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19 luglio 2017

«Mosul è stata liberata dall’Isis, ma i cristiani non possono tornare senza sicurezza»

By Tempi
Leone Grotti

Dopo oltre due anni di dominazione jihadista, la seconda città più importante dell’Iraq, Mosul, è stata liberata dall’esercito regolare il 9 luglio, al termine di due mesi di guerra feroce. I cittadini in festa ripresi dalle televisioni di tutto il mondo, che sventolano la bandiera irachena per le strade, fanno da contorno a una situazione umanitaria disperata: la città è ridotta a un cumulo di macerie e oltre 750 mila residenti sono fuggiti senza sapere quando potranno tornare. Per ricostruire solo le infrastrutture principali di Mosul serviranno miliardi di dollari. Dopo la liberazione, il primo ministro iracheno Haidar al Abadi ha dichiarato che «i membri di tutte le comunità etniche e religiose, compresi i nostri fratelli cristiani, devono tornare nelle loro case a Mosul».
L’appello è stato molto apprezzato, ma servirà un grande lavoro perché i cristiani ritornino a Mosul e nei villaggi della Piana di Ninive: «Prima di tutto bisogna garantire la sicurezza, altrimenti sarà impossibile», dichiara a tempi.it monsignor Basilio Yaldo, vescovo ausiliario di Baghdad.
 
Eccellenza, che cosa significa per l’Iraq la liberazione di Mosul?
La notizia è stata accolta con grande gioia da tutti gli iracheni, ma soprattutto dai cristiani, che in maggioranza provengono da questa antica città.
La sconfitta dell’Isis è la fine dei problemi dell’Iraq?
Di una parte sicuramente, ma non di tutti. Nelle città manca ancora la sicurezza, ad esempio, e il governo iracheno dovrà dimostrarsi forte e indipendente. 

Il paese sembra sempre più diviso: i sunniti contro gli sciiti, il Kurdistan che terrà a settembre un referendum per l’indipendenza. L’Iraq rischia di spaccarsi?
La divisione purtroppo è solo una questione di tempo e credo che ci sarà presto. Del resto, viene preparata con cura e strategia da 14 anni. Il terreno è già pronto, psicologicamente e geograficamente.
Nel 2003 vivevano 1,5 milioni di cristiani in Iraq. Oggi?
Siamo rimasti in 300 mila, forse 400 mila e tanti sono ancora costretti a vivere nei campi profughi nel Kurdistan.
I cristiani vogliono tornare ai loro villaggi o hanno paura?
Come Chiesa caldea stiamo aiutando la gente a ricostruire le case andate distrutte in vista del ritorno. Già più di 300 famiglie sono rientrate nel solo villaggio di Teleskof. Speriamo che tanti altri li seguano. Però…
Però?
Abbiamo bisogno di sicurezza, servizi sociali e sanitari, acqua, elettricità. Adesso non c’è più niente nei villaggi riconquistati all’Isis. Non solo. Molti cristiani non si fidano più dei loro vicini musulmani, perché tanti di loro si sono uniti ai jihadisti quando sono arrivati nei villaggi. Bisognerà ricostruire il rapporto.
Il governo ha promesso di aiutarvi a ricostruire?
Sì e speriamo che mantengano le promesse: molte volte in passato siamo rimasti delusi dal governo. Ma la Chiesa non aspetta e ha già preso l’iniziativa.
Sperate in un aiuto anche della comunità internazionale?
L’Iraq ha bisogno del sostegno internazionale per ricostruire il paese, non può farcela da solo. Ci vuole un intervento a livello mondiale ma noi cristiani iracheni speriamo soprattutto nell’intervento di Dio, che può cambiare ogni situazione. Ecco perché vi chiediamo di pregare per il nostro paese e per la pace, soprattutto per i popoli del Medio Oriente che stanno soffrendo immensamente in questo momento.
 
Il periodo più buio per i cristiani iracheni è passato?
Speriamo di sì, ma il futuro non è chiaro, è ancora fosco.

 Tutti i cristiani fuggiti all’estero in questi anni faranno mai ritorno in Iraq?
Quando ci sarà davvero la sicurezza torneranno. Già prima dell’instaurazione del Califfato islamico molti iracheni avevano deciso di abbandonare il paese, ma il nostro patriarca Sako li ha sempre incoraggiati a rimanere perché crediamo che la nostra missione sia testimoniare il Vangelo in questa terra martoriata.