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16 ottobre 2017

Sako: i rischi di guerra Kurdistan-Iraq frenano il ritorno dei cristiani

By La Stampa - Vatican Insider
Gianni Valente

Non bastano le raccolte di fondi e le mobilitazioni di associazioni internazionali a garantire la permanenza di una presenza cristiana in Medio Oriente. Servono prima di tutto «soluzioni politiche» che assicurino stabilità e interrompano la spirale di conflitti e violenze che continua a violentare le vite di interi popoli. Il Patriarca caldeo Louis Raphael Sako, dopo aver presieduto il sinodo della sua Chiesa – svoltosi a Roma dal 4 all’8 ottobre – e dopo aver preso parte all’incontro di Papa Francesco con i Capi delle Chiese cattoliche orientali, delinea le incognite non rassicuranti che pesano sul futuro dei cristiani iracheni, con la Piana di Ninive che potrebbe trovarsi al centro di un nuovo scontro militare tra Baghdad e il governo indipendentista del Kurdistan. Nel contempo, il Primate della Chiesa caldea ripete che la permanenza dei cristiani in Medio Oriente è una questione che dipende dalla fede, più che da strategie politiche: «Noi cristiani vediamo come il Papa che l’unica nostra forza è la nostra fede. Non abbiamo nient’altro». 

La sconfitta dei jihadisti di Daesh non sembra garantire la pace in Iraq. E questo tocca anche la condizione delle comunità cristiane locali. Quale strada conviene seguire?  
«In Medio Oriente abbiamo bisogno di soluzioni politiche. Non ci servono solo aiuti economici e donazioni per un po’ di tempo. Le persone sono stanche di passare da una guerra all’altra, vogliono stabilità, vogliono vivere insieme in sicurezza, libertà e dignità. Ma all’Occidente questo non interessa. E dietro gli slogan su libertà e democrazia non c’è niente».
Da dove viene la difficoltà di comprensione in Occidente delle dinamiche mediorientali?  
«Ci sono due mentalità. L’Occidente ha come nuova religione l’ateismo pratico. Si percepisce un vuoto spirituale, e anche tanti cristiani appaiono tiepidi. All’opposto di questo c’è l’islam politico, in cui la religione si identifica e si fonde con la politica, viene assorbita dalla politica. I musulmani devono capire che il mondo è cambiato, che l’islam non è l’unica religione in Medio Oriente e l’unica strada per promuovere la convivenza e il progresso è un governo civile fondato sul principio di cittadinanza eguale per tutti».
C’è chi pensava di risolvere tutto «esportando» la democrazia con le guerre.
 
«La libertà e la democrazia in politica si acquisiscono accompagnando le persone in processi di formazione a lungo termine. Ma i capi politici dei nostri Paesi spesso perseguono solo i loro interessi personali di potere e di soldi, di corto respiro. Non si capisce dove stiamo andando, si capisce solo che a pagare sono i poveri e gli innocenti. Appena finita l’occupazione dello Stato Islamico, subito si è aperto un nuovo fronte di grande tensione e incertezza con il referendum indetto dal Kurdistan iracheno per proclamare la propria indipendenza».
Come vi ponete davanti alla questione curda?  
«In Iraq i curdi sono 5 milioni, ma nella regione, divisi tra Iraq, Iran, Siria e Turchia, sono 40 milioni. In linea di principio hanno diritto ad avere un loro Stato, ma questo deve essere preparato e negoziato tenendo conto dei contesti e dei momenti, trattando con i governi e la comunità internazionale, e certo non attraverso la politica dei fatti compiuti e con decisioni unilaterali».
I cristiani hanno appoggiato il referendum?
 
«Alcuni di quelli che si trovano in Kurdistan hanno appoggiato il referendum. Pensano che il loro futuro sia lì. È un loro diritto. Molti altri appaiono contrari».
Quali sono i problemi e i rischi?  
«Un problema irrisolto è quello delle cosiddette aree disputate, tra le quali c’è Kirkuk e anche la Piana di Ninive, la regione di tradizionale radicamento storico di tante comunità cristiane. È un problema che doveva essere risolto prima. Noi, come Chiesa, abbiamo sempre invitato le parti a confrontarsi dialogando. Temiamo che le strategie del muro contro muro finiranno per creare le condizioni di un nuovo conflitto, che sarebbe logorante e catastrofico».  
C’è pericolo che la situazione degeneri?  
«Si avverte una tensione già molto grande».
I cristiani della Piana di Ninive hanno davvero partecipato al referendum? E quanti?  
«Secondo me non molti. Proprio la Piana di Ninive adesso è un territorio diviso, per il modo in cui è avvenuta la liberazione dai jihadisti di Daesh. La parte nord è stata liberata dai curdi Peshmerga, e adesso è controllata militarmente da loro. La parte meridionale invece è controllata dall’esercito iracheno e dalle milizie di mobilitazione popolare, prevalentemente sciite, perché lì sono stati loro a sottrarla a Daesh. La situazione è delicata, gli equilibri sono fragilissimi». 
Il Comitato per il referendum del Kurdistan ha promesso ai cristiani l’autonomia nella Piana di Ninive. Una promessa che riaccende l’antico sogno di creare lì un’area autonomia protetta per i cristiani. Lei cosa ne pensa?
 
«Siamo abituati alle promesse da parte di tutti, sia da parte del governo centrale che da parte del governo regionale del Kurdistan. Occorre imparare le lezioni della storia. Non conviene fidarsi ciecamente o in maniera sentimentalista di chi fa promesse irrealiste. Anche perché loro non sono agenzie umanitarie. Se promettono qualcosa, lo fanno perché ciò rientra nei loro disegni politici».
Ci sono traffici di denaro per avere il sostegno delle sigle cristiane all’indipendenza del Kurdistan?
 
«La maggioranza dei partitini cristiani ricevono sovvenzioni, anche da persone influenti e in contatto con il governo regionale curdo. Un ruolo importante in questo continua ad averlo Sarkis Aghajan Mamendo, cristiano assiro, già ministro delle finanze della Regione autonoma del Kurdistan, che in passato ha indirizzato tanti fondi per finanziare progetti che stavano a cuore alle comunità e alle gerarchie ecclesiali presenti in Iraq».
Anche Lei è stato attaccato da alcuni militanti politici cristiani di quei partitini. L’hanno accusata di interferire troppo in questioni politiche.  
«La Chiesa non ha nessuna voglia di fare politica. Ma nella situazione di vuoto che stiamo vivendo, e nella totale assenza di punti di riferimento, noi dobbiamo dire una parola di giustizia e di saggezza alle tante persone che la chiedono. Vengono da noi perché non hanno altri a cui rivolgersi, ci chiedono aiuto per trovare lavoro, o ci chiedono di aiutarli a ritrovare i loro parenti che vengono rapiti».
Anche i curdi sono divisi tra loro.  
«Anche questo contribuisce alla generale incertezza. In Kurdistan ci sono forze politiche che sono contro l’indipendenza. E temo che la divisione tra indipendentisti e anti-indipendentisti verrà ulteriormente esasperata dall’embargo contro il Kurdistan. Già sono stati eliminati i voli internazionali verso Erbil. Se la situazione economica si complica, dove troveranno i soldi per pagare gli stipendi a militari, funzionari e impiegati pubblici?»A livello internazionale, finora, nessuno ha riconosciuto l’indipendenza del Kurdistan.  
«Però vengono fatti circolare molti “messaggi doppi”. Il Presidente francese ha detto che non era contrario. I canadesi hanno manifestato il loro appoggio. Gli statunitensi hanno in Kurdistan i loro consiglieri e certi congressmen. E poi c’è la posizione favorevole di Israele…».
Organizzazioni internazionali e anche tanti leader e apparati politici dicono di voler aiutare i cristiani. Ma sembrano affidare la sorte dei cristiani solo ai rapporti di forza geopolitici e alle mobilitazioni e pressioni organizzate dall’esterno.  
«Il Papa, quando ha incontrato i capi delle Chiese cattoliche orientali, ha ripetuto che i cristiani in Medio Oriente sono vittime della “guerra a pezzi” voluta dal diavolo. E ha detto a tutti di affidarci alla preghiera e al Vangelo per chiedere che sia custodita la presenza cristiana nelle nostre terre. Non ha fatto cenno a nessuno strumento di potere o di pressione politica o geopolitica. La permanenza dei cristiani in Medio Oriente è una questione che dipende dalla fede e dallo spirito missionario, più che da strategie politiche. Noi cristiani vediamo come il Papa che l’unica nostra forza è la nostra fede. Non abbiamo nient’altro. Solo la fede può far riconoscere che la presenza cristiana ha una missione in Medio Oriente: siamo chiamati a mostrare agli altri che c’è un altro modo di vivere e di agire. Tanti nostri concittadini musulmani ci apprezzano per come viviamo in famiglia, per la nostra lealtà, per le nostre opere, come ad esempio le scuole. Riconoscono che la nostra presenza porta un contributo positivo e indispensabile alla coesistenza nelle nostre società, nelle forme storiche in cui questa presenza si è espressa. Per questo, chi ci vuole davvero aiutare deve favorire questa simpatia nei confronti dei cristiani, e non deve separare o addirittura contrapporre i cristiani ai loro concittadini musulmani e di altre religioni. Questo può anche essere pericoloso».
Lei in passato ha denunciato che alcuni Paesi occidentali stavano favorendo l’emigrazione dei cristiani mediorientali e in questo modo contribuivano a svuotare il Medio Oriente dei cristiani. Ma alcuni giorni fa alcuni rifugiati cristiani in Libano hanno organizzato una manifestazione di protesta, accusando i vertici delle loro Chiese di frenare e sabotare le loro richieste di espatrio verso l’Occidente, per paura di perdere fedeli. Le cose stanno davvero così?  
«Assolutamente no. Non abbiamo mai chiesto in maniera né diretta né indiretta o ufficiosa di non dare i visti ai cristiani che vogliono espatriare. Andar via o rimanere è una decisione personale, da prendere in coscienza, e tale decisione va rispettata. Ma io come Patriarca non posso certo promuovere o sostenere l’emigrazione massiccia dei cristiani mediorientali. Inoltre, la Chiesa deve impegnarsi più a fondo nella pastorale dei propri fedeli che emigrano, affinché non dissipino in poco tempo tutta la ricchezza spirituale legata alla propria appartenenza alla Chiesa d’origine».A tal riguardo, il papa ha detto che la Chiesa non è latina o slava o bizantina, ma è «cattolica». Viene valorizzata o trascurata la ricchezza spirituale delle Chiese d’Oriente cattoliche come strumento per far percepire la cattolicità di Chiesa?  
«Tutti facciamo parte della Chiesa cattolica universale, ma questa appartenenza non vuol dire omologazione alle forme e alle dinamiche della Chiesa occidentale latina. La diversità nella comunione di chi appartiene alla stessa Chiesa è una ricchezza, e noi abbiamo bisogno gli uni degli altri».  
Il ritorno dei rifugiati cristiani alle proprie case nella Piana di Ninive è davvero consistente, come dicono alcuni, anche per mostrare l’importanza delle proprie iniziative di sostegno, o è esiguo, come dicono altri osservatori?
 
«Non bastano le offerte a favorire il ritorno degli sfollati, serve anche ricostruire e sviluppare le infrastrutture distrutte, le scuole, i dispensari. Ma occorre soprattutto riconoscere che l’incertezza sul futuro della Piana di Ninive e il rischio di un nuovo conflitto tra esercito governativo e Peshmerga induce tanti di loro ad aspettare, a prendere tempo. Attendono di vedere come va a finire. Spero che prevalga il dialogo, e non il caos e le armi che uccidono e distruggono tutto».