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29 giugno 2017

Iraq, il villaggio distrutto dall’Isis dove sono rimasti solo i serpenti

Lorenzo Cremonesi

Un soffio ritmato, un sibilo a tratti acuto, ma poi più pesante, profondo come il battito d’ali di un grande volatile, pare persino il respiro di un bovino. L’altra notte suonava vicinissimo, amplificato dal buio sotto il cielo stellato senza luna e dal silenzio quasi perfetto nel cuore del nucleo urbano abbandonato. In un primo tempo veniva dalle macerie di una delle abitazioni più antiche del centro del villaggio, quindi da dietro il muro perimetrale della chiesetta medioevale di Santa Maria devastata dagli incendi appiccati nel 2014 dai jihadisti del Califfato, poco dopo echeggiava minaccioso tra le viuzze ingombre di calcinacci, schegge di vetro, mobili fracassati.
«Zarraga, Zarraga, attenti è il loro verso prima di attaccare», sussurrano spaventati i tre fratelli della famiglia Rammu. Miron, che ha ventun anni ed è il maggiore, stringe il manico del badile pronto a colpire. Gli altri, Marsen neppure ventenne e Firas di sedici, raccolgono da terra due pietre. «Zarraga sono le vipere del deserto. Animali velenosissimi, aggressivi, dal morso mortale, attaccano veloci se si sentono in pericolo e di notte sono ancora più imprevedibili. Possono ben superare i due metri di lunghezza. L’altro giorno hanno provato a morsicare uno di noi nel cimitero, abbiamo sparso la zona di zolfo per scacciarli. Una piaga: hanno tane nelle rovine delle case, si moltiplicano tra le immondizie, nessun contadino li uccide più», dice Miron.
È difficile vedere oltre il fascio di luce della nostra torcia. Sono solo due settimane che nella regione del paesino di Karemles è tornata l’elettricità. L’unica abitazione ad essere illuminata è la loro, sul perimetro settentrionale del villaggio aperto sui vecchi campi di grano che da tre anni nessuno coltiva più. «Isis si è trasformato in serpente», scherzano i fratelli. E in qualche modo le loro battute aiutano a dissipare la tensione nel cuore della notte, qui, tra uno dei sette villaggi cristiani abbandonati della piana di Ninive.
Ma l’invasione dei serpenti dove prima stavano gli uomini ha anche il sapore antico della metafora biblica. «Delle circa 1.000 famiglie cristiane che sino al giugno 2014 vivevano a Mosul, nessuna è ancora tornata, restano per lo più acquartierate ad Erbil. A Qaraqosh erano 8 mila, ne sono rientrate meno di 100. Delle 700 di Telkief, neppure una ha voluto tornare. A Bartella hanno riaperto casa solo in 8 su 2.750. Sono i sacerdoti locali a tenere conto degli spostamenti delle loro comunità. Le cifre che forniamo sono ufficiose, ma credibili. Qui nella mia parrocchia caldea di Karemles ci sono solo i Rammu, su 830 famiglie», spiega Paolo Mekko, parroco tra i più attivi sostenitori del ritorno alla vita di Ninive.
Su di una grande mappa appesa nei saloni appena ripristinati nella canonica dalla basilica centrale di Karemles è possibile cogliere il senso della devastazione causata da Isis, oltre alle difficoltà e ai ritardi della ricostruzione. «Delle 759 abitazioni originarie, 89 restano solo macerie, 241 sono state bruciate e 429 hanno subito danni non troppo gravi. Ci stiamo concentrando a riparare subito queste ultime», dice Mekko. Ma i lavori vanno a rilento. La tubatura municipale dell’acqua rimane interrotta nel punto in cui Isis nell’agosto 2014 la fracassò nello scavare trincee presso il villaggio di Shaquli, un chilometro più a nord di Karemles, dove gli abitanti sunniti restano sfollati a Mosul, non tornano nel timore di rappresaglie da parte di cristiani e curdi. Soltanto una decina di operai è al lavoro con una ruspa nel centro di Karemles. Gli echi dei successi militari contro Isis sembrano smorzarsi tra le fate morgane di questa pianura assetata. Mosul è solo 20 chilometri più a sud. Per capire le ritrosie degli abitanti sfollati aiutano le riunioni mensili aperte alle famiglie che si tengono presso gli uffici del patriarcato caldeo, nel quartiere cristiano di Ankawa a Erbil.
«Un conto è dire al mondo che i cristiani iracheni non vogliono abbandonare la loro patria storica, un altro è però tornarci davvero con l’incubo onnipresente che Isis possa riapparire più violento di prima», protestano forte in tanti. C’è chi chiede più fondi per finanziare milizie cristiane di autodifesa e chi invece vorrebbe la presenza di contingenti di pace internazionali. A Qaraqosh sottolineano che nei villaggi sunniti, in alcuni casi distanti solo quattro o cinque chilometri da quelli cristiani, Isis non solo non ha inferto alcuna distruzione, ma anzi, ha raccolto consensi e assoldato militanti. «Sappiamo che sono stati spesso i nostri vicini musulmani a rubare nelle nostre case, a svaligiare i negozi, a impadronirsi delle nostre auto, dei nostri mezzi agricoli», dice Labib Rammu, 55 anni, padre dei tre fratelli di Karamles. «La terra è più fertile che mai dopo tre anni di riposo», osservano. Presto torneranno a produrre cipolle rosse, che una volta erano famose in tutto l’Iraq. Ma l’ottimismo si vela d’incertezza quando mostrano sul cellulare le immagini del loro trattore rubato tre anni fa da Isis, ritrovato ai primi di giugno senza ruote e batterie a Mosul e ora già riparato e attivo nel loro campo. «Distinguere tra i civili sunniti che si sono impadroniti delle nostre cose e i militanti fanatici di Isis è difficile. Talvolta gli uni sono anche gli altri, sebbene adesso cerchino di prendere le distanze», aggiunge Rammu. Alla luce accecante della mattina le strade vuote di Karemles, le abitazioni silenziose, la vista delle macerie, appaiono più desolanti che mai. «Conquisteremo Roma», si legge su un muro delle quattro chiese devastate. «Gesù non è figlio di Dio, ma suo servo», recita un’altra scritta di Isis. L’odio di religione impera. Tanto che la minaccia dei serpenti sembra adesso poca cosa rispetto ai traumi subiti dalle popolazioni più settarie e più sulla difensiva che mai.