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23 maggio 2017

Ninive, rifugiati cristiani fra l’attesa del rientro e l’appello per una visita del Papa


La nostra identità appartiene “alla nostra terra” e solo quando “saremo tornati nelle nostre case” potremo dire di essere di nuovo felici e pacificati. Nel frattempo “i nostri figli partecipano alle attività del campo”, che servono a risvegliare e a mantenere viva la voglia di tornare, che "nutrono l’attesa” del rientro a Karamles. 
È quanto racconta ad AsiaNews Naseem Kuder Sulaiman, 47enne ingegnere originario della cittadina della piana di Ninive occupata nell’estate del 2014 dallo Stato islamico (SI). In attesa del completamente dei lavori per poter ritornare “nella mia casa, nella mia terra”, egli lancia un appello a papa Francesco perché “una sua visita in Iraq vorrebbe dire fortificare la Chiesa qui, sentire di non essere dimenticati”.
Naseem è sposato con la 42enne Wafaa Quruaqos Toma, casalinga. La coppia ha quattro figli: Sulaiman, di 15 anni, studente alle scuole medie, San, 12 anni, anch’egli alle medie, Sizan, 7 anni, che frequenta le elementari e la piccola Rahaf, di 3 anni, che va all’asilo. Essi hanno lasciato la loro casa e i loro beni nella notte del 6 agosto 2014, quanto le milizie jihadiste dopo aver conquistato Mosul (a giugno) hanno esteso il loro controllo su gran parte della piana di Ninive.
Da tempo vivono in un complesso affittato dalla Chiesa irakena a Erbil e hanno potuto superare difficoltà e ristrettezze grazie all’opera di don Paolo Thabit Mekko, 41enne sacerdote caldeo di Mosul, responsabile del campo profughi “Occhi di Erbil”, alla periferia della capitale del Kurdistan irakeno. Nell’area hanno trovato nel tempo rifugio centinaia di migliaia di cristiani, musulmani e yazidi in seguito all’ascesa dello SI. La struttura ospita 140 famiglie, circa 700 persone in tutto, con 46 mini-appartamenti e un’area per la raccolta e distribuzione di aiuti. A questo si sono aggiunti un asilo nido, una scuola materna e una secondaria.
L’offensiva sferrata nell’ottobre scorso dall’esercito irakeno, sostenuto da milizie curde, ha permesso di liberare i villaggi e le cittadine della piana; ora la battaglia si concentra sul settore occidentale di Mosul, dove permane una sacca di resistenza jihadista. Di contro, a Karamles come in molte altre cittadine di Ninive è iniziata la lenta e faticosa opera di ricostruzione, testimoniata anche dalla celebrazione della messa delle Palme nella chiesa devastata dall’Isis.
Nelle scorse settimane la Chiesa caldea ha redatto un bilancio dei danni causati dai miliziani fondamentalisti sunniti: 241 case bruciate, 95 abitazioni distrutte, danni ad altre 431 case oggetto di ruberie e saccheggi. Ultimato il lavoro di documentazione, i vertici cristiani hanno avviato la ricostruzione partendo dalle case che avevano subito i danni minori. Le risorse sono scarse, mancano i fondi e le infrastrutture scarseggiano. Per questo nessuna famiglia ha potuto fare ancora un ritorno stabile a Karamles, anche se la speranza è quella di poterlo fare a breve.
“L’attesa è difficile, stancante, snervante - racconta Naseem Kuder Sulaiman - la fuga è stata pesante e la situazione di stallo non aiuta”. “Viviamo tutti in una stanza - prosegue l’uomo - e condividiamo l’appartamento con un’altra famiglia. Quindi c’è una pressione su di noi, piccola o grande, come si può ben immaginare”. Il pieno recupero dell’identità, prosegue, passa anche attraverso “il ritorno nelle nostre case”. In un secondo momento si affronterà poi il problema della convivenza con i musulmani, sebbene il radicalismo islamico abbia “cambiato molte cose e la sfiducia verso i musulmani è aumentata”. “Speriamo - aggiunge - di trovare una intenzione sincera da parte loro, che vi sia un reale desiderio di convivere senza discriminazione, mettendo al bando gli atteggiamenti aggressivi” del passato.
Per il futuro il desiderio è quello del rientro di tutti i profughi nelle loro case, la pace e la ricostruzione di infrastrutture e servizi. Oggi si continua a vivere, e a sopravvivere, grazie all’aiuto della Chiesa “senza la quale non ce l’avremmo mai fatta. La Chiesa ha compiuto un’opera grande in questo arco di tempo”. “Nonostante le sofferenze - sottolinea Naseem - e proprio in virtù di ciò che abbiamo patito, la nostra fede si è fatta più salda e forte. Questo è ciò che conta per noi”. Ai cristiani in Occidente e nel mondo l’appello perché “si muovano attivamente, come già fatto in passato, per contribuire a questa nuova tappa della ricostruzione, perché i cristiani possano continuare a restare qui in Iraq”.
Da ultimo, il desiderio di una visita di papa Francesco in queste terre segnate dal terrorismo e dalla violenza. “Noi cristiani orientali - afferma - abbiamo una grande stima dei capi religiosi. Lanciamo un appello al Santo Padre: Benedetto chi viene nel nome del Signore, perché una sua presenza qui avrebbe effetti positivi”. “Noi vi aspettiamo - conclude - perché siete nostri fratelli. Continueremo a restare qua, se voi sarete accanto a noi”.