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9 febbraio 2017

Ritorno a Ninive

By Tempi
Sebastiano Caputo

Quel mosaico etnico-religioso ridefinito in epoca coloniale “Medio Oriente” vive una seconda decomposizione. La prima tragica pagina fu scritta nel maggio del 1916 in un contesto storico che vedeva trionfare l’Intesa nella Grande Guerra tanto da far presagire con qualche anno di anticipo il crollo del già decadente Impero Ottomano. Così nel gigantesco risiko della diplomazia internazionale si iniziavano a commissionare territori, tracciare nuovi confini, smembrare intere nazioni. Tra questi giochi di potere risaltano, per importanza nelle sorti future di tutta la regione, gli accordi segreti anglo-francesi di Sykes-Picot, i quali mutilarono quella che un tempo veniva chiamata la “Grande Siria” (vale a dire un vasto territorio confinante con il mar Mediterraneo a ovest, il deserto arabico a est, l’Egitto a sud e l’Anatolia a nord) e gettavano le basi per la ridefinizione della Mesopotamia. È nel 1918 infatti che i militari di Sua Maestà occuparono i vilayet di Bassora, Baghdad e Mosul per poi riunirli in un unico stato arabo comprendente i bacini medi e inferiori del Tigri e dell’Eufrate, che venne chiamato Iraq (2 marzo 1921).
È proprio nella cosiddetta “Mezzaluna fertile” che milioni di persone di etnia e fede religiosa diversa furono costrette dai divertissement post-coloniali ad auto-organizzarsi come nazioni più o meno indipendenti. La grandezza di questi stati nati sulle ceneri dell’Impero Ottomano fu quella di riuscire con il passare degli anni a creare dei sistemi di governo laici (Egitto di Nasser, Siria degli Assad, Iraq di Saddam Hussein) o multiconfessionali (Libano), in grado di accontentare tutti i gruppi etnico-religiosi, in particolare le antichissime comunità cristiane. Eppure fu così che l’Occidente, incapace di vedere la complessità della regione al di là dei suoi interessi, decise all’indomani della Seconda Guerra mondiale di firmare un accordo tacito con l’Arabia Saudita, petro-monarchia sunnita del Golfo, custode contestata dei luoghi più sacri dell’islam, ma soprattutto grande sponsor di quel jihadismo diffusosi dall’Afghanistan dei mujaheddin fino al Siraq dei miliziani comandati dal califfo Abu Bakr Al Baghdadi.
È attraverso le madrasse (scuole coraniche) di matrice wahabita che il terrorismo si è fatto strada, ed è sulla reazione all’occidentalismo che ha raccolto nuovi proseliti in tutto il Medio Oriente, in particolare tra le nuove generazioni. Del resto il sedicente Stato islamico non è la causa, ma il sintomo della disgregazione dei popoli, ed è effettivamente su questo cortocircuito che riesce ad alimentare la sua ideologia mortifera. Ideologia mortifera che si rifà alle prime comunità islamiche che propagarono la nuova religione tramite una serie di straordinari successi militari e che si organizzavano secondo uno schema teologico molto semplice: obbedienza a un califfo e intolleranza verso tutte le minoranze religiose.
Nel 2014, poco dopo lo storico discorso da Mosul di Al Baghdadi, i miliziani presero il controllo del Sinjar e della Piana di Ninive, nell’Iraq settentrionale, ancora caratterizzate da una grande varietà etnico-religiosa. Gli abitanti yazidi, popolo che adora il fuoco, subirono massacri e stupri mentre i cristiani di quelle terre, eredi dell’arcaica civiltà assira, furono espulsi, costretti a lasciare le loro abitazioni insieme a quei monasteri del sesto secolo scavati nelle rocce delle montagne. Nel 1987 i cristiani d’Iraq erano un milione e 400 mila, cioè l’8 per cento della popolazione del paese. Oggi sono appena l’1 per cento, circa un terzo sono profughi e vivono principalmente nei campi allestiti tra Erbil e Dohuk. È in queste distese di prefabbricati dove l’elettricità e l’acqua stentano ad arrivare, che vivono decine di migliaia di famiglie, alcune ferite nel profondo a causa della perdita di uno o più membri.
«Ero a Karamlis quando i soldati di Daesh hanno preso la città, ero malata a casa, i miei figli si erano trasferiti a Erbil qualche giorno prima, appena avevano saputo che l’offensiva sarebbe stata imminente. Dissi che li avrei raggiunti presto, ma fu troppo tardi», racconta a Tempi una vecchia donna di 92 anni mentre stringe il crocifisso. Si chiama Myriam e vive nella capitale curda insieme ai suoi concittadini fuggiti anche loro dalla Piana di Ninive.
«Combattiamo per l’umanità»
«Avevo la febbre, non potevo uscire, così sono venuti tre soldati a casa mia, giovani, barbuti, due erano iracheni, uno sembrava che venisse dal Pakistan», continua la donna. «Faceva caldo, non c’era elettricità né acqua, presero delle sedie e si misero accanto a me. Videro che stavo male, mi proposero di mandarmi a Mosul che allora era stata conquistata da Daesh, lì c’era l’ospedale. Ma c’era una condizione fondamentale: mi dovevo convertire al loro credo altrimenti mi avrebbero trattenuta qui e poi chissà. Non avevo paura, ormai sono anziana. Rimasi nella mia città, occupata da questa gente, per due settimane, fino a quando capirono che era meglio mandarmi via. Mi misero in una macchina insieme ad altre tre persone, cristiane e ci lasciarono andare a Erbil, dopo aver preso tutti i nostri risparmi e i nostri beni». 

Quella di Myriam è solo una delle tante testimonianze che si possono raccogliere nei campi di rifugiati cristiani nel Kurdistan iracheno. La maggior parte di queste persone vivevano negli antichi villaggi disseminati nella Piana di Ninive, intorno a Mosul, liberati uno a uno dall’offensiva lanciata dall’esercito iracheno (Qaraqosh, Karamlis, Bartella e Telkeif) e curdo (Bakshiqa, Teleskoff, Batnaya, Baqofa) a ottobre del 2016 e tuttora in corso.
L’occupazione di questa terra, durata oltre due anni e mezzo, è stata brutale e non ha risparmiato le chiese che un tempo accoglievano i fedeli. Gli scontri a fuoco supportati dall’aviazione lasciano dietro di sé solo macerie. Non c’è un’abitazione che sia rimasta in piedi, di civili neanche l’ombra. Le mine sono state impiantate ovunque, il più delle volte sono artigianali, mimetiche, e fanno saltare in aria chi ritorna a casa per la prima volta dopo tanti anni. Eppure c’è ancora qualcuno disposto a difendere e a ricostruire l’antica Mesopotamia. Sono giovani cristiani, riuniti sotto la sigla Nineveh Plain Protection Unit (Npu) e comandati dal generale Abbosh, un militare di 65 anni un tempo membro dell’esercito di Saddam.
«Prima dell’arrivo di Daesh la sicurezza era gestita dai Peshmerga curdi i quali non sono riusciti a fronteggiare le colonne di pick-up e blindati sui quali sventolavano le bandiere nere», spiega il comandante a Tempi. «Così, quando fummo avvertiti due anni e mezzo dopo, nell’ottobre del 2016, di un piano militare da parte dell’esercito iracheno per riconquistare la Piana ho deciso di collaborare attivamente. Chi meglio di noi abitanti conosce questi villaggi? Da solo, senza soldi né armi, ho radunato qualche giovane, fino a quando, in accordo col governo centrale di Baghdad, sono riuscito a mettere su una vera e propria milizia cristiano-irachena. Eravamo in pochi all’inizio, oggi siamo più di mille, e da quando le nostre città sono state liberate le presidiamo direttamente noi».
La liberazione dell’intera piana non sarebbe stata possibile senza la determinazione delle milizie sciite. Nell’unico chiosco aperto di Qaraqosh ci si avvicina un generale con un turbante bianco sul capo e, porgendoci del tè caldo, pronuncia a bassa voce queste parole: «Benvenuti, noi siamo musulmani sciiti, veniamo da Najaf e Kerbala per aiutare i cristiani a tornare nelle loro case. Così facciamo anche in Siria. La nostra è una battaglia per l’umanità».
Gli abitanti della Piana di Ninive non sono soli. Al loro fianco ci sono tante associazioni locali e organizzazioni non governative. Tra le più attive c’è Sos Chrétiens d’Orient (Ong fondata da Charles De Meyer e Benjamin Blanchard), un gruppo di volontari francesi dispiegati tra Erbil e Alqosh. Assieme ai rifugiati tornano nei villaggi cristiani della Piana di Ninive per ricostruire le case distrutte dalle bombe. «La nostra missione è quella di aiutare le persone a restare nel loro paese, farle scappare dall’Iraq non serve a nulla, la grande tradizione cristiana d’Oriente ha bisogno di loro», dice il capo della missione François Xavier Gicquel.
Una guerra senza fine possibile
È una sfida difficilissima. Il problema di questa regione del mondo non è la povertà che al contrario genera vita, ma la miseria, la disperazione, la frustrazione per le ingiustizie subite negli ultimi decenni. Ogni persona incontrata per strada ha una storia da raccontare. Ma accanto all’orgoglio c’è sempre un sentimento diffuso di amarezza, quasi una nostalgia per un avvenire che non si è mai manifestato. Dal 2003, anno in cui gli Stati Uniti hanno rovesciato Saddam disintegrando prima il partito Baath e poi l’esercito, l’Iraq sembra non essersi mai ripreso, e molto velocemente le promesse si sono rivelate semplici calcoli di geopolitica. Forse è anche questo uno dei motivi che ha spinto parte delle popolazioni sunnite ad accettare l’arrivo di Al Baghdadi. Il paragone con la Siria è inevitabile. Da oltre due anni questi due paesi combattono contro lo stesso nemico: Daesh. Ma c’è una differenza sostanziale. In Siria la guerra si protrae dal 2011 mentre in Iraq questa è cominciata nel 1980 e non se n’è mai andata. Prima lo scontro con l’Iran, poi il Kuwait, il conflitto del Golfo del 1990, l’indipendenza del Kurdistan, l’invasione americana del 2003, l’esplosione del terrorismo interno, l’embargo, la creazione di Al Qaeda, infine la nascita del Califfato.

Se in Siria i ricordi di come si viveva prima del conflitto bellico sono ancora nitidi, in Iraq le persone hanno completamente perso la memoria e vivono nella frustrazione, tradite dalle promesse, stanche di credere che le cose prima o poi cambieranno. Tutti vogliono lasciare la loro terra, c’è chi vuole andare in Europa, chi in Australia, chi ancora negli Stati Uniti d’America. Come non comprendere quelle famiglie che in tre decenni si sono trasferite da un villaggio all’altro, hanno visto la loro casa distrutta dai bombardamenti e oggi abitano, senza alcuna prospettiva, nei campi di rifugiati?

In Siria, a differenza dell’Iraq, l’ottimismo è più forte della frustrazione. La guerra ha la capacità e la forza di trasformare l’approccio spirituale che solitamente ogni essere umano intrattiene con l’esistenza. Provate a chiedere a un bambino di Aleppo, Homs o Damasco cosa vuole fare da grande. Risponderà entusiasta: «Il cecchino!», «il carrista!», «il pilota!». Esiste infatti tra le nuove generazioni un sentimento diffuso di speranza perché la pace è un ricordo vivo e ancora tangibile. In Iraq invece si ha paura dell’avvenire, o meglio lo si conosce già: è un’illusione che la sconfitta del Califfato porterà a soluzioni pacifiche. Tutti dicono che nascerà un nuovo fondamentalismo, occidentale o islamista che sia.
La rassegnazione non fa altro che accelerare quella disgregazione dei popoli iniziata tanto tempo fa. Come potranno gli iracheni in un futuro ricostituirsi in società civile se mancherà la fiducia nel prossimo? I vicini di casa si sono traditi a vicenda per salvarsi la pelle, i cristiani puntano il dito sui sunniti che vivono sotto l’occupazione dell’Isis, i sunniti danno la colpa agli sciiti per averli messi ai margini dello Stato, gli sciiti approfittano del momento storico per vendicarsi contro i sunniti. Tutti hanno torto e ragione allo stesso tempo. Ma oggi è questo l’Iraq. Un paese che prima degli anni Novanta con tanti problemi interni e lati oscuri riusciva a trovare forme alternative di convivenza, ma che di fatto non esiste più da quando la burocrazia statunitense ha puntato sul fattore etnico-religioso per mettere gli uni contro gli altri ed espandere la propria egemonia nella regione.
«Hanno sofferto troppo»
È la storia di un grande cortocircuito quella che ha portato l’Occidente, sempre più incapace di comprendere lo spirito che anima quei luoghi, ad accelerarne la decomposizione. Nel libro Regni dimenticati lo scrittore inglese Gerard Russell confuta così l’islam proposto dalla nuova teologia del jihad: «Quando accentuano il fatto che i primi musulmani propagarono la loro religione con la forza delle armi, dimenticano che la costruzione di uno stato comportò ben altro che la violenza. L’epoca d’oro dell’islam vide anzi i sovrani musulmani fare largo uso delle competenze delle altre comunità religiose che vivevano nei loro domini».

È una verità storica che coincide perfettamente con i racconti di vita vissuta che si raccolgono sul posto. Un giorno un generale di confessione islamica racconta dell’imminente matrimonio della figlia, ma non lo fa in modo gioioso. I suoi occhi sono lucidi, il volto è tormentato: «Siamo felici per entrambi, ma abbiamo deciso tutti insieme che non ci saranno festeggiamenti né cerimonia. Non ce la sentiamo, i nostri fratelli iracheni, in particolare di fede cristiana, hanno sofferto troppo in questi ultimi anni».