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29 novembre 2017

I cristiani sfuggiti allo Stato islamico: “Temiamo i nostri vicini musulmani”

Fulvio Scaglione

Kirshehir (Turchia).“Quando lavori con loro, per la prima mezz’ora va tutto bene. Poi ti chiedono: sei straniero, da dove vieni. Rispondo: dall’Iraq. E loro: sei cristiano o musulmano?. Rispondo cristiano, e le cose subito cambiano”.
Muthenna è un quarantenne grande e grosso, non è certo uno che si fa intimidire. Però, confessa, “di lavori ne ho mollati tanti per non dover sentire certi discorsi”.
Spieghiamoci meglio. Muthenna Solaga Ayub è scappato da Mosul (Iraq) nel luglio 2014 all’irrompere dell’Isis, portando con sé la moglie Hala e i tre figli piccoli, una borsa in cui avevano buttato poco denaro, le catenine dei bambini e null’altro. Non potevano fare altrimenti perché solo dieci giorni prima erano entrati nella casa nuova, “quella che doveva essere la casa della vita, in cui avevamo investito tutto ciò che avevamo, compresa la mia macchina e i pochi gioielli di mia moglie, per una spesa totale di 130 mila dollari. Siamo scappati in Kurdistan, abbiamo dormito per strada e nelle tende dei campi profughi, poi ci siamo detti: andiamo in Turchia e vediamo quel che succede. Siamo ancora qui”.
Qui vuol dire Kirshehir, una città da 100 mila abitanti sulle montagne dell’Anatolia dove i turchi hanno sistemato una comunità di profughi cristiani iracheni di circa 200 famiglie. Qui di cristiani non se n’erano mai visti e Muthenna, che deve lavorare per mantenere la famiglia, ha presto capito che cosa vuol dire il pregiudizio. Intanto, per un lungo periodo ha potuto lavorare solo in nero, adattandosi a tutto, perché i profughi non avevano diritto a trovarsi un posto di lavoro. E anche adesso che le regole sono cambiate, per i profughi, e per i profughi cristiani in particolare, i salari sono molto inferiori a quelli normali.
E poi la diffidenza, quando non l’ostilità, dei compagni di lavoro. “In certi posti volevano persino impedirmi di usare espressioni che sono arabe e che loro ritenevano riservate ai musulmani”. Per non litigare o fare a botte tutti i giorni, Muthenna ha spesso rinunciato al lavoro, anche se quattro bocche da sfamare lo attendono a casa. Però ha resistito, non si è piegato, e ha continuato a far valere l’esperienza di elettricista e idraulico maturata in patria.
E adesso, Muthenna? Tornerete in Iraq, ora che l’Isis sembra sconfitto? “Non ci pensiamo nemmeno”, è la risposta. “Abbiamo troppa paura, per noi cristiani (Muthenna e i suoi sono caldei cattolici, ndr) laggiù non c’è speranza né futuro. Volevano cancellarci, eliminarci tutti. Non possiamo fidarci di nessuno. Né della gente comune, le persone tra le quali vivevamo, i musulmani qualunque, che sono stati i primi ad aggredirci quando l’esercito si è ritirato da Mosul, né dai politici, che sono tutti musulmani. Laggiù non torneremo mai. Il problema è che ormai sta per cominciare il nostro quarto anno in Turchia e non abbiamo alcun segnale che riusciremo a emigrare in Occidente, come abbiamo chiesto agli uffici dell’Onu”.
Larsa invece ha 18 anni e sta per partire per il Canada. Lei, il fratello e la madre, cristiani siriaci, avevano chiesto due volte il visto per l’Australia, dove hanno dei parenti, e due volte sono stati respinti. Con le restrizioni introdotte da Donald Trump era diventato impossibile pensare agli Usa, così si sono rivolti al Canada, che ha aperto loro le porte. Anche loro sono di Mosul ma si vede che vengono da ambienti ben diversi rispetto a quelli popolari di Muthenna. Larsa e il fratello parlano benissimo l’inglese, lo hanno perfezionato nei tre anni in cui hanno aspettato il visto, vogliono studiare (da dentista lei, da programmatore di computer lui), sono arrivati a Kirshehir senza passare dai campi profughi. Ma la conclusione è la stessa: “Da quando siamo stati costretti a scappare da Mosul non abbiamo mai pensato, neppure per un secondo, alla possibilità di tornare in Iraq. Ci hanno tolto tutto. Non solo la casa, il lavoro, i beni, ma soprattutto la dignità, la possibilità di sentirci tra uguali. Noi sappiamo che i musulmani non ci sentono e non ci vogliono uguali a loro, che sono pronti a saltarci di nuovo alla gola alla prima occasione. Non torneremo più, anzi: andremo il più lontano possibile. Poi, certo, se tra dieci o quindici anni la situazione sarà cambiata, potremo anche tornare per una breve visita ai luoghi dei nostri antenati. Ma tornare a vivere in Iraq? Mai!”.
C’è qualcuno che, invece, vuole farlo? “Non so. Io sono venuta qui con mia madre e mio fratello, ma prima di noi erano arrivati a Kirshehir due nostre zii con le famiglie. Nessuno di noi ha mai sentito esprimere da qualcuno la volontà di rientrare. Tutti vogliono solo andarsene. E noi per fortuna stiamo per farlo”.
Terza famiglia, a metà strada tra quella di Muthenna e quella di Larsa. Lui, Adnan Barho, era capitano dell’esercito ai tempi di Saddam e poi interprete e factotum in una delle basi militari americane di Baghdad. Lui, la moglie Faten e i quattro figli sono scappati dall’Iraq prima dell’arrivo dell’Isis, nel 2012. “Avevo cominciato a ricevere minacce, sia perché lavoravo per gli americani sia perché siamo cristiani (sono caldei cattolici, ndr). Finché un giorno tre uomini armati hanno fatto irruzione nella nostra casa. C’era solo mia moglie con i bambini, quelli gridavano che volevano parlare con me, poi hanno preso i soldi e qualche oggetto e se ne sono andati. Qualche tempo dopo hanno cercato di rapirmi per strada e sono riuscito a scappare per miracolo. Era chiaro che ci avevano messi nel mirino e che prima o poi sarebbe successo qualcosa di davvero grave. Così siamo scappati da Baghdad, prima verso Mosul e infine qui, dove già vivevano dei nostri amici”.
Adnan e Faten non hanno lavoro, mentre i due figli più grandi fanno i garzoni da parrucchieri. Però Adnan dice che “in Turchia non stiamo male, la vita non è cara e abbiamo l’assistenza sanitaria gratuita. Come famiglia numerosa, riceviamo un sostegno di 200 dollari al mese, se stiamo attenti ce la caviamo. Però vorremmo andarcene da qui, in Europa se possibile, oppure in un qualunque posto normale dove sia possibile fare una vita normale. Ma siamo qui da cinque anni e non c’è segno che le nostre speranza possano avverarsi. Sembrava fatta per gli Stati Uniti, siamo stati anche tre volte a Istanbul a parlare con dei funzionari americani ma alla fine è crollato tutto, pare perché io sono un ex militare, quindi addestrato all’uso delle armi, e sono un rischio. Anche se ho lavorato per loro rischiando la pelle”. A questo punto interviene Faten, che già da qualche minuto si agitava sul divano. “Ma noi siamo cristiani, perché l’Europa non si muove, non fa qualcosa per noi? Per i musulmani è molto più facile partire, a quanto pare preferite loro a noi. Quando siamo arrivati a Kirshehir, nel 2012, c’erano 250 famiglie di cristiani iracheni e 500 famiglie di musulmani iracheni. Già 200 di quelle musulmane sono partite ma solo 75 di quelle cristiane. Perché?”.