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12 giugno 2017

Vi racconto la persecuzione dei cristiani in Iraq

By In Terris
Federico Cenci

“La mattina del giorno del suo martirio è venuto da noi e, prima di uscire, ci ha mostrato una foto (…) ed ha detto a sua madre: ‘Questa è per il mio funerale, così non te ne preoccupi. Te l’ho preparata e l’ho ingrandita per il cimitero’”. Così Aziz Ganni racconta il momento in cui ha visto per l’ultima volta suo figlio, padre Ragheed Ganni, ucciso a trentacinque anni da fanatici islamici insieme a tre suddiaconi presso la sua parrocchia dello Spirito Santo a Mosul, in Iraq.
Si tratta di un estratto del libro “Un sacerdote cattolico nello Stato Islamico – La storia di Padre Ragheed Ganni“, scritto dal suo amico e confratello padre Rebwar Audish Basa e presentato a dieci anni dall’assassinio (era il 3 giugno 2007) presso la sede di Aiuto alla Chiesa che Soffre, che del volume ne ha curato l’edizione.
La testimonianza del papà di questo sacerdote martire dà la misura della condizione vissuta dai cristiani in Iraq già prima dell’affermazione dell’Isis. Bersaglio di violenze da parte di gruppi o singoli islamici, vessati da istituzioni complici dei malfattori, essi da sempre si svegliano la mattina sapendo che il prezzo da pagare per la loro presenza in un Paese a maggioranza musulmana potrebbe essere il sangue.

Questa condizione di proscritto, di indesiderato, l’ha vissuta sulla propria pelle Wisam A. Khalil. Cattolico caldeo, amico fin dall’infanzia di padre Ganni, che ha anche celebrato il suo matrimonio, oggi vive con la famiglia vicino Roma ed è giornalista dell’AdnKronos International. InTerris lo ha intervistato.
Che ricordo ha del suo amico martire?
“Ogni angolo del centro di Roma contiene ricordi degli anni in cui io e padre Ragheed vivevamo entrambi qui ed eravamo vicini di casa. Era una persona molto attiva – collaborava con Aiuto alla Chiesa che Soffre e con la Comunità di Sant’Egidio – ed era anche molto spiritoso, aveva l’abitudine di raccontare barzellette. Perciò io ed altri amici ci siamo messi d’accordo, ogni volta che ci rincontriamo per ricordare padre Ragheed raccontiamo una delle sue barzellette. È un modo per tener viva la gioia che lui trasmetteva”.
Che valore assumono i tanti martiri per voi cristiani del Medio Oriente?
“Devo dire che assumono un valore negativo. Ogni cristiano che viene ucciso fa aumentare la consapevolezza della nostra disperazione. I cristiani in Iraq devono sopportare l’idea che periodicamente il loro parroco, il loro fratello di fede o un loro parente venga rapito e poi ucciso. Che speranza può esserci in un contesto così drammatico? È difficile persuadere una persona dalla fede tiepida quando la prospettiva da offrire è solo quella della sofferenza. Purtroppo dal sangue dei martiri nascono i semi della diaspora”.
Oggi le autorità irachene stanno facendo qualcosa per frenare la persecuzione?
Percepiamo la più totale indifferenza. Ma non è una novità. Prima che arrivasse lo Stato Islamico, già nel 2004, ci furono una serie di attacchi coordinati a Baghdad e Mosul, che provocarono decine di morti e centinaia di feriti, oltre a distruggere alcune chiese antiche. La persecuzione verso i cristiani è sempre esistita in Iraq, ma si è infiammata dal 2005. Dinanzi alle ripetute denunce di minacce ed anche di fronte alle violenze, il governo è però sempre rimasto a guardare. Ricordo che nel 2008, ci fu un attentato nella chiesa Nostra Signora del Buon Soccorso, che si trova vicino la sede del governo a Baghdad, ma nessuno fece nulla. In molti sono convinti che le autorità fossero complici degli attentatori”.
E da parte dei governi occidentali percepite una qualche vicinanza concreta?
“I governi occidentali non hanno mai esercitato una pressione efficace nei confronti di Baghdad per porre fine alle persecuzioni. Io mi spiego questa negligenza con l’opportunismo: in Iraq c’è il petrolio e la volontà di mettere le mani sui pozzi petroliferi è maggiore rispetto a quella di proteggere le minoranze perseguitate”.
Quanto è difficile per un cristiano nascere e crescere in Iraq?
“Fin dalle scuole per l’infanzia veniamo costretti a studiare solo la religione islamica ed è la norma essere insultati e provocati sui contenuti della nostra fede. Le donne cristiane, senza velo, vengono sbeffeggiate. Per questo spesso si sentono costrette ad indossarlo per poter essere assunte in posti di lavoro. Le racconto un aspetto che fa capire quanto sia difficile essere cristiani in Iraq”.

Prego.

“Nel mercatino più famoso di Mosul, già prima dell’occupazione dello Stato Islamico, venivano venduti Dvd che ripercorrono in modo amatoriale le esecuzioni di cristiani rapiti da gruppi estremisti islamici. Si tratta di esecuzioni agghiaccianti: persone che vengono torturate, a cui vengono tagliati gli arti per farle soffrire prima della morte. Uno di questi filmati riguarda anche un mio cugino di secondo grado, il quale è stato decapitato davanti alla telecamera”.
E simili filmati hanno mercato?
“Sì, assolutamente. Gli acquirenti di questi Dvd possono essere anche i nostri vicini di casa, non si tratta soltanto di persone che fanno parte di gruppi organizzati”.
Sono dunque comprensibili diffidenza e paura nella comunità cristiana. Sarà possibile in questo clima una pacificazione nazionale?
“Impossibile. Ora Mosul è quasi interamente stata liberata dalle forze irachene. Ma anche quando sarà stata eliminata l’ultima sacca di resistenza dell’Isis, dubito che la situazione potrà mai migliorare. Gli unici cristiani che torneranno a Mosul saranno quei pochi che non hanno un luogo dove essere ospitati da parenti all’estero e che non hanno soldi per poter emigrare. Del resto la paura è giustificata: anche i musulmani più moderati sono sempre rimasti inerti dinanzi alla nostra persecuzione, o perché conniventi al fanatismo oppure per paura di ritorsioni”.
Lei ha parenti profughi?
“Sì. Sono nel Kurdistan iracheno, nei campi profughi. La situazione per loro è disastrosa. I più fortunati vivono nelle roulotte fornite da Aiuto alla Chiesa che Soffre, mentre gli altri sono ammassati ormai da tre anni dentro le tende”.
In Occidente fanno più notizia gli attentati che ormai con una certa frequenza avvengono qui da noi, piuttosto che quelli, benché spesso molto sanguinosi, in Medio Oriente. Che percezione si ha di questo tra i cristiani iracheni?
“È inevitabile. Ieri (il 31 maggio, ndr) c’è stato un attentato in Afghanistan che ha provocato novanta morti: ha fatto scalpore sì, ma meno di quanto abbia fatto quello di qualche settimana fa a Manchester, perché l’opinione pubblica non è ancora molto abituata al fatto che i terroristi colpiscano Paesi occidentali. In Medio Oriente, tra i cristiani, non si dà importanza a questo diverso modo di dare e apprendere le notizie in Occidente”.
In passato si era parlato della possibilità, da parte del Parlamento di Baghdad, di modificare l’art. 26 della Costituzione, che costringe i figli di famiglie musulmane ad abbracciare la religione dei genitori. Si era detto che un’eventuale modifica sarebbe stata un passo verso la libertà religiosa. È ancora una strada percorribile?
“No, è una strada chiusa”.
Che futuro vede per il suo Paese?
“Un futuro cupo. Nel 2002 i cristiani in Iraq erano un milione e trecento mila, oggi sono trecentomila. Credo che arriverà il giorno in cui non ne resterà più nessuno. Ricordo un eloquente aneddoto storico. Quando gli ebrei di Mosul furono espulsi dal governo negli anni quaranta, dopo la seconda guerra mondiale, essi dicevano: “Oggi è sabato (giorno di festa degli ebrei, ndr), domani sarà domenica (giorno di festa dei cristiani, ndr)”. Sono stati profetici: l’esilio forzato degli ebrei ha solo anticipato quello odierno dei cristiani. La domenica è arrivata, purtroppo…”