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13 settembre 2017

Perché in Iraq non rimangano solo i sassi

By Tempi
Rodolfo Casadei

Sono passati quasi undici mesi dai giorni della liberazione delle cittadine cristiane della piana di Ninive occupate dall’Isis nell’estate del 2014, ma i tempi più difficili per la sopravvivenza delle comunità nei territori che furono la culla del cristianesimo in Iraq sembrano essere arrivati adesso. Stephen Rasche, consigliere legale e coordinatore capo del Comitato per la ricostruzione di Ninive (che riunisce rappresentanti delle tre principali Chiese della regione, cioè quella caldea che è cattolica, la siriaco ortodossa e la siriaco cattolica), ha lanciato l’allarme con un memorandum e con un’intervista. A Rimini, dove il Meeting per l’Amicizia fra i popoli gli aveva riservato due interventi per illustrare le realtà dei cristiani perseguitati nel mondo, Kent Hill, direttore esecutivo dell’Institute for Religious Freedom di Washington, lo ha confermato in una dichiarazione a Tempi: in assenza di un deciso intervento internazionale, l’estinzione della presenza cristiana nella piana di Ninive è questione di mesi.
Scriveva Stephen Rasche alla fine del luglio scorso: «Se non saranno immediatamente messi a disposizione fondi per iniziare a ricostruire le case e i villaggi dei cristiani danneggiati e distrutti dall’Isis nella Piana di Ninive, la maggior parte dei cristiani iracheni che hanno trovato riparo dall’Isis in Kurdistan lascerà probabilmente l’Iraq in modo definitivo. Gli attori locali stanno iniziando un processo di reinsediamento e ricostruzione che potrebbe effettivamente determinare il destino di città storicamente cristiane nei prossimi 90 giorni. In molte di queste città le popolazioni sciite, finanziate da interessi esterni, hanno reso noto il loro desiderio di insediarsi in città e terre storicamente cristiane. Allo stesso modo, voci sunnite hanno notificato che le terre e le case cristiane “abbandonate” dovrebbero essere utilizzate per dare un alloggio ai musulmani sfollati da Mosul. Altre milizie rivali e organizzazioni politiche, molte delle quali estranee alla regione, stanno facendo richieste infondate riguardo a queste terre».
Kent Hill ha confermato i timori che circolano: «Due settimane fa ero a Erbil, e molti mi hanno detto che se i cristiani originari di Mosul non torneranno nelle loro case quanto prima gli sciiti prenderanno il loro posto. Ma l’Onu e gli Usa, che avrebbero le risorse per accelerare i rientri, stanno spendendo i loro fondi in base ad altre priorità. Gli unici che stanno spendendo in modo mirato per il rientro dei cristiani nei loro villaggi sono l’Ungheria e i Cavalieri di Colombo.
Entrambi hanno stanziato 2 milioni di dollari per riparazioni, restauri e ricostruzioni nelle cittadine cristiane della piana di Ninive».


Basterebbero 50 milioni di dollari
Agli sforzi del governo di Viktor Orban (che hanno consentito a 700 famiglie di rientrare nella cittadina di Teleskoff e nel villaggio di Baqofa) e della più grande organizzazione dei cattolici americani vanno sommati quelli di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs), che dopo aver raccolto e speso qualcosa come 30 milioni di euro fra il 2014 e oggi per l’assistenza umanitaria e i servizi sanitari e scolastici per gli sfollati in grandissima parte (ma non esclusivamente) cristiani, adesso ha stanziato 450 mila euro come primo contributo per la ricostruzione. Secondo Acs, l’intero costo per la riabilitazione delle cittadine occupate e in gran parte devastate ammonta a 250 milioni di dollari. Secondo Rasche, tenendo conto che alla fine l’Onu si occuperà almeno dei costi delle infrastrutture, «se spesi con oculatezza, 50 milioni di dollari potrebbero salvare questi antichi popoli».
La corsa contro il tempo per non farsi portare via la piana di Ninive non è l’unico problema che i cristiani stanno vivendo. Le tre Chiese più importanti della regione si sono riunite in un comitato per la ricostruzione che è un segno di unità ecumenica fra i cristiani, e quando il 27 marzo scorso l’iniziativa è stata ufficialmente presentata l’arcivescovo siro-ortodosso di Antiochia e priore del monastero siriaco ortodosso di San Matteo Timothaeus Mosa Alshamany ha esultato dicendo: «Oggi siamo una Chiesa davvero unita». Purtroppo agli sforzi per l’unità ecclesiale fa da contrappunto la frammentazione politica e militare. Mentre il numero dei cristiani presenti su suolo iracheno si è ulteriormente ridotto rispetto al passato (erano più di un milione ai tempi di Saddam Hussein) a una cifra stimata fra i 150 e i 200 mila, partiti politici e milizie si sono moltiplicati. Oggi sono censiti ben 12 partiti politici cristiani e 7 diverse organizzazioni armate. Queste ultime sono organiche ai partitini cristiani oppure sono legate al Pdk curdo o alle milizie sciite. La lista forse completa comprende le Unità per la protezione della Piana di Ninive (Nppu nella sigla anglosassone) che sono il braccio armato del Movimento democratico assiro, le Forze della Piana di Ninive affiliate al Partito Democratico Bet-Nahrain, le milizie del Consiglio popolare caldeo, siriaco e assiro, i Dwekh Nawsha (“Coloro che si sacrificano”) legate al Partito nazionale assiro, le Brigate di Babilonia, i Leoni delle Brigate di Babilonia e Kataib Rouh Allah Issa Ibn Miriam, che significa la Brigata dello Spirito di Dio padre di Gesù figlio di Maria. Le ultime tre entità sono strettamente legate (per addestramento, finanziamenti e disponibilità delle armi) alle milizie sciite riunite sotto l’ombrello delle Unità di mobilitazione popolare. Come appariva inevitabile, fra i vari gruppi sono accaduti incidenti, benché non letali fino a questo momento. Nel più serio di essi le Unità di protezione della Piana di Ninive hanno arrestato sei elementi delle Brigate di Babilonia accusati di furto, e queste ultime per rappresaglia hanno sequestrato armi e veicoli delle Nppu. Dopo questo avvenimento, accaduto all’inizio di agosto, il patriarca caldeo Louis Sako ha diffuso una dichiarazione molto dura nella quale puntava il dito contro i partiti politici e le fazioni armate «responsabili in grande misura delle sofferenze e del disordine in cui vivono i cristiani. Crediamo che una parte decisiva di questi patimenti sia causata dalle divisioni fra i partiti, dalla loro subordinazione ad altre forze e dal loro fallimento nell’unire gli sforzi e i ranghi e prendere una decisione unitaria».

Corteggiamenti e pressioni
La decisione unitaria alla quale Sako si riferisce è quella relativa al destino amministrativo e politico delle località cristiane della Piana di Ninive, che molti vorrebbero vedere riunite in una sorta di provincia autonoma. Il problema è se l’entità autonoma dipenderà dal Krg, il Governo regionale curdo che aspira all’indipendenza della regione, oppure dal governatorato di Mosul, oppure direttamente dal governo di Baghdad, o se sarà veramente autonoma, sul modello del Kurdistan iracheno. Come la pensi il patriarca di Baghdad si può desumere dalla dichiarazione scritta del 22 giugno scorso con la quale annunciava che la Chiesa caldea non avrebbe partecipato alla conferenza che alcuni partiti cristiani avevano organizzato a Bruxelles con la sponsorizzazione dell’Unione Europea, «nella convinzione che il futuro dei cristiani è legato al futuro di tutti gli iracheni, che essi sono parte integrante del tessuto di questo paese, e che il loro futuro deve essere immaginato e discusso all’interno della casa irachena».
Il problema con tutto questo è che oggi i cristiani ancora residenti in Iraq vivono quasi tutti nelle città del Kurdistan iracheno, soprattutto ad Erbil, e le località della Piana di Ninive che ora stanno faticosamente ripopolando dai giorni della caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003 sono state sotto il controllo politico e militare dei curdi, tranne nella parentesi che va dall’estate del 2014 al novembre 2016 (l’occupazione da parte dell’Isis). Fuori dal Kurdistan e dalla sua dependance politico-militare che è la Piana di Ninive, non restano che 5 mila famiglie cristiane a Baghdad, 300 a Bassora e spiccioli altrove. Alternando corteggiamento e pressioni, le autorità curde stanno cercando di convincere i cristiani ad appoggiare il referendum convocato dal Krg col quale il 25 settembre prossimo tutti coloro che vivono nei territori iracheni sotto controllo curdo saranno chiamati a scegliere pro o contro l’indipendenza della regione. Masud Barzani, presidente della regione autonoma curda dal 2005, ha promesso ai leader cristiani la piena autonomia della loro provincia all’interno di un Kurdistan indipendente, ma non ha convinto tutti. I sedotti però non sono pochi: il rappresentante cristiano nel consiglio provinciale di Kirkuk ha votato a favore della partecipazione della provincia contesa al referendum; il due volte deputato al parlamento nazionale ed ex vice ministro della Sanità della regione curda Abdulahad Afram Sawa, segretario generale del Partito democratico caldeo, ha manifestato il suo sostegno all’indipendenza del Kurdistan e auspicato che i cristiani votino in questo senso nel referendum; i sindaci delle cittadine caldee di Tel Kepe e Alqosh, contrari al referendum, sono stati rimossi per decisione del Consiglio provinciale di Ninive, controllato a maggioranza dal Pdk (il partito di Barzani) e sostituiti con elementi più in sintonia con la causa curda.
E il 25 settembre si avvicina.