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5 aprile 2017

La dignità e la voglia di vivere dei profughi

By La Provincia Pavese
Gaia Curci

Migliaia e migliaia di sfollati che hanno costruito, seppur nel dolore, un’oasi di pace e rinascita nel deserto della guerra e del sangue. Sono gli sfollati di Erbil, nel Kurdistan iracheno, che descrive Alfonso Fossà, medico in pensione testimone del loro miracolo viaggiando in Medio Oriente con l’Associazione volontari servizio internazionale. Fossà, direttore sanitario dell’Asl di Pavia dal 1996 al 2002, è stato per tre settimane nel 2015 ad Erbil e per venti giorni nel 2016 a Damasco, in Siria, assieme ad un gruppo di volontari che aveva il compito di individuare gli obbiettivi su cui investire ed impegnare i fondi dell’associazione raccolti in Italia. Racconterà della sua esperienza oggi (mercoledì 5 aprile) alle 21.15 nell’aula Magna dell’università di Pavia.

Fossà, qual è stata la sua prima impressione giungendo ad Erbil?
«Di un immenso paradosso quasi incomprensibile per noi occidentali, abituati, nonostante la pace, alle continue lamentele: l’umile accettazione, senza rassegnazione, della violenza umana. La città ospita un campo profughi dietro l’altro, è abitata da gente di diverse estrazione sociale, lingua e religione, costretta a vivere in simbiosi l’una con l’altra. La povertà è assoluta, ma io non ho mai sentito nessuno lamentarsi. Gli sfollati mi hanno ricordato spesso il tragico esodo che li ha portati via dalle proprie case a causa della minaccia dell’Isis e io sono rimasto turbato dalla mancanza di disperazione nelle loro storie. Mi ha sconvolto il loro estremo desiderio di vivere che è più forte della morte. Quelle persone vogliono solo ricostruirsi una vita».
Non cercano vendetta?
«Vendetta e odio no. Sanno, però, di essere vittime dell’Isis e quindi che è loro dovere difendersi: vogliono andare in guerra. Ad Erbil, ad esempio, si trovano negozi d’armi che vendono kalashnikov a prezzi stracciati. Io ho visto i giovani acquistarli con quel poco che rimaneva loro, unirsi ai contingenti europei per un addestramento base e poi trasferirsi al fronte infoltendo le fila dei peshmerga e dei soldati curdi».
Che maggioranze etniche abitano i campi?
«Ci sono musulmani, cristiani e yazidi. Tutti vivono in armonia. Hanno una storia tremenda, sopportano una situazione di campeggio selvaggio, servizi igienici pessimi, impossibilità di trovare lavoro e difficoltà di comunicazione perché si esprimono in lingue differenti. Per mangiare aspettano gli aiuti degli organismi internazionali, piuttosto che dei singoli cittadini. Io stesso sono testimone di un musulmano che ha distribuito bancali di migliaia di uova ai bisognosi. Ho partecipato a una via crucis cattolica il venerdì prima della domenica delle palme che ha unito tutte le confessioni con un sentimento inimmaginabile. Forse più vero e autentico di come possiamo viverlo noi».
La sofferenza più grande a cui ha assistito?
«Stavano cercando un modo per fare abortire 300 donne stuprate che si rifiutavano di portare a termine la gravidanza dovuta alla violenza da parte dei soldati dello Stato islamico».
E a Damasco com’è la situazione?
«L’anno scorso ho visto una città piena di vita, con i negozi affollati e le strade trafficate. Ma c’era qualcosa che non andava: notavo donne e bambini ovunque, almeno otto per ogni uomo. E gli uomini erano solo fanciulli o anziani, mentre gli adulti stavano in guerra o nella tomba. Di sera si sentivano le bombe in lontananza eppure i cittadini andavano avanti a fare festa come se nulla fosse. Anche lì prevale la voglia di vivere a discapito di ogni cosa».