael I Sako della situazione della comunità cristiana in Iraq.
Di seguito un estratto della lunga intervista concessa da Mar Sako.
 
Visita ad Limina. Roma 5 febbraio 2018. Foto Mons. Basel Yaldo

Sua Beatitudine, dopo l’ufficiale liberazione dall’ISIS l’Iraq sta gradualmente sparendo dai media che se ne occupano ormai solo quando un grande attentato miete molte vittime e comunque solo per il tempo di darne notizia. Anche alla sua comunità cristiana non si presta più molta attenzione. Vuol dire che le cose vanno meglio?
Si e no allo stesso tempo. Se da una parte ci sono segnali incoraggianti per tutto l’Iraq, compresa la sua comunità cristiana, d’altra parte un certo tipo di ideologia legata al fondamentalismo islamico non è sparita con la cacciata dell’ISIS. E’ più difficile, certo, sentire ora dalle moschee incitazioni all’odio verso gli infedeli ma questo ai cristiani non basta e non può bastare.

Si riferisce al problema della sicurezza?

Certo. Prendiamo la Piana di Ninive. Nei villaggi della piana delle 20.000 famiglie cristiane che li abitavano circa 7000 sono tornate ma è indubbio che le tensioni tra il governo centrale e quello curdo spaventano coloro che pensano di potersi trovare tra due fuochi ed essere costretti ad una nuova fuga. L’ostinazione delle parti, la mancanza del dialogo e della volontà di instaurarlo rappresentano un ostacolo enorme. Ci sono villaggi cristiani, penso a Batnaya o a Telkeif, in cui nessuna famiglia ha ancora deciso di tornare.

Cosa servirebbe oltre alla sicurezza che l’accordo tra i due governi dovrebbe garantire?
 
Il sostegno economico e morale. I cristiani in Iraq hanno ricevuto e ricevono fondi dalle chiese sorelle ma anche dai privati. A livello governativo, invece, gli Stati Uniti hanno promesso aiuti che devono ancora arrivare mentre solo l’Ungheria ha attivato degli aiuti concreti.
L’Ungheria però in Europa è stata stigmatizzata proprio per aver teso una mano alla sola comunità cristiana sposando la tesi dell’aiuto ai correligionari ed aprendo di fatto una frattura tra religioni.
L’Ungheria non è un paese ricco in grado di aiutare tutti e la scelta è ricaduta sulla comunità cristiana in quanto più bisognosa delle altre che, seppure in misura insufficiente, godono dell’appoggio di altri governi.
In tutto il governo ungherese ha donato 2 milioni di dollari alla comunità caldea e 2 milioni a quella sira mentre la Conferenza Episcopale magiara ha donato 500.000 dollari che, su mia specifica richiesta, saranno impiegati per il villaggio di Batnaya che è stato completamente distrutto dall’ISIS e che, se la questione della sicurezza legata ai rapporti tra Baghdad ed Erbil sarà risolta, potrà riaccogliere i suoi abitanti. Altri governi potrebbero seguire questo esempio. Se ogni governo occidentale in grado di farlo donasse uno o due milioni di dollari molte cose potrebbero cambiare, e non solo per i cristiani. Affrontando la ricostruzione dei villaggi noi non ci occupiamo solo delle case dei cristiani, a Karamles per esempio ci occupiamo anche di quelle degli Shabak, e le infrastrutture vanno a beneficio di tutti. Noi non vogliamo investire le donazioni in cattedrali o i palazzi arcivescovili lussuosi. Non abbiamo progetti faraonici ma abbiamo case da costruire, assistenza da prestare, lavori da dare e creare. Persone da far vivere e persone da far ritornare.

La preghiera dei presuli caldei nella basilica di San Paolo fuori le mura. Foto Baghdadhope

Le prossime elezioni in Iraq potranno rappresentare una svolta nella politica del paese?
Difficile dirlo. Certo ci saranno dei cambiamenti, almeno nei rappresentanti. 72 di loro, ad esempio, perché non in possesso del titolo di istruzione richiesto (laurea) dovranno lasciare il posto ad altri, ma l’ostacolo più grosso è la divisione, il non accettare compromessi. Prenda i cristiani. Alle elezioni, almeno per quanto si sa ora, saranno divisi in ben 5 liste – 1 caldea, 1 sira, 2 assire ed 1 pro-curda. Un'enormità visto il numero dei cristiani che invece dovrebbero lottare più unitamente per i propri diritti.
La Chiesa fa quello che può ma certo un maggiore interesse nei suoi confronti – in quanto chiesa orientale – ci sarebbe di conforto.
A cosa si riferisce?
Nel corso della visita ad Limina di lunedì il Santo Padre ci ha chiesto, incoraggiato anzi, ad esporre le nostre problematiche in quanto pastori di una chiesa in sofferenza cui si sente umanamente e pastoralmente vicino. Forse una presenza degli Orientali nella Curia romana potrebbe essere per noi un aiuto ed uno stimolo a far sentire ed a far conoscere ciò che ci affligge. Ciò che abbiamo chiesto è una maggiore sensibilità verso le nostre realtà lontane ma sorelle. Il tiepido appoggio al Patriarcato da parte del  Vaticano nella questione dei sacerdoti e monaci che in passato hanno  abbandonato le loro diocesi ed i loro monasteri senza permesso ha lasciato, ad esempio, uno spiraglio attraverso il quale altri sacerdoti e monaci hanno abbandonato la chiesa. Io rispetto chi sente vacillare la propria vocazione o non si ritrova più in essa, è umano, ma non chi abbandona la strada scelta per motivi futili dimenticando che il nostro primo dovere è il servizio alla Chiesa. Per quanto il numero dei cristiani in Iraq sia complessivamente diminuito noi abbiamo bisogno di pastori. A Baghdad non ci sono sacerdoti a sufficienza ad esempio. La crisi vocazionale è legata all’instabilità del paese, all’emigrazione che ha privato molti giovani delle famiglie che vivono all’estero e di cui sentono la mancanza, alla instabilità psicologica di una popolazione che soffre da decenni per le guerre ed alla mancanza di formazione del clero. Da quando sono diventato Patriarca ho ordinato dei sacerdoti sposati, come è nel diritto delle chiese orientali, ma ho anche chiesto recentemente l’aiuto della chiesa siro-malabarese indiana che invece è ricca di vocazioni e condivide con quella caldea il rito e le comuni origini risalenti a San Tommaso. I religiosi che arriveranno dall’India ci aiuteranno ad esempio nella formazione e nella catechesi lascando la gestione delle parrocchie ai religiosi del luogo che meglio ne conoscono le singole realtà.
C’è poi il bisogno di “sentire” vicine le chiese occidentali che con poche eccezioni (Francia e Stati Uniti) stentano ad inviare delegazioni di alto livello a visitarci ed a constatare di persona le nostre difficoltà, ed un maggior sostegno per ciò che noi percepiamo come una violazione dei diritti umani ma che a quanto pare l’Occidente stenta a vedere come tale. In Iraq ad esempio un minore un cui genitore si converta all’Islam è automaticamente considerato musulmano. Non è forse calpestato il diritto umano a vivere nella religione in cui si è nati? Non si tratta di scelta me di costrizione che in più riguarda i bambini ed i ragazzi. Ecco, in casi come questi una maggiore solidarietà ci sarebbe di conforto morale e magari di aiuto pratico.

La completa sparizione della comunità di Mosul è ciò che più ha colpito tra tutte le prove che i cristiani iracheni hanno dovuto superare. Qual è la situazione in quella città oggi?
Malgrado ciò che è successo a Mosul direi che si assiste oggi ad una reazione musulmana nei confronti dell’ideologia fondamentalista. Parlerei di una “vibrazione positiva” che si percepisce nella popolazione musulmana. Quando alla vigilia di Natale ho visitato Mosul alla celebrazione da me officiata hanno partecipato molti, moltissimi, musulmani: esponenti religiosi, politici ma anche della cultura come i presidenti di due università. Ecco, lì ho percepito questa forte vibrazione.  A pulire ed a preparare la chiesa di San Paolo sono stati ad esempio dei giovani volontari musulmani. Certo c’è molto da fare, specialmente in una città in cui 25 chiese, in maggioranza caldee, sono state più o meno gravemente danneggiate dall’ISIS ma 90 famiglie cristiane vi sono tornate e speriamo siano solo le prime.
Ci sarà di nuovo una diocesi caldea di Mosul?
Certo. Per prima cosa sarà restaurata proprio la chiesa dedicata a San Paolo, a breve nominerò un sacerdote, e nel corso del prossimo sinodo, che dovrebbe tenersi a giugno, proporremo alla Santa Sede l’ordinazione di un nuovo vescovo che sia idoneo e che conosca la realtà e le problematiche di un territorio che da una parte vive in una normalità stupefacente se pensiamo a come era Mosul solo poco tempo fa, ma che dall’altra conserva alcune “sacche” di pensiero legate ad un’interpretazione del Corano ostile a tutto ciò che non è islamico.
Nel corso del prossimo sinodo poi verrà proposta anche la nomina di un vescovo per la Turchia dove l’ottimo lavoro svolto dal nostro vicario patriarcale, Mons. François Yakan, ha fatto sì che i rapporti  tra la chiesa caldea ed il governo siano buoni, una realtà testimoniata dalle varie visite fatte al Patriarcato a Baghdad dagli ambasciatori turchi di Iraq e di Turchia. Attualmente in Turchia vivono circa 1000 caldei autoctoni e circa 20.000 che negli anni vi si sono rifugiati. E’ necessario che abbiano un vescovo a rappresentarli ai massimi livelli.
In passato la comunità irachena cristiana ha sempre rappresentato un punto di riferimento nel campo dell’insegnamento impartito ai membri di tutte le comunità del paese. Ha ancora questo ruolo?
Certo. A Baghdad, ad esempio, il Patriarcato gestisce tre scuole, anche le suore hanno delle scuole e sono molti gli asili.
Sono tutte scuole private in cui, devo dire come sempre, la maggioranza degli studenti è di fede musulmana proprio per l’alta considerazione in cui è tenuto l’insegnamento impartito dai cristiani. In esse entrambe le religioni vengono insegnate e spiegate. Una cosa che, ad onor del vero, capita anche nelle scuole pubbliche in cui un determinato numero di studenti (variabile da scuola e zona) è cristiano e per le quali il governo ci chiede di suggerire i nomi degli insegnanti laici che hanno frequentato i nostri centri di catechesi.
Sono piccoli passi e piccoli segni ma sono importanti a far comprendere quanto e come i cristiani possano contribuire alla crescita di tutta la società irachena.
 
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8 febbraio 2018
Asia News


Patriarca caldeo: Senza casa e lavoro, il pericolo di un nuovo ISIS in Iraq

6 febbraio 2018

Papa Francesco: «Sto pensando a un viaggio in Iraq ma le condizioni non lo permettono»

By Il Messaggero
Franca Giansoldati

Ad un tratto ha preso la parola il vescovo caldeo di Betzabda, Basel Yaldo. «Santo Padre quando è che viene in Iraq a vedere le sofferenze di noi cristiani?» Nel Palazzo Apostolico ieri mattina, subito dopo l'udienza con il presidente turco Erdogan, c'erano i quindici vescovi di rito caldeo provenienti non solo dall'Iraq ma da Egitto, Libano, Iran, Turchia, Stati Uniti e Australia. Un incontro di un'ora e mezzo definito dai presenti «profondo, positivo, utile e libero», convocato per fare il punto sulle difficoltà delle comunità cristiane che da anni si trovano tra l'incudine e il martello, lacerate dall'emigrazione forzata, da anni di persecuzione dell'Isis nelle zone attorno a Mosul, dalla diaspora, dalle difficoltà economiche e da una politica che spesso non tutela le minoranze. Da qui la domanda di monsignor Yaldo. Papa Francesco gli ha risposto che se fosse per lui lo farebbe subito. «Ci stiamo pensando ma le condizioni attualmente non lo permettono».

La delegazione era guidata dal Patriarca Luis Sako che ha illustrato il quadro generale. Prima di Natale Sako intervistato dal Tg2000 ha commentato una inchiesta fatta dalla Ap sulla liberazione di Mosul che ha rivelato il tributo di sangue pagato dagli abitanti della città nord-irachena; con 9-11 mila civili morti per la liberazione dall’Isis. Nei nove mesi, da ottobre 2016 ad agosto scorso, necessari per liberare Mosul, 3200 civili sono morti sotto le bombe e i colpi di mortaio della coalizione a guida Usa, che ha riconosciuto la responsabilità per solo 326 vittime. Altre 3 mila circa sono state trucidate dall’Isis. Mentre di ulteriori 4000 donne, uomini e bambini, uccisi nei quartieri martellati da tutti gli attori in guerra, non è stato possibile stabilire la responsabilità.

«È una cosa terribile – aveva detto il Patriarca cattolico iracheno - Abbiamo seguito questi bombardamenti per la liberazione di Mosul. La responsabilità è di tutti. La prima grande responsabilità è del movimento terrorista Isis, che ha un’ideologia terribile, cieca, ma anche di chi è stato dietro all’Isis, chi l’ha finanziato e fatto entrare nelle città a cacciare la gente. Qui ci sono 3 milioni di rifugiati. La verità è chiara, bisogna solo aprire gli occhi. Tutti sanno la verità».


2 febbraio 2018

Accuse e smentite su presunti tentativi di alterare gli equilibri demografici della Piana di Niniv

By Fides

I fragili equilibri demografici della Piana di Ninive - regione irachena di tradizionale radicamento storico delle comunità cristiane autoctone della Mesopotamia – tornano al centro di polemiche politiche che vedono contrapporsi rappresentanti del governo della Regione autonoma del Kurdistan a esponenti locali che fanno capo al governo centrale di Baghdad.
A lanciare l'allarme – riferiscono i media locali – è Khalil Jamal Alber, direttore generale per gli affari cristiani presso il Ministero per le dotazioni religiose (Awqaf) del governo della Regione autonoma del Kurdistan iracheno. Secondo Khalil Alber, le Forze di mobilitazione popolare – milizie di matrice sciita presenti sul territorio della Piana di Ninive – starebbero ponendo in atto un vero e proprio tentativo di modificare la composizione multi-religiosa e multi-etnica della popolazione della Piana, a scapito della componente cristiana. Tale programma verrebbe condotto attraverso il trasferimento nella regione di popolazione sciita proveniente anche dall'Iraq meridionale, attraverso forme di intimidazione e di pressione sociale e attraverso espropri appropriazioni anche illegali di beni immobiliari appartenenti a famiglie cristiane. Rientrerebbero in tale programma anche i progetti immobiliari avviati in alcuni centri abitati della Piana, destinati a ospitare popolazione sciita. Nelle forme di intimidazione diffusa a danno dei cristiani sarebbero coinvolti – secondo quanto riferito da Khalil Alber – anche esponenti della gruppo etnico religioso Shabak. E ci sarebbbero pressioni per spingere i cristiani emigrati per sfuggire al dominio jihadista della Stato Islamico (Daesh) a vendere le proprie case, rinunciando definitivamente a ogni ipotesi di ritorno alle proprie case.
All'allarme lanciato dal funzionario del governo della Regione autonoma del Kurdistan hanno risposto esponenti del Consiglio provinciale della Piana di Ninive, secondo i quali la composizione multireligiosa e multietnica della popolazione della Piana di Ninive continua a essere tutelata, molte organizzazioni stanno aiutando i reimpatri delle famiglie cristiane, e nelle città e nei villaggi della Piana riaprono i negozi e vengono restaurate le case devastate e la maggior parte dei luoghi di culto.

1 febbraio 2018

Tackling Violence Committed in the Name of Religion


Wednesday 31 January – Friday 2 February 2018

Chaldean Patriarch Louis Raphael Sako


Offering Gratitude
Thank you for your concern in organizing this Conference about Tackling Violence Committed in the Name of Religion. It is a pleasure to be here, promoting peace and dignity for humankind regardless of religion and nationality.

Introduction
In general, the core of the religious “message” is to call people for worshiping God; cooperating among them; protecting nature; achieving peace and security. However, it is a pity that all religions have used some forms of violence during the history.
Interfaith conflict is a scandal. It is a crime that people are persecuted because of their faith, as it happened in Iraq (100 churches have been attacked, burnt or destroyed since 2003 but also many mosques). The same thing happened, in Syria, Egypt, Nigeria, and against Muslims of (Rohingya) in Myanmar, and other countries around the world.
If different religions have a sincere dialogue to understand the importance of the spiritual dimensions of religions, such as the urge to obey God, respect humankind and environment. They will definitely bring peace to the world.

Two Major Factors are contributing to Religious Violence
:

1: Scripture
Major problem in religion is when we interpret the scripture literally. Religious authorities should look for an exegesis and an update in order to move from the “rigid letter” to the appropriate meaning that allows us to understand the “message” properly and apply it on our daily life. Saint Paul in the second Epistle to the Corinthians says: "for the letter brings death, but the Spirit gives life" (3/6).
As we are living in a different age compared to the religious era, new concerns and values are emerging on the surface, such as freedom, human rights, women issues, democracy, secularism, justice, equality etc. Hence, there is a genuine need to look at the reality and do what suits the lives of people without sacrificing their doctrine and moral values. The Church realized that and made a big progress.


2. Politics
The use of religion in political matters and personal interests
is distorting it.


a. Since Crusades, the Arab world has linked the loyalty of Middle – Eastern Christians to the West. This confusion is so common, that it is very hard to be removed from their minds.

b.
The Israeli – Palestinian conflict is also creating tension. The Arab world believes that the west is supporting Israel against Palestinians. This mentality motivated political Islam to take over this region, using violence.
                      
    Some Solutions
    Countering extremism and terrorism, religious authorities should work together to develop an effective strategy that responds to challenges of current and future times to achieve peace.
    No matter how discouraging are the chances, we are firmly convinced, that the future is promising due to our persistence in strengthening life's respect and promoting peace by:

    1.
    Assuring that Governments are applying the established charter of human rights for all citizens, and avoid creating “second-class citizenship”. Especially that Christians and other minorities are facing thousands of problems on daily basis caused by constitution and the sectarian culture. So, it is necessary to get rid of certain laws that treats Christians as 2nd class citizens.

    2.
    Reforming the Constitutions and laws in order to respect life, promote peace and stability.

    3.Granting equal citizenship to all people, away from religious preference. It does not matter I am Christian or Muslim. The main thing is, I am an Iraqi citizen and I have the right to live in freedom and dignity.
     

    4. Updating religious national education programs, as well as helping other religious and ethnic communities to avoid the re-emerging of extremists and terrorist groups, such as al Qaeda and ISIS.

    5.
    Promoting humanitarian and national participation to endorse a spirit of tolerance, affection and respect for the right of religious and intellectual pluralism.

    6.
    Eliminating the ideology of jihad in Islam or holy war in Christianity and other religions, since every country has an army and police to protect citizens and defend the homeland.

    7.
    Preserving the Christian patrimony. Especially that there are churches and monasteries since the 5th century standing as a living witness of Christianity on this land.

    In conclusion, I believe that our mission as Christians and Muslims in the Middle East is to educate our people how to achieve peace, mainly by living together in harmony. It may take time, but we won’t give up.