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27 marzo 2017

Iraq. 200 morti nei raid, a Mosul ovest situazione disperata


Sono oltre cento i corpi tirati fuori finora dalle macerie a Mosul ovest, dopo il bombardamento del 17 marzo scorso effettuato dalla Coalizione a guida statunitense e sul quale è stata aperta un’inchiesta. Se verrà confermata la stima fatta di 200 vittime civili – alcune delle quali potrebbero essere state uccise per mano dei jihadisti del sedicente Stato islamico – sarà ricordato come uno dei peggiori episodi di questa guerra. Mosca, intanto, ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu un briefing speciale sulla situazione a Mosul. Roberta Barbi ha raggiunto telefonicamente per una testimonianza, il Patriarca caldeo di Baghdad, Louis Sako:

Mosul ovest è la città antica di Mosul: le case sono legate le une alle altre; non ci sono viali, le macchine non possono entrare ma solo la gente vi può camminare o usare la bicicletta. È una guerra molto complicata e anche tragica: come fare? Come liberare questa parte? Perché questi jihadisti sfruttano i civili… è una tragedia!
L’offensiva delle forze irachene - sferrata il 19 febbraio scorso per la riconquista di Mosul ovest dopo aver liberato l’est dallo Stato Islamico - non è proceduta rapidamente come si sperava: a che punto è?
Le forze  irachene hanno liberato il 60-70 percento di Mosul, ma per il restante 40 la situazione è molto complicata. Le case sono fragili: non è come la parte est dove le case sono state costruite con il ferro e il cemento. L’esercito vuole salvaguardare la vita dei civili, ma penso che sia quasi impossibile.
Mentre nella parte orientale molti decidono di restare, da quella occidentale si fugge appena possibile. Ma le operazioni umanitarie si stanno rivelando più difficili e pericolose del previsto. È davvero così?
Sì è vero, perché la settimana scorsa 500 civili sono morti sotto le rovine delle case. Anche noi, come Chiesa caldea, abbiamo fatto una dichiarazione nella quale affermiamo che siamo vicini a questa gente. Ci sono anche famiglie sfollate: finora 210mila persone sono sfollate, vivono nei campi, sotto le tende, in condizioni non degne. E noi la settimana prossima andremo a portare gli aiuti per dire loro che gli siamo vicini. Mosul è la culla della nostra Chiesa.
Sembra che da Mosul ovest, oltre ai 180mila sfollati già conteggiati, potrebbero aggiungersene altri 320mila: dove verranno portati?
Ci sono già dei campi che sono stati preparati nella periferia di Mosul, un po’ più lontano da questa guerra. Finora sono 400mila i civili rimasti a Mosul Ovest. Dall’inizio della guerra quattromila persone sono morte e diecimila case sono state distrutte a Mosul.
Da poco la prima famiglia caldea è tornata nella Piana di Ninive: com’è la situazione per i cristiani laggiù?
Ci sono già cinque famiglie, non solo nella Piana di Ninive ma anche a Mosul nord. Nella Piana di Ninive, al confine nord – già a Teleskov, Bakova, Batnaya – lì le condizioni sono sicure e le persone sono libere di tornarvi. E noi abbiamo aiutato le famiglie che sono volute ritornare per restaurare le loro case, anche per comprare anche ciò di cui avevano bisogno. Adesso ci sono quasi 250 famiglie a Teleskov. Poi a Bakova alcune famiglie sono iniziate a ritornare, e questa settimana anche a Batnaya. Invece, al confine sud – come a Qaraqosh – è più difficile perché c’è un problema politico: c’è una tensione tra gli sciiti, i turkmeni, i sunniti, i curdi e i cristiani. E questo problema politico non è ancora stato risolto. Ci sono dei segni, è una presa di coscienza che non si può continuare così: anche il governo iracheno insieme a quello curdo afferma che bisogna cambiare la cultura e la mentalità, ma anche le leggi. C’è bisogno di uno Stato civile, con una separazione tra religione e politica, basata sulla sola cittadinanza. Non c’è altra soluzione, e non avremo futuro finché queste tensioni settarie continueranno.