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22 dicembre 2017

Natale fra i profughi di Mosul: dove la fede in Cristo ha vinto la follia dell’Isis

By Asia News

Il ringraziamento alla Chiesa locale, che “ci ha fatto sentire a casa”; la forza della fede, che “rimane, mente l’Isis se n’è andato”; e ancora, un invito ai cristiani irakeni fuggiti dal Paese, perché tornino per “collaborare tutti assieme alla ricostruzione” del Paese. Sono solo alcuni passaggi, di una lunga intervista realizzata da AsiaNews a due famiglie di profughi cristiani di Mosul, fuggiti nell’estate del 2014 in concomitanza con l’ascesa dello Stato islamico (SI, ex Isis).  Da tempo queste due famiglie vivono, assieme a 150 altri nuclei cristiani, musulmani e yazidi, nella parrocchia di Enishke (diocesi di Amadiya, Kurdistan irakeno) affidati alle solerti cure di p. Samir Youssef. Anche se la lotta contro le milizie jihadiste è vinta, restano ancora molti problemi e difficoltà, primo fra tutti la ricostruzione delle case, che impedisce un ritorno a breve.
La prima famiglia, originaria di Mosul, è composta dal padre Emad Matti Elias, 64 anni, un tempo operaio in una fabbrica di grano; la moglie Jiandark Mahe Haqobian, 59 anni, e due figli: Meriana, nata nel 2001 e che frequenta le medie e la sorella Fostina, nata tre anni più tardi. La seconda famiglia, anch’essa fuggita da Mosul e oggi ospite in una scuola adibita ad alloggio, è formata dal padre Asaad Amen Jiarjes, 47enne meccanico che oggi svolge lavori saltuari; la moglie Mari Noel Abdel Ahed, 44 anni, e le figlie Lara e Jilan nate nel 2003 e nel 2006.
Ecco, di seguito, la loro testimonianza ad AsiaNews raccolta da p. Samir:

Come avete vissuto questo periodo di Avvento, in preparazione al Natale?
Emad:
I primi tempi, dopo la fuga da Mosul per l’arrivo dello Stato islamico, era difficile vivere il Natale. Ma dopo il nostro arrivo qui a Enishke, l’accoglienza della Chiesa locale ci ha fatto sentire a casa. E ci ha accompagnato nel vivere la nostra fede, insegnandoci e aiutandoci a prepararci alla festa della nascita di Gesù a livello materiale e spirituale. 
Asaad: Sopratutto a livello spirituale, partecipando al tempo di preghiera, agli incontri, ai canti di tutta comunità. Insieme ai nostri figli abbiamo fatto anche l’albero, perché è sempre fonte di grande gioia, soprattutto per noi che viviamo ancora oggi in una scuola, che è diventata la nostra casa. Ma quello che conta è la compagnia di Gesù. Spesso ci riuniamo per leggere il Vangelo, cantare, pregare il Rosario. [Intervengono i figli, che aggiungono] L’albero è un simbolo della Croce, dà il senso della vita e ci dà tanta gioia.
Cosa significa per voi il primo Natale dopo la sconfitta dell’Isis?
E:
Questo Natale è molto diverso e significa molto per noi. È la conferma che Gesù è la vita vera, la vita nuova, e che ogni male ha la sua fine. L’Isis è finito perché il male non ha futuro. Questo è davvero il Natale dell’amore, più forte della morte. È la festa della vita, della vittoria per tutti i cristiani. Significa che dopo ogni notte viene il giorno, dopo l’oscurità la luce. Gesù è venuto come luce per il mondo e la vita di Gesù vince sempre qualsiasi tipo di morte, di paura e di male. Non abbiamo più paura per le nostre figlie.  
A: Questo Natale ci dona forte il senso della speranza. Continuiamo a vivere accanto a Gesù, perché non solo l’Isis, ma nessun tipo di male può separarci da Cristo. E noi continuiamo la nostra missione di testimoni con Cristo. Questo è il Natale: Gesù con noi. [Prosegue la moglie] Siamo molto felici che l’Isis non ci sia più, sentiamo l’amore di Dio nei cuori. Questo, l’amore di Dio, resta per sempre, non lo Stato islamico come gridavano i jihadisti.
Quanto ha contato la fede in Gesù, in questi anni di sofferenza e lontananza?
E:
La fede è stato il punto di partenza per sopportare tutto. La forza che ci ha aiutato per continuare a vivere, per ricominciare da zero qui. La nostra fede rimane, mentre l’Isis se n’è andato. In questi tempi di difficoltà e lontananza dalla nostra casa, la fede e la preghiera sono state la nostra forza. Viviamo la nostra fede attraverso la preghiera, cibo della anima. Senza questa fede non saremmo arrivati fino a qui e vogliamo viverla oggi partecipando a tutte le attività.
A: La nostra fede è stata il primo aiuto, la base per sopravvivere. Abbiamo vissuto la nostra fede qui a Enishke con i fedeli della parrocchia; una parrocchia che ci ha accolto come i suoi figli. Oggi possiamo dire con orgoglio di non aver abbandonato la nostra fede. E attraverso la preghiera, tramite la Chiesa, il parroco e nostro padre spirituale “Abuna Samir”, abbiamo potuto sperimentare l’amore di Dio, e che non siamo soli. Di qualunque cosa avessimo bisogno, la Chiesa locale è sempre venuta in nostro aiuto, permettendo anche alle nostre figlie di studiare… vorrebbero diventare dottoresse per curare i bisognosi.
Come vedete il futuro dell’Iraq?
E:
Il Paese è composto da regioni molto diverse fra loro, e da etnie diverse, oltre che trovarsi in una zona non stabile. Per questo ci sono sempre problemi, scontri. Ma noi speriamo e crediamo che il Signore non abbandonerà l’Iraq, e si troverà un giorno la pace, la stabilità. A volte riusciamo a essere ottimisti, confidiamo nella Provvidenza divina e nella protezione della Chiesa. Resta la paura, ma la fede e la speranza sono più forti, vincono la paura e non vogliamo che i nostri figli crescano nella paura.
A: C’è un futuro per i cristiani in Iraq. Molti Paesi europei hanno aperto le porte ai rifugiati, ma io ho deciso di restare con la mia famiglia, di non lasciare l’Iraq. Questa è la nostra terra e non dobbiamo lasciarla agli stranieri. Dovunque ci sono difficoltà e sfide, io conosco famiglie cristiane che hanno lasciato l’Iraq e non sono affatto contente. Molti ci hanno aiutato a rimanere qui. Oggi c’è fiducia, tranquillità, e questo deriva anche dalla nostra fede, nonostante tutte le circostanze ci spingano ad avere paura. Ma noi restiamo ottimisti, forti e fiduciosi.
In occasione del Natale, volete mandare un messaggio a quanti hanno cercato rifugio all’estero?
E: Il messaggio che vogliamo inviare loro è di avere fede in Dio. Se avessero avuto una fede salda in Lui, non avrebbero lasciato l’Iraq. Certo, molti sono stati costretti in passato, ma adesso è tempo di tornare. Perché questa è la nostra terra, le nostre famiglie non sono felici all’estero. Devono tornare e, insieme, ricostruire l’Iraq. E gremire con noi le chiese, per festeggiare. 
A: Io invito quanti stanno fuori a tornare. Questa è la nostra terra, specialmente quanti hanno trovato riparo nei Paesi che stanno attorno all’Iraq. Bisogna collaborare tutti assieme alla ricostruzione, per questo mi auguro che possano tutti tornare al più presto. Infine, voglio augurare ai cristiani di tutto il mondo, e in particolare ai miei fratelli irakeni, un Natale pieno di pace.