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28 novembre 2017

A Mosul quattro mesi dopo la caduta: di ronda con i soldati musulmani che proteggono le chiese

By Corriere della Sera
Riccardo Bicicchi

La città vecchia di Mosul ad oltre quattro mesi dalla sconfitta del Daesh (acronimo arabo equivalente a Isis, ndr.) è un luogo spettrale. Il rullo compressore della guerra che ha infuriato per mesi l’ha devastata in ogni angolo, macinando un edificio dopo l’altro, macchine volate per aria come fossero fiammiferi, la polvere dei muri sbriciolati che ammorba l’aria sollevata dal vento, il manto stradale non esiste più, strappato via dalle bombe. Ma più di tutto qui regna palpabile il senso di una pace armata che ha tanto di provvisorio, giocata su un equilibrio precario tra la forte presenza militare in gran parte sciita e popolazione locale di rito sunnita. Qui, appena ad ovest del Tigri, è di stanza la 50° Brigata «Babiliun» (Babilonia), un’unità comandata da un cristiano caldeo che arruola anche molti giovani sunniti di Mosul, parecchi sciiti, persino un curdo.

Si occupano di controllare una porzione della città vecchia dove si concentrano alcune delle più antiche chiese cristiane, risalenti anche al quarto secolo, con al centro il grande convento dei Domenicani, che ospitava anche un famoso istituto per la conservazione ed il restauro dei testi antichi. In questa zona, vicino al grande mercato di Bab Al Tob, i Daesh hanno resistito a lungo all’attacco culminato con la presa di Mosul da parte dell’esercito iracheno all’inizio dell’estate. Ad oggi le stradine che si snodano tra gli edifici affastellati l’uno sull’altro sono ancora malsicure, dice Abdullah, 22 anni, musulmano sunnita di Mosul, rimasto per anni sotto l’incubo del Daesh e arruolatosi, appena il suo quartiere ad est è stato liberato, per partecipare alla liberazione della città.

Si muovono con grande circospezione tra le vie invase dalle macerie, aprendosi a ventaglio e controllando ogni ingresso. «Qua sotto è pieno di sotterranei e cunicoli, non sai mai chi ci può essere nascosto, i Daesh non sono affatto spariti», dice Abdullah, facendo con un sorriso il gesto di passarsi il rasoio sul mento, alludendo a quanti si sono tagliati le lunghe barbe per per filtrare tra le linee assieme ai profughi durante la caduta della città. Ci sono notizie di numerosi terroristi sfuggiti alla cattura.
«Chiediamo ai nostri fratelli cristiani di tornare a Mosul» dice il tenente Mohammad, «se Dio vuole elimineremo tutti i terroristi, i fratelli cristiani devono tornare al più presto».
«A Mosul ci sono tra le più antiche testimonianze della Cristianità decine di luoghi sacri, ma non c’è più la gente, i cristiani difficilmente torneranno, ci sono voci di un pugno di famiglie siro-ortodosse che sono qui in città, da qualche parte, ma è niente al confronto di quello che c’era prima»
, dice padre Thabat, incaricato di effettuare dei sopralluoghi nelle chiese devastate, alcune ancora mai visitate dalla caduta per via della situazione ancora molto delicata ed instabile.

Ci sono ancora i cadaveri per le strade, sepolti sotto le macerie, se ne avverte l’odore dolciastro, il corpo di un jihadista caduto a braccia spalancate imputridisce appena oltre il cancello della chiesa di San Tommaso, i brandelli di quello che era un uomo stanno ammucchiati dietro al pilastro a sinistra, nel porticato interno ce ne sono due, caduti davanti al portale abbattuti insieme da chissà quale ordigno. Nessuno li ha toccati, sono lì da mesi. L’odore è terribile. È scosso, padre Thabat, l’enormità della distruzione dei luoghi di culto cristiani, qui nella Mosul vecchia, è al di là dell’immaginazione. Gli uomini di Daesh si sono accaniti con su ogni angolo, distruggendo, abbattendo, dissacrando edifici maestosi ridotti a scheletri vuoti. Eppure le cupole private delle croci svettano ancora sul dedalo di stradine, a volte a pochi passi dalle moschee, nel profondo intreccio che la storia ha creato in questa città dalle radici cosi’ antiche.

«A Mosul si gioca la partita della pacificazione dell’Iraq, trovando un equilibrio tra potere sciita e popolazione sunnita. Siamo deboli, noi cristiani quaggiù, perché’ tanti, scoraggiati ed impauriti, scelgono la strada dell’emigrazione, presso qualche parente all’Estero, della fuga». Poi, con un sorriso amaro, padre Thabat aggiunge: «Forse, se non avessimo altra scelta che rimanere qui, saremmo più forti. Ma dobbiamo restare, ricostruire, salvare quello che rimane della Cristianità nella nostra terra».

Il governo di Bagdad ha promesso aiuti alla Chiesa per ricostruire gli antichi luoghi sacri, ma la devastazione è tale che serviranno anni e risorse immense. Padre Thabat non ha mai perso la speranza che la comunità internazionale continui a far arrivare il suo sostegno, ma non c’è tempo, bisogna fare in fretta, e davanti alle rovine di San Gabriele si appella alla coscienza del Mondo: «Sbrigatevi, qui a Mosul c’è una grande testimonianza cristiana, vi aspetta».